Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 agosto 2021, n. 23190
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Intento
ritorsivo del recesso, Rifiuto di accettare la risoluzione concordata del
rapporto di lavoro
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 31
ottobre 2018, ha confermato la pronuncia di primo grado che, nell’ambito di un
procedimento ex lege n. 92 del 2012, aveva respinto l’impugnativa del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a L.B.L. dalla R. Spa
in data 24 febbraio 2015.
2. Per quanto ancora qui interessa, in ordine al
primo motivo di reclamo con cui il lavoratore rilevava che le ragioni che
avevano portato l’azienda alla decisione di aprire una licenziamento per
giustificato motivo oggettivo non potevano, successivamente, sorreggere un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Corte ha considerato che
nella specie non era stata accertata – e neanche dedotta – l’illegittimità del
licenziamento collettivo e che, nella specie, non erano ravvisabili gli indici
rilevatori di una frode alla legge di cui all’art. 1344 c.c..
La Corte ha anche confutato le critiche mosse alla
decisione del Tribunale per non avere “correttamente valutato la natura di
contratto a favore di terzo dell’accordo sindacale (ndr: raggiunto in corso di
procedura) che avrebbe imposto quantomeno, una volta spirati i termini per la
procedura senza il raggiungimento del numero di esuberi individuato dal
medesimo accordo, che successivamente si fosse proceduto secondo i criteri
legali”.
3. Circa la pretesa nullità del licenziamento per
ragioni discriminatorie, la Corte ha condiviso l’assunto del primo giudice che
aveva escluso l’intento ritorsivo del recesso per il rifiuto opposto dal L. di
accettare la risoluzione concordata del rapporto di lavoro.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso il soccombente con 4 motivi. Ha resistito R. Spa in concordato
preventivo con controricorso.
Il ricorrente ha anche depositato memoria ex art.
378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia
nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c. e per
“motivazione apparente o mancante”.
Si sostiene che La Corte romana non avrebbe spiegato
perché l’aver convenuto nell’accordo sindacale di adottare, in via prioritaria,
i criteri di natura pattizia significava non poter completare il piano di
risanamento con i criteri sussidiari di natura legale di cui all’articolo 5
della legge 223 del 1991; non avrebbe illustrato, poi, le motivazioni in forza
delle quali ai criteri di scelta si doveva attribuire forza di criteri unici e
come avrebbe potuto essere ritenuta compatibile con la funzione dell’accordo la
situazione di paralisi che l’interpretazione adottata avrebbe poi causato; infine,
la Corte avrebbe omesso qualsiasi ragione che consentisse di spiegare la
contraddizione esistente tra convenire con le organizzazioni sindacali che
tutte le figure dichiarate esuberanti andassero soppresse e poi materialmente
far scadere i termini per la irrogazione dei recessi.
2. Il motivo non è accoglibile.
Come noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno
ritenuto che l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge
costituzionalmente rilevante, integri un error in procedendo che comporta la
nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di
“contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di
“motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass.
SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014).
Si è ulteriormente precisato che di
“motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e
incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le
ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente
inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del
convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo
sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass.
SS.UU. n. 22232 del 2016).
Il che non ricorre nella specie in quanto è
certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte
territoriale per confermare la decisione di primo grado, mentre non è più
sindacabile in sede di legittimità una eventuale “insufficienza” motivazionale
per la quale – secondo l’assunto di parte ricorrente – la sentenza impugnata
non avrebbe spiegato o illustrato tutte le ragioni per cui non erano state
condivise le osservazioni del lavoratore.
3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della I. n. 604 del 1966 “per
insussistenza dell’esigenza di riduzione del personale”, dell’art. 5 della
I. n. 223 del 1991 nonché degli artt. 1362, 1367 e 1372 c.c., in ordine
all’interpretazione dell’accordo sindacale del 22 agosto 2014.
4. La censura non può essere condivisa.
Infatti l’interpretazione di un atto negoziale, qual
è un accordo sindacale, è riservata all’esclusiva competenza del giudice del
merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), con una
operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n.
9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014). E le valutazioni del giudice di merito
in ordine all’interpretazione degli atti negoziali soggiacciono, nel giudizio
di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni
legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una
motivazione logica e coerente (ex plurimis, Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n.
3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724
del 2003; Cass. n. 17427 del 2003).
Inoltre, sia la denuncia della violazione delle
regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una
specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è
realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e
contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le
censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella
mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra
le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n.
22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053
del 2000).
Orbene, al cospetto dell’approdo esegetico cui è
pervenuta la Corte distrettuale parte ricorrente, nella sostanza, pur
formalmente denunciando la violazione di criteri ermeneutici, si limita a
rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile più favorevole circa
l’accordo sindacale in questione.
Ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella
data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione
possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili,
interpretazioni; sicché, quando sono possibili due o più interpretazioni, non è
consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal
giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata
privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006).
Infatti il ricorso in sede di legittimità –
riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere
confutativo – laddove censuri l’interpretazione del negozio accolta dalla
sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è
suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità
dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con relativa
dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti
presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche
implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non
potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso
sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di
giustificazione prospettate come più congrue (in termini: Cass. n. 18375 del
2006).
Sostanzialmente inconferente, poi, il richiamo alla
violazione dell’art. 5 dell’art. n. 223 del 1991, considerato che, secondo i
giudici del merito, il licenziamento aveva natura individuale, mentre parte
ricorrente non spiega adeguatamente quale sarebbe stato l’errore di diritto
della sentenza impugnata con riferimento alla dedotta violazione degli artt. 3
e 5 della I. n. 604 del 1966.
5. Per la stessa ragione di mancanza di specificità
della censura deve essere respinto il terzo motivo di ricorso, con cui sì
lamenta la violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., perché, “se avesse
ritenuto che l’azienda pur non essendo ciò obbligata, avrebbe potuto licenziare
il lavoratore nell’ambito della procedura collettiva, allora la sentenza
apparirebbe emendabile nella misura in cui non ha colto l’evidente diversa
penosità delle conseguenze legate alla sua scelta e la palese violazione degli
obblighi di carattere generale di assumere un comportamento improntato a
correttezza e buona fede”.
Invero, con riferimento alla violazione e falsa
applicazione di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a
pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto
asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si
assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o
dalla prevalente dottrina, cosi da prospettare criticamente una valutazione
comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla
S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento
della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015;
Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).
6. L’ultimo mezzo di impugnazione denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 15 della I. n. 300 del 1970,
dell’art. 1344 c.c., dell’art. 2727 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in
ordine alla nullità del licenziamento per ragioni discriminatorie.
Si sostiene che “le traballanti giustificazioni
fornite dalla società sulle ragioni della sua scelta di non completare la
procedura di mobilità non possono non suggerire che la vera ragione di un
simile comportamento sia stata quella di pregiudicare il L., colpevole di aver
osato rifiutare di aderire volontariamente alla procedura, sottoscrivendo
apposito verbale di conciliazione”.
7. Il motivo è inammissibile.
La sussistenza o meno di un motivo illecito
ritorsivo nella concreta vicenda che ha dato origine alla controversia è
chiaramente una questio facti, la cui natura non può essere sovvertita sol
perché si agitano, solo in via formale, presunte violazioni di legge.
Nella sostanza parte ricorrente non concorda con la
ricostruzione operata in entrambi i gradi di merito circa l’assenza del
denunciato motivo ritorsivo, ma tale accertamento di fatto non può essere
rivisitato in sede di legittimità, tanto più in una ipotesi di cd. “doppia
conforme”.
Invero il vizio attinente al giudizio di merito,
riguardando la ricostruzione dei fatti e la loro valutazione, per i giudizi di
secondo grado instaurati successivamente al trentesimo giorno successivo
all’entrata in vigore della legge n. 134 del 2012, di conversione del d.l. n.
83 del 2012, non può essere denunciato, rispetto ad un reclamo proposto il 26
luglio 2018 dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l.
n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di
Appello che, come nella specie, conferma la decisione di primo grado, qualora
il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di
secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.).
Ossia il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5,
c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia
conforme” (v., tra molte, Cass. n. 23021 del 2014) e la preclusione non
può dirsi superata per il solo fatto che la censura sia solo formalmente
prospettata come violazione di legge.
8. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con spese liquidate secondo il regime della soccombenza. Ai sensi dell’art. 13,
comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1,
comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove
dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr.
Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.250,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del
comma 1 bis dello stesso art. 13.