Il sindacato, in quanto soggetto collettivo, può agire contro la condotta antisindacale del datore di lavoro, contro le clausole di un contratto individuale e anche senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile.
Nota a Cass. S.U. 21 luglio 2021, n. 20819
Maria Novella Bettini
La procedura per la repressione della condotta antisindacale si può avviare anche nell’ipotesi in cui la controversia riguardi una clausola inserita in un contratto di lavoro soggetto alle regole di un altro ordinamento, poiché la condotta in questione danneggia un soggetto terzo (il sindacato) rispetto al rapporto di lavoro e genera una forma di responsabilità extracontrattuale che prescinde dalla legge che regola il contratto individuale di lavoro.
Più specificamente, è esclusa la natura contrattuale dell’azione volta all’accertamento della condotta antisindacale anche quando tale condotta deriva dall’applicazione di clausole inserite in un contratto di lavoro individuale, in quanto il sindacato agisce come soggetto collettivo che non ha alcun rapporto negoziale con il datore di lavoro. Di conseguenza, a questo tipo di azione si applica l’art. 7, n. 2, del Regolamento UE n. 1215/2012, che consente di convenire in giudizio una persona in uno stato membro diverso da quello di residenza «in materia di illeciti civili dolosi o colposi».
Ne consegue l’antisindacalità della clausola inserita nel contratto di lavoro di alcuni operatori di volo il cui rapporto era soggetto alla legge irlandese, ma si svolgeva parzialmente anche in Italia (presso lo scalo di Bergamo). Tale clausola, inserita da compagnia aerea straniera nei contratti del personale di cabina, vietava ai dipendenti di interrompere il rapporto di lavoro per partecipare a qualsiasi forma di protesta sindacale, pena l’annullamento del contratto e l’applicazione di specifiche sanzioni economiche e retributive e recitava quanto segue: “Questo accordo rimarrà in vigore per tutto il tempo che il personale di cabina di Ryanair contratti direttamente con il datore di lavoro e non effettui interruzioni di lavoro (work stoppages) o qualunque altra azione di natura sindacale. Se Ryanair o la società di mediazione di lavoro saranno obbligate a riconoscere qualunque azione collettiva di qualsiasi tipo, in questo caso il contratto dovrà intendersi annullato e inefficace e qualunque incremento retributivo o indennitario (allowance) o cambio turno concessi sotto la vigenza del presente contratto sarà ritirato”.
Queste le parole della Corte di Cassazione S.U. 21 luglio 2021, n. 20819 (conf. ad App. Brescia n. 319/2019) che si è pronunciata in ordine al rafforzamento della tutela antidiscriminatoria con riferimento ai diritti in materia di lavoro e sindacali che devono potersi svolgere in condizioni di parità e devono essere tutelati da violenze, mobbing e altri atti o condotte lesive.
I giudici precisano che la Direttiva CE n. 78/2000, recepita nell’ordinamento nazionale dal D.LGS. n. 216/2003, adottata per contrastare le discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, ha potenziato il nesso che sussiste tra eguaglianza e dignità umana nella tutela contro le discriminazioni. “L’inclusione nel TCE (art. 13, ora art. 19 TFUE) di fattori di discriminazione diversi dal genere, tra cui alcuni, quali la religione e le convinzioni personali, non immutabili o oggettivi, infatti, ha contribuito a favorire un allargamento di tipo universalistico della tutela antidiscriminatoria, come posto in evidenza dalla dottrina”.
Per quanto concerne specificamente le c.d. convinzioni personali, la normativa va interpretata nel senso che le opinioni del lavoratore in merito a diversi temi, tra i quali l’esercizio dei diritti sociali, intesi anche in una proiezione dinamica e fattuale (adesione ad una associazione sindacale, esercizio del diritto di sciopero), non possono legittimare una condotta discriminatoria, tale da non consentire al lavoratore di esercitare in situazione di parità i propri diritti. In questo senso depone anche l’art. 15 Stat. Lav., che (in seguito alla modifica introdotta dall’ art. 4, co.1, del citato D.LGS. n. 216/2003), stabilisce (con sanzionabilità penale) la nullità dei patti o atti diretti a:
“a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
Nell’espressione “convinzioni personali”, richiamata dagli artt. 1 e 4 del D.LGS. n. 216/2003, caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, va, quindi, ricompresa la discriminazione per motivi sindacali (v. Cass. n. 1/ 2000).
Ed infatti, come precisato dalla Corte costituzionale (n. 178/2015), numerose fonti europee, nonché internazionali, quali le Convenzioni OIL, “evidenziano il nesso funzionale che lega un diritto a esercizio collettivo, quale è la contrattazione e dunque l’attività sindacale di cui è espressione, con la libertà sindacale dei lavoratori, offrendo un chiaro argomento per la ricomprensione nella nozione di “convinzioni personali”, che non possono costituire fattore di discriminazione, delle convinzioni sindacali”.
In particolare, l’art. 39, co.1, della nostra Costituzione, nella sua duplice valenza individuale e collettiva (v. Corte cost. n. 120/2018, in q. sito con nota di F. IACOBONE, n. 178/2015, n. 697/1988 e n. 34/1985), in quanto, come precisa la Cassazione “ha come generico e generale presupposto l’esercizio delle libertà individuali di riunione, di associazione e di manifestazione del pensiero (artt. 17, 18 e 21 Cost.) e ben può costituire oggetto di “convinzioni personali”, nel senso che l’organizzazione sindacale è libera per definizione in un ordinamento democratico, in quanto risultante dalla libera iniziativa dei soggetti interessati. Dunque, l’esercizio dei diritti riconducibili alla libertà sindacale è una delle possibili declinazioni delle “convinzioni personali” che non possono costituire fattore di discriminazione”.
In base alla Direttiva n. 78/2000, art. 2, par. 2, lett. a), ” sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.
Il legislatore europeo, tuttavia, si limita (art. 9, Direttiva 2000/78) ad imporre agli Stati membri di garantire, a favore degli enti esponenziali delle collettività che il diritto antidiscriminatorio si propone di tutelare, la legittimazione ad avviare procedure giurisdizionali, senza tuttavia sancire una autonoma legittimazione ad agire (legittimazione espressamente condizionata al consenso della vittima). Nondimeno, l’art. 8 della Direttiva, nel dettare “requisiti minimi” prevede che: “Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella presente direttiva. (…) L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva” (tale facoltà è stata confermata dalla giurisprudenza della CGUE 23 aprile 2020, C-507/18, 25 aprile 2013, C-81/12, Associate Accept, C-54/07, Feryn; v. anche Cass. n. 28646/2020).
Tale disposizione, rileva la Corte, “richiama l’attenzione sulla disciplina dei mezzi di tutela che nell’assetto europeo sono riconosciuti alle persone che si ritengono lese, o alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, che, “conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate”. In particolare, la citata sentenza Feryn, ha statuito che l’art. 9, par. 2, della Direttiva in questione non osta a che una normativa nazionale, “riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile. L’assenza di un denunciante identificabile, dunque, non può indurre a concludere per l’assenza di qualsivoglia discriminazione diretta, poiché l’effettiva realizzazione degli interessi protetti dalla legislazione comunitaria per la promozione di una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro-presuppone un ampliamento della nozione di discriminazione diretta, tale da superare la necessità di una vittima identificabile”.
Orbene, coerentemente con l’art. 8 della Direttiva, l’art. 5, co. 2, del D.LGS. n. 216/2003., prevede (in conformità al portato delle sentenze Feryn e Accept, cit.), che i soggetti di cui all’art. 5, co. 1, tra cui vi sono le organizzazioni sindacali, sono legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva anche “qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”.
Per tale via, dunque, la disciplina nazionale va oltre le prescrizioni minime previste dalla normativa europea e riconosce alle organizzazioni sindacali, un potere di agire in giudizio per contrastare le discriminazioni collettive sul lavoro a prescindere dal consenso e in assenza di una vittima.
Pertanto il sindacato è pienamente legittimato, nei confronti delle ricadute della clausola “Estinzione del contratto” Ryanair, a tutelare interessi omogenei individuali, sia pure non riferibili nella specie a vittime immediatamente o direttamente identificabili della discriminazione, che sono rilevanti per la collettività, atteso l’interesse di quest’ultima nel suo insieme a che non siano posti in essere nei rapporti di lavoro, anche con riguardo all’accesso e alla risoluzione, comportamenti discriminatori diretti che possono pregiudicare il corretto e buon funzionamento del mercato del lavoro nel complesso, a cui concorre il leale e corretto svolgimento delle relazioni sindacali, e il conseguimento di obiettivi di politica sociale”.
Nella fattispecie, la Ryanair aveva siglato nel contratto collettivo una clausola in cui si affermava che
La Corte d’Appello aveva affermato il carattere discriminatorio del suo comportamento rilevando che:
– la società negava qualsiasi rapporto con le organizzazioni sindacali diverse dall’unico sindacato irlandese e ciò non solo in Italia, ma anche negli Stati membri dell’Unione europea;
– i criteri organizzativi, erano strutturati su una relazione diretta con i lavoratori, senza mediazioni e interferenze da parte del sindacato;
– la società datrice di lavoro aveva invitato tutto il personale di cabina assegnato a basi italiani a non aderire allo sciopero indetto dai sindacati italiani.
– la circostanza che la clausola fosse contenuta in un contratto collettivo non escludeva un effetto dissuasivo, nei confronti dei lavoratori che svolgevano o erano interessati a partecipare all’attività sindacale.