Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 agosto 2021, n. 22183
Omissione contributiva, Cartella esattoriale, Estinzione dei debiti contributivi
attraverso l’istituto della cessione dei crediti
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 26.5.2015, la Corte
d’appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato la
cartella esattoriale con cui l’INPS aveva richiesto all’Istituto
“L.V.” somme per contributi omessi.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che
l’obbligazione contributiva si fosse estinta per intervenuta cessione all’INPS
dei crediti che l’Istituto aveva nei confronti di talune aziende sanitarie
locali, reputando che il termine di 90 giorni previsto dall’art. 6, comma 26°,
d.l. n. 586/1987 (conv. con I. n. 48/1988), al
fine di consentire alla pubblica amministrazione debitrice di comunicare se
intendesse contestare il debito ceduto o riconoscerlo, valesse soltanto per
consentire al debitore ceduto di contestarlo, restando il suo inutile decorso
altrimenti irrilevante ai fini del perfezionarsi della cessione medesima.
Avverso tali statuizioni l’INPS ha proposto ricorso
per cassazione, deducendo un motivo di censura. L’Istituto “L.V.” ha
resistito con controricorso, evidenziando che, nelle more del giudizio di
secondo grado, la Regione Lazio aveva provveduto al pagamento dei debiti per
cui è causa, e in vista dell’udienza pubblica ha depositato memoria, con
allegata documentazione, con cui ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, anche per violazione del diritto dell’Unione Europea, della
normativa concernente la cessione dei crediti delle pubbliche amministrazioni,
ove interpretata nel senso patrocinato dall’Istituto ricorrente.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’Istituto ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1, comma 9°, d.l. n.
688/1985 (conv. con I. n. 11/1986), 6, comma 26°, d.l. n. 536/1987
(conv. con I. n. 48/1988), 3, comma 1, e 4, comma 12, I. n.
412/1991, nonché, in connessione con essi, degli artt. 3, comma 9, lett. a), secondo
periodo, I. n. 335/1995, 2946 e 1230 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto
che il termine di novanta giorni, previsto ex art. 6, comma 26°, d.l. n.
536/1987, cit., al fine di consentire all’amministrazione di comunicare se
intenda contestare o riconoscere un debito vantato nei suoi confronti da
un’impresa che ne abbia fatto oggetto di cessione ad un ente previdenziale,
dovesse valere soltanto per il caso in cui l’amministrazione medesima
intendesse contestare il debito medesimo, restando altrimenti irrilevante il
suo decorso ai fini del perfezionamento della cessione.
Il motivo è fondato.
Questa Corte, in fattispecie analoghe, ha già avuto
modo di chiarire che validità e l’efficacia della cessione, da parte dei datori
di lavoro, dei crediti maturati nei confronti dello Stato, di altre pubbliche
amministrazioni o di enti pubblici economici, al fine del pagamento dei
contributi previdenziali, oltre all’osservanza di specifici requisiti formali
(atto pubblico o scrittura privata autenticata, in base all’art. 69, r.d. n.
2440/1923, sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale
dello Stato), presuppongono che il credito ceduto sia certo, liquido ed
esigibile, che il cedente notifichi l’atto di cessione all’istituto
previdenziale e all’amministrazione debitrice e che quest’ultima, entro 90
giorni dalla notifica, comunichi il riconoscimento della propria posizione
debitoria, con la conseguenza che, ove risulti carente taluna delle indicate
fasi o condizioni, non si verifica il perfezionamento della cessione e non può
conseguirsi l’estinzione dell’obbligazione contributiva (così, tra le più
recenti, Cass. nn. 2414 del 2012 e 17606 del
2020).
Né può convenirsi con i giudici territoriali
allorché, pur dando atto dell’anzidetto orientamento di legittimità, hanno
ritenuto di discostarsene sul rilievo che la comunicazione di riconoscimento
del debito non costituirebbe elemento di perfezionamento della fattispecie,
«sia perché proveniente da un soggetto (il debitore ceduto) estraneo alle parti
della cessione del credito (cedente e cessionario), sia perché la legge prevede
pure la possibilità di contestazione da parte del debitore ceduto ed in tal
caso […] ciò non impedisce il perfezionamento della cessione, né il suo
tipico effetto traslativo del credito, bensì impedisce solo l’effetto estintivo
dell’obbligazione contributiva, restando il datore di lavoro coobbligato con il
debitore pubblico» (così la sentenza impugnata, pag. 5): al contrario,
dev’essere qui ribadito che facoltà dei datori di lavoro di provvedere al
pagamento dei contributi previdenziali ed accessori mediante cessione di
crediti maturati nei confronti dello Stato, di altre pubbliche amministrazioni
o di enti pubblici economici, si esercita, alla stregua della richiamata
normativa ed ai fini della piena efficacia della cessione, mediante una
procedura che è disancorata – in ragione della particolarità della fattispecie
ed in considerazione del rigore che assiste le operazioni contabili delle
pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici – dalle disposizioni del codice
civile concernenti la cessione ordinaria dei crediti, com’è reso palese dalla
necessità della comunicazione del debitore ceduto, affatto estranea alla
disciplina di cui agli artt. 1260 ss. c.c. (così Cass. n. 6711 del 1995).
Del resto, che sia inconferente il richiamo operato
dai giudici territoriali alla disciplina generale della cessione del credito
risulta evidente sol che si consideri che questa Corte ha già chiarito che la
cessione in discorso realizza piuttosto una fattispecie di datio in solutum,
avente struttura non contrattuale, in deroga allo schema generale previsto
dall’art. 1198 c.c. (così Cass. nn. 9279 del
1995 e 8025 del 1996): trattandosi di un diritto potestativo accordato
all’impresa che sia creditrice di una pubblica amministrazione, essa non solo
non richiede l’accettazione del cessionario (in deroga alla necessaria
contrattualità della cessione dei crediti), ma soprattutto ha effetto estintivo
del debito dalla data della cessione medesima e non da quella della riscossione
del credito da parte del cessionario (così Cass. n. 4102 del 1993).
Nemmeno può dirsi che il sopra ricostruito sistema
sia sospettabile di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 32, 35 e 97 Cost.,
come paventato dall’odierna contro ricorrente nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c.: prova ne sia che i profili di
irragionevolezza evidenziati nella memoria ex art.
378 c.p.c., lungi dal riguardare la normativa in sé e per sé considerata,
attengono piuttosto alla possibilità che le pubbliche amministrazioni debitrici
se ne avvalgano per trarne vantaggi illeciti, ciò che però potrebbe se del caso
rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto e non già dell’illegittimità costituzionale
della norma che lo istituisce; mentre, con riguardo alla richiesta di
rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, parimenti prospettata
in memoria, è sufficiente rilevare che la questione pregiudiziale
d’interpretazione è formulata con riferimento all’art. 13 CEDU, che è norma
manifestamente estranea ai Trattati europei e sulla portata della quale nessuna
competenza interpretativa può vantare la Corte di Giustizia dell’Unione Europea
(arg. ex art. 267 TFUE).
Il ricorso, pertanto, va accolto e, cassata la
sentenza impugnata, la causa va rinviata alla Corte d’appello di Roma, in
diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di
cassazione.
P.Q.M.
accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e
rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che
provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.