Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 agosto 2021, n. 23329

Rapporto di lavoro, Contratto di somministrazione,
Retribuzione inferiore rispetto a quella corrisposta nel corso di pregressi
contratti a progetto

 

Rilevato che

 

1. La Corte di Appello di Venezia con sentenza n.
262 del 24.8.2017, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Verona,
ha accolto la domanda di C.C. di pagamento di differenze retributive per il
periodo gennaio 2011-ottobre 2013, epoca in cui aveva svolto attività lavorativa
presso la Fondazione Arena di Verona in esecuzione di un contratto di
somministrazione, percependo una retribuzione inferiore rispetto a quella
corrisposta nel corso di pregressi contratti a progetto, convertiti (sin dal
15.6.2000, data di stipulazione di un primo contratto a tempo determinato,
dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato) in rapporto di lavoro
a tempo indeterminato.

2. La Corte territoriale – dando atto della sequenza
cronologica dei contratti (dapprima a termine, poi interinali, poi a progetto
e, infine, di somministrazione) concernenti le parti sin da giugno 2000 nonché
della reintegrazione della lavoratrice, nel 2013, nel posto di lavoro con
inquadramento nel I livello ccnl enti lirici e
del riconoscimento di una retribuzione di euro 2.206,69 mensili in esecuzione
di una precedente sentenza del Tribunale di Verona passata in giudicato (n.
158/2012) che ha dichiarato nullo il primo contratto a termine – ha rilevato
che la retribuzione eccedente i minimi contrattuali percepita dalla C. durante
i contratti a progetto ossia gennaio 2005-31.12.2010 (pari a euro 4.200,00) si
configurava quale superminimo assorbibile con i successivi aumenti salariali;
doveva, dunque, ritenersi applicabile il principio di irriducibilità della
retribuzione e, in assenza di prova sulla ricorrenza di un errore essenziale e
riconoscibile concernente la maggiore retribuzione, spettava il diritto della
lavoratrice alla conservazione della retribuzione mensile lorda pari a euro
4.200,00 comprensiva di superminimo riassorbibile con decorrenza dall’1.1.2008,
con conseguente condanna al pagamento delle differenze retributive maturate
(pari a euro 39.260,52 oltre euro 1.474,50 a titolo di aumenti periodici di
anzianita) ed accertamento (di detta retribuzione quale base di computo ai fini
del calcolo del t.f.r., ferma la giurisdizione del giudice ordinario in ordine
alle trattenute operate sulle somme corrisposte ex art. 32 della legge n. 183 del 2010.

3. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso la Fondazione Arena di Verona sulla base di tre motivi, illustrati da
memoria, al quale ha opposto difese C.C. con tempestivo controricorso.

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 324
cod.proc.civ., 2099, 2103, cod.civ. nonché vizio di motivazione (ai
sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5,
cod.proc.civ.), contenendo, la sentenza impugnata, una violazione del
giudicato esterno nella misura in cui la sentenza (passata in giudicato) del
Tribunale di Verona (n.158/2012), dichiarando nullo il primo contratto a tempo
determinato stipulato tra le parti, ha accertato la sussistenza di un rapporto
di lavoro a tempo indeterminato “con inquadramento contrattuale nelle
categorie professionali riconosciute nei contratti di lavoro succedutisi nel corso
del rapporto” con conseguente riconoscimento, pro-tempore, degli
inquadramenti e delle relative retribuzioni erogate, che – prevedevano – con
riguardo all’ultimo contratto stipulato tra le parti (1.1.2011) il compenso di
euro 2.031,05 mensili. Inoltre, come statuito dal giudice di legittimità (Cass.
n. 7172/1991, Cass. n. 4651/1992), l’accertata natura subordinata del rapporto
di lavoro non può influenzare – ex post – l’originaria intenzione delle parti
di destinare, nel corso di un rapporto di lavoro autonomo (come i contratti a
progetto), il corrispettivo pattuito all’opera prestata, comportando, detto
accertamento, esclusivamente il rispetto del minimo tariffario previsto dal
c.c.n.I. ed avendo, la Corte territoriale, trascurato che il compenso pattuito per
il periodo del rapporto di lavoro autonomo era legato al diverso schema
negoziale prescelto.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 1429 e 1431 cod.proc.civ. nonché
vizio di motivazione (ai sensi dell’art. 360, primo
comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.), avendo, la Corte territoriale, errato
nell’escludere la ricorrenza dei requisiti della essenzialità e della
riconoscibilità all’errore commesso dalla Fondazione quando ha riconosciuto una
maggiore retribuzione alla C., in quanto ha escluso, pur senza ammettere la
prova richiesta dalla Fondazione stessa, che i contratti di lavoro a progetto
fossero frutto di mero errore delle parti (e non conseguenza della volontà di
usufruire di una normativa specifica oppure di eluderla).

3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia
violazione e falsa applicazione dell’art.
17 del T.U.I.R. (ai sensi dell’art. 360, primo
comma, n. 3, cod.proc.civ.), avendo, la sentenza impugnata, ritenuto
sussistente la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle trattenute
operate sulla somma erogata alla lavoratrice ex art. 32 legge n. 183 del 2010
nonostante la controversia tra sostituito e sostituto d’imposta è devoluta alla
giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie.

3. Il primo motivo di ricorso merita accoglimento
per quanto esposto di seguito.

4. In ordine alla censura relativa alla sussistenza
di un giudicato esterno, questa Corte ha affermato che il giudicato “fa
stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” (ai sensi
dell’articolo 2909 cod.civ.) entro i limiti
oggettivi, che sono segnati – secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr.,
per tutte, Cass. n. 5925 del 2004, Cass. n. 14414 del 2002, Cass. n. 14477 del
1999) – dagli elementi costitutivi, come tali rilevanti per l’identificazione,
dell’azione giudiziaria sulla quale il giudicato si forma.

Si tratta del titolo della stessa azione (causa
petendi) – cioè del fatto giuridico, sul quale si fonda – nonché del bene della
vita, che ne forma l’oggetto (petitum mediato), a prescindere, tuttavia, dal
tipo di sentenza adottato (petitum immediato), in quanto l’accertamento – che e
coperto dall’autorità del giudicato (ai sensi dell’art.
2909 c.c., cit.)

– è comune alle sentenze (non solo di accertamento,
appunto, ma anche) costitutive e di condanna (vedi, per tutte, Cass. n. 5925
del 2004, Cass. n. 14414 del 2002 cit). Entro I limiti oggettivi prospettati,
poi, l’autorità del giudicato copre sia il dedotto che il deducibile – secondo
la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr., per tutte, le sentenze n.
5224 del 1989 delle Sezioni Unite, n. 5925 del 2004, n. 21069 del 2004, n.
17078 del 2007, n. 25893 del 2008, n. 20257 del 2015, n. 11314 del 2018, n.
5486 del 2019) – cioè non soltanto le questioni di fatto e di diritto, fatte
valere in via di azione o di eccezione, e, comunque, esplicitamente investite
dalla decisione (ed. giudicato esplicito), ma anche le questioni non dedotte in
giudizio, che costituiscano, tuttavia, presupposto logico essenziale e
indefettibile della decisione stessa (c.d. giudicato implicito), restando salva
ed impregiudicata soltanto la sopravvenienza di fatti e di situazioni nuove,
che si siano verificate dopo la formazione del giudicato o, quantomeno, che non
fossero deducibili nel giudizio, in cui il giudicato si è formato (sullo
specifico punto, vedi, per tutte, Cass. n. 5925 del 2004, n. 14414 del 2002).

Il giudicato, essendo destinato a fissare la regola
del caso concreto, partecipa della natura dei comandi giuridici e,
conseguentemente, la sua interpretazione non si esaurisce in un giudizio di
fatto, ma deve essere assimilata, pei” la sua intrinseca natura e per gli
effetti che produce, all’interpretazione delle norme giuridiche – secondo fa
giurisprudenza di questa Corte, (cfr., per tutte, Cass. n. 5925 del 2004, Cass.
n. 5105 del 2003, Cass. n. 226 del 2001 delle Sezioni Unite), successiva
all’affermazione del principio di diritto della rilevabilità d’ufficio del
giudicato (anche) esterno, con la conseguenza che, da un lato, il giudicato può
essere interpretato direttamente dalla Corte di cassazione e, dall’altro,
l’erronea interpretazione, che ne sia data dal giudice di merito, può essere
denunciata, con ricorso per cassazione, sotto il profilo della violazione di
norme di diritto (art 360, n. 3, cod.proc.civ.).

4.1. Ebbene, la domanda formulata dalla C.
nell’ambito del giudizio concluso con la sentenza (passata in giudicato) del
Tribunale di Verona (n. 158/2012) aveva ad oggetto l’accertamento della
illegittimità, inefficacia e/o nullità, in via principale, del contratto di
lavoro a termine stipulato il 15.6.2000 e, in via di gradato subordine, dei
successivi contratti (di lavoro interinale e poi a progetto) stipulati fra le
parti; “per l’effetto”, l’originaria ricorrente chiedeva l’accertamento di
un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato sin dal
15.6.2000 o da data successiva, con relativo diritto all’inquadramento
professionale nel 1° livello del c.c.n.I. Enti,
lirici; “conseguentemente” chiedeva la condanna a regolarizzare
la posizione contributiva nonché “a riconoscere la decorrenza del rapporto
di lavoro subordinato a tutti i fini, anche retributivi, con pagamento di tutte
le differenze retributive maturate dalla ricorrente”.

4.2. La sentenza del Tribunale di Verona (n.
158/2012) ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto del
15.6.2000 e l’instaurazione, da tale data, di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato “con inquadramento contrattuale nelle categorie
professionali riconosciute nei contratti di lavoro succedutisi nel corso del
rapporto”, ed ha condannato la Fondazione al pagamento del risarcimento
del danno conseguente alla illegittimità dell’apposizione della clausola del termine.
Il giudice del merito ha rigettato la domanda di riconoscimento della categoria
del Io livello di cui al c.c.n.I. Enti lirici,
e non ha riconosciuto alcuna differenza retributiva a favore della lavoratrice.

La sentenza impugnata ha, invece, statuito in ordine
alle differenze retributive maturate in relazione a rapporti di lavoro che si
stavano dipanando durante la pendenza dal primo giudizio nonché in esecuzione
della sua statuizione.

4.3. Evidente risulta, quindi, la diversità – di
petitum e di causa petendi – tra l’azione, fatta valere nel presente giudizio,
e l’azione sulla quale si è formato il giudicato.

Infatti la domanda di liquidazione delle differenze
retributive maturate nel corso di alcuni contratti di lavoro – pretesa avanzata
nel primo giudizio – si fondava sullo svolgimento di mansioni superiori
corrispondenti al 1° livello del c.c.n.I. Enti
lirici e considerava i contratti (a tempo determinato, interinali e a
progetto) stipulati negli anni 2000 – 2010, mentre l’attuale domanda di
condanna al pagamento di differenze retributive, oltre a concernere periodi
(non sottoposti e dunque) non valutati dalla sentenza n. 158/2012 (i contratti
di somministrazione stipulati negli anni 2011 e 2012), invoca il diverso titolo
giuridico della irriducibilità della retribuzione sancito dall’art. 2103 cod.civ. (nel test;o precedente la
novella del d.lgs. n. 81 del 2015).

5. In ordine alla censura relativa al principio
della irriducibilità della retribuzione contenuto nel testo dell’art. 2103 cod.civ. (precedente alla novella del d.lgs. n. 81 del 2015), questa Corte ha affermato
che il lavoratore adibito a mansioni equivalenti conserva tutti i compensi
remunerativi della professionalità (con esclusione delle sole erogazioni
connesse al disagio per lo svolgimento della prestazione in particolari
condizioni di tempo o di luogo) se tali condizioni vengono meno con le nuove
mansioni, in quanto non correlate con la qualità professionale delle precedenti
mansioni (cfr. da ultimo, Cass. nn. 19092 e 29247 del 2017). In particolare, il principio di
irriducibilità della retribuzione, dettato dall’art.
2103 cod. civ., opera anche in relazione a fattispecie in cui il lavoratore
percepisca una retribuzione superiore a quella prevista dal C.C.N.L. rispetto alle mansioni in concreto svolte
e rimaste invariate anche nelle modalità del loro espletamento, qualora il
rapporto sia regolato anche dal contratto individuale, se più favorevole (Cass.
n. 1421 del 2007).

Il principio della irriducibilità della retribuzione
rappresenta un aspetto del complesso e articolato apparato protettivo che il
legislatore ha istituito intorno alla figura del lavoratore subordinato, schema
contrattuale caratterizzato dall’eterodirezione dell’attività ove la
prestazione lavorativa è svolta nel modo imposto dal datore di lavoro mediante
ordini che il lavoratore è obbligato a rispettare. In particolare, con riguardo
alla conformazione della prestazione lavorativa, il datore di lavoro, nell’ambito
delle mansioni pattuite al momento dell’assunzione, sceglie di volta in volta,
mediante l’esercizio del potere direttivo, quali far svolgere in concreto al
lavoratore, con il limite – relativamente alla legislazione vigente sino al
2015 – della equivalenza delle mansioni e la garanzia della irriducibilità
della retribuzione.

A conclusioni diverse, tuttavia, si deve pervenire
nel caso in cui il compenso sia stato, come nella specie, pattuito dalle parti
– in relazione ad un rapporto di lavoro, dalle medesime considerato autonomo –
ancorché ne sia stata, poi, giudizialmente accertata la natura subordinata. In
tal caso, infatti, non opera la ricordata eterodirezione, ne sono previsti –
almeno di regola – minimi tariffari inderogabili. Il corrispettivo pattuito,
quindi, s’intende destinato – per concorde volontà delle stesse parti – a
compensare integralmente l’opera prestata (Cass. nn. 7172 del 1991, Cass. n.
4651 del 1992).

Nè rileva in contrario, il sopravvenuto accertamento
giudiziale della natura subordinata di quel rapporto di lavoro.

Tale accertamento, infatti, comporta, bensì, il
diritto del lavoratore al trattamento economico corrispondente – articolato
nelle diverse voci retributive previste dalla contrattazione collettiva (o da
altra fonte) – ma non può, tuttavia, influenzare – ex post – l’originaria
intenzione delle parti di destinare il corrispettivo pattuito a compensare,
appunto, integralmente l’opera prestata.

In altri termini, considerati i diversi schemi
negoziali del lavoro subordinato e del lavoro autonomo, come questa Corte ha
ripetutamente affermato (cfr. da ultimo Cass. n. 46 del 2017) non può
presumersi che le parti abbiano inteso imputare a paga base per lavoro
subordinato un corrispettivo pattuito per una prestazione d’opera, contestualmente,
qualificata autonoma. Tale principio, e – deve affermarsi in questa sede – la
connessa garanzia della irriducibilità della retribuzione, può essere
logicamente riferito al solo caso di un accordo sulla retribuzione concluso
all’interno di un rapporto di lavoro legittimo, qualificato fin dall’inizio
come subordinato; rispetto al quale non può concepirsi un controllo
sull’esercizio dello ius variandi del datore di lavoro rispetto alla concreta
attuazione del medesimo rapporto di lavoro subordinato e all’evoluzione del
trattamento economico.

Nel rapporto che sia stato qualificato ab origine
come autonomo e sia stato convertito ope iudicis in lavoro subordinato, il
diritto del lavoratore alla retribuzione trae origine esclusivamente dalla
previsione del contratto collettivo di categoria in relazione al livello
riconosciuto, e non più dal contratto individuale formalmente intercorso tra le
parti. In tal caso viene in considerazione il solo criterio dell’assorbimento,
imperniato sul “trattamento globale più favorevole” tra quello di
fatto goduto e quello spettante, sulla base dei minimi contrattuali; criterio
che pone soltanto la necessità di operare un raffronto, per la differente
qualificazione delle voci di compenso, fra il percepito e il dovuto, globalmente
inteso, al fine di verificare il rispetto delle retribuzioni minime previste
dal contratto collettivo senza che sia concepibile un controllo sui differenti
titoli, proprio in considerazione della diversità della disciplina della
retribuzione nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato rispetto ai criteri
applicati dalle parti contraenti nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo.

Nell’ipotesi, dunque, della conversione di un
contratto di lavoro autonomo in un rapporto di lavoro subordinato il giudice
deve verificare il rispetto dei minimi retributivi previsti dal contratto
collettivo rispetto alla categoria spettante, mentre non può applicare – ex
post – principi vigenti per il diverso schema negoziale della subordinazione
(come la presunzione che il compenso convenuto sia dovuto quale corrispettivo
della sola prestazione ordinaria, con esclusione del patto di conglobamento);
ciò non esclude che – in presenza di contrattazione tra le parti o
semplicemente di offerta del datore di lavoro il trattamento corrisposto di
fatto, se più favorevole, sia mantenuto e si sostituisca in toto a quello
contrattuale (salvo prova che la maggiore retribuzione erogata sia stata frutto
di un errore essenziale e riconoscibile dell’altro contraente, ossia di un errore
che presenti i requisiti di cui agli artt. 1429
e 1431 cod.civ.; Cass.
n.5552 del 2011, Cass. n. 4942 del 2000).

5.1. Ebbene, la sentenza impugnata non si è
conformata al principio innanzi esposto in quanto – avendo accertato, con
riguardo al periodo 2011 e 2012 (oggetto di contratti di somministrazione), che
la Fondazione “ha drasticamente ridotto il compenso della medesima
[lavoratrice] a parità di mansioni svolte” rispetto al periodo precedente
di svolgimento dei contratti a progetto (2005-2010) – ha applicato il principio
della irriducibilità della retribuzione prendendo a comparazione il trattamento
economico globale concordato dalle parti per il periodo di lavoro autonomo
(convertito ope iudicis in lavoro subordinato). La Corte territoriale non si è
limitata, dunque, alla verifica del rispetto dei trattamenti minimi retributivi
garantiti dal contratto collettivo in relazione alla categoria riconosciuta, ma
ha esteso erroneamente al compenso pattuito dalle parti nell’ambito del lavoro
autonomo criteri di erogazione della retribuzione applicabili esclusivamente al
diverso schema negoziale del lavoro subordinato.

6. Il secondo motivo del ricorso, che ha sempre ad
oggetto il compenso percepito durante il periodo dei contratti di lavoro a
progetto, è assorbito.

7. Va, pertanto, affermato il seguente principio di
diritto: nel rapporto di lavoro che sia stato qualificato ab origine come
autonomo e sia stato successivamente convertito ope iudicis in lavoro
subordinato non opera il principio di irriducibilità della retribuzione,
sancito dall’art. 2103 cod.civ.

In relazione all’accoglimento del primo motivo, la
sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Venezia per
la verifica – alla luce del principio di ¡diritto affermato – della fondatezza
residuale di eventuali differenze retributive o scatti di anzianità.

8. Il terzo motivo di ricorso, che concerne la diversa
questione delle trattenute fiscali sull’indennità già erogata alla lavoratrice
ex art. 32 della legge n. 183 del
2010 in esecuzione della sentenza del Tribunale di Verona passata in
giudicato (n. 158/2012), non merita accoglimento.

Questa Corte ha affermato che le controversie tra
sostituto d’imposta e sostituito, relative al legittimo e corretto esercizio
del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte versate direttamente dal
sostituto, volontariamente o coattivamente, non sono attratte alla
giurisdizione del giudice tributario, ma rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario, trattandosi di diritto esercitato dal sostituto verso il
sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, cui resta estraneo
l’esercizio del potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione,
proprio del rapporto tributario (Cass. Sez. Un.
nn. 15031, 15032 e 26820 del 2009, 16833
del 2017).

Invero, le controversie tra sostituto e sostituito
nascono o dal fatto che il sostituito contesta il diritto di rivalsa esercitato
dal sostituto – per mancanza del presupposto di fatto (omesso versamento
diretto della ritenuta) o per mancanza del presupposto giuridico (il sostituto
non doveva versare la ritenuta) – ovvero dal fatto che il fisco pretenda, dal
sostituto o dal sostituito, mediante notifica di un atto impositivo, un maggior
versamento rispetto a quello effettuato ed il destinatario di tale pretesa
intenda rivalersi sull’altro soggetto. In tutti questi casi, la lite nasce
perché le parti private, nei loro rapporti diretti (privati), ritengono che
siano state erroneamente interpretate e/o applicate le norme che regolano quei
rapporti, e non rileva che successivamente il fisco eserciti una azione ex
autoritate, in relazione alla quale le parti possono difendersi direttamente
(nei confronti dell’ente impositore) dinanzi al giudice speciale tributario.

La Corte territoriale, investita della questione
concernente l’aliquota di tassazione da applicare al risarcimento del danno
liquidato dalla Fondazione ex art.
32 della legge n. 183 del 2010 (23% o 38%) e della domanda di ripetizione
della somma differenziale spettante al sostituito in applicazione di una o
dell’altra percentuale, ha correttamente ritenuto ricorrente la giurisdizione
del giudice ordinario uniformandosi ai principi di, diritto innanzi esposti,
trattandosi di lite concernenti parti private.

9. Alla luce delle considerazioni esposte, va
accolto il primo motivo di ricorso, dichiarato assorbito il secondo motivo e
rigettato il terzo; la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di
appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche
sulle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara
assorbito il secondo motivo e rigetta il terzo; cassa la sentenza impugnata e
rinvia alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda
di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

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