Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 agosto 2021, n. 23065

Lavoro, Licenziamento ingiurioso, Prova, Risarcimento dei
danni da perdita del posto di lavoro e da omessa contribuzione previdenziale

 

Rilevato che

 

Con ricorso depositato il 18.9.13, S.C. conveniva in
giudizio F.D., titolare dell’omonimo C.F., la Società di fatto T. di R.M. e
P.A., nonché F.D., M. e R. quali ulteriori soci occulti, chiedendone la
condanna in solido al pagamento di €.158.172,04, a titolo di maggiorazioni da
lavoro straordinario, indennità per maneggio di denaro (e relativa incidenza
sulle mensilità supplementari e ferie), mensilità non retribuite da maggio ad
agosto 2013, trattamento di fine rapporto, indennità sostitutiva del mancato
preavviso (da dimissioni rassegnate per giusta causa) nonché a titolo di
risarcimento dei danni da perdita del posto di lavoro e da omessa contribuzione
previdenziale. A sostegno di tali rivendicazioni la ricorrente esponeva che, in
costanza del rapporto di lavoro – iniziato nel 1990, alle dipendenze di F.D.,
titolare del C.F. con la qualifica di impiegata di concetto- nell’anno 2000 il
F. aveva esternalizzato il reparto tomaificio creando a tal fine il T.; questo,
a sua volta, aveva lavorato negli anni soltanto per il C.F. (monocommittente);
in realtà – stando alla prospettazione di parte ricorrente – le due ditte,
ancorché formalmente distinte, operavano tuttavia come unica società di fatto
in cui operavano quali amministratori e gestori non soltanto i rispettivi
titolari (F.D. per il calzaturificio, R.M. e P.A. per il T.), ma anche F.D., F.
R. e F. M., ciascuno esercitando il potere di supremazia gerarchica nei
confronti dei dipendenti.

In sostanza la ricorrente, nel sostenere di aver
lavorato, a partire dal 2000, anche per il T., rivendicava il mancato pagamento
sia delle maggiorazioni da lavoro straordinario (prestato per almeno 7 ore a
settimana nel corso degli ultimi dieci anni di lavoro) sia della indennità di
maneggio di danaro.

La ricorrente, premesso di essere caduta per ragioni
familiari in grave depressione nei primi mesi del 2013, esponeva che, per di
più, in conseguenza di denuncia penale per appropriazione indebita nei suoi
confronti presentata dalle due ditte (nonché della parallela istanza di
sequestro conservativo formulata al giudice civile) per l’ingiustizia di tali
iniziative vessatorie, aveva rassegnato il 28 agosto 2013 le dimissioni senza
preavviso, per giusta causa, essendo impossibile la ulteriore prosecuzione del
rapporto di lavoro.

La ricorrente rivendicava il mancato pagamento delle
ultime quattro mensilità (da maggio ad agosto) di retribuzione; del t.f.r.;
dell’indennità di maneggio danaro e della indennità sostitutiva del mancato
preavviso (pretesa in conseguenza della giusta causa delle dimissioni).

Resistevano i convenuti, eccependo peraltro la
prescrizione dei crediti vantati dalla ricorrente.

Con separato ricorso, depositato il 23.6,14, F.D.,
quale titolare dell’omonimo calzaturificio, proponeva opposizione avverso il
decreto ingiuntivo n. 15714 emesso per un importo pari ad €. 9.614,00 (oltre
accessori) a titolo di retribuzione per i mesi da maggio ad agosto 2013,
tredicesima mensilità e t.f.r., deducendone l’inesigibilità stante il sequestro
conservativo disposto con provvedimento monocratico del 16.9.13 confermato, a
seguito di reclamo, con ordinanza collegiale del 3.1.14.

4. Con la sentenza n. 23516 il Tribunale di Fermo,
nelle cause riunite, in parziale accoglimento del ricorso proposto nella causa
portante, ha condannato F.D. quale titolare dell’omonimo calzaturificio al
pagamento a favore della ricorrente della somma di €. 9.662,50 per mensilità da
maggio ad agosto 2013 e t.f.r., oltre interessi e rivalutazione; nella causa
riunita, in accoglimento dell’opposizione proposta da F.D., ha revocato il
decreto ingiuntivo n. 15714 emesso in data 30 maggio 2014 a favore di S.C.,
stante la nullità del provvedimento monitorio, per dichiarata continenza nella
causa portante nonché dichiarato abuso del processo; ha condannato S.C. al pagamento
delle spese di lite in favore dei resistenti; ha condannato infine S.C. al
pagamento a favore di F.D. della somma di €. 1.000,00 a norma dell’art. 96,
co.3, cod.proc. civ.

4.1. il Tribunale ha, viceversa, rigettato in
massima parte la domanda proposta da S.C. nei confronti del datore di lavoro
F.D., negli aspetti concernenti le richieste differenze retributive per poco
meno di € 150.000, a titolo di maggiorazioni da lavoro straordinario, indennità
per maneggio di danaro (e conseguente incidenza sulle mensilità supplementari e
sulla indennità di ferie non fruite) nonché per il risarcimento dei danni da perdita
del posto di lavoro e da omessa contribuzione previdenziale.

4.2. Il Tribunale ha, infine, rigettato la domanda
di condanna in solido proposta nei confronti dei restanti resistenti, ritenuti
estranei al rapporto di lavoro intercorso soltanto con F.D. quale titolare
dell’omonimo Calzaturificio.

Avverso tale sentenza proponeva appello la S.;
resistevano gli originari convenuti.

Con sentenza depositata il 18.8.17, la Corte
d’appello di Ancona, in parziale accoglimento dell’appello, eliminava la
condanna al pagamento in favore di F.D. ex art.96, comma 3, c.p.c., condannava
il medesimo F.D. al pagamento delle spese di primo grado (€.1.500,00)
confermando nel resto la sentenza impugnata; condannava sempre il F.D. al
pagamento delle spese del gravame, oltre accessori di legge.

Condannava la S. a rimborsare alle restanti parti
(F.D., M. e R. e T. P.R.lle spese del gravame, oltre accessori di legge.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso
la S., affidato a quattro motivi; le restanti parti sono rimaste intimate.

 

Considerato che

 

Con il primo motivo la ricorrente denuncia e falsa
applicazione dell’art. 39 c.p.c. perché la sentenza impugnata ha revocato il
d.l. n.157/14 per essere stata accertata la stessa domanda nel giudizio
risalente al quale il processo di opposizione è stato riunito in quanto causa
preventivamente proposta e comunque contrasto con l’art. 39 c.p.c. che nega
testualmente il carattere di continenza (o litispendenza) quando le cause
pendono davanti allo stesso (nel caso di specie: Tribunale di Fermo).

Il motivo difetta innanzitutto di interesse essendo
pacifico che il giudice ha riconosciuto in sede di cognizione piena il credito
di cui al citato decreto ingiuntivo; avendo peraltro il giudice di primo grado
riunite le cause e modificato, sia pure in minima parte, il credito, ha
correttamente revocato il decreto monitorio.

2. – Con secondo motivo la ricorrente denuncia la
violazione degli artt. 2697 c.c. e 24 Cost. avendo la sentenza impugnata
rigettato la sua domanda di risarcimento del danno per licenziamento ingiurioso
ed indennità di mancato preavviso sul presupposto che della situazione di
emarginazione conseguente alle denunce penali ed il sequestro avrebbe dovuto
dar prova la ricorrente.

Il motivo è infondato.

Sebbene la S. tenti di imputare alla Corte di aver
onerato la ricorrente di un fatto negativo, nella specie i giudici di appello
hanno semplicemente e correttamente ritenuto che dei danni in questione la
prova doveva essere fornita dalla ricorrente, compresa evidentemente la prova
della sussistenza di una giusta causa di dimissioni.

3. – Con terzo motivo la S. denuncia la violazione
eo falsa applicazione degli artt. 2697 e 2126 c.c., per avere la Corte dorica,
nel rigettare la domanda di compensi per maneggio denaro, omesso l’esame di un
fatto decisivo per il giudizio e cioè l’esame della querela di parte datoriale
e della domanda di sequestro che sostanzialmente ammetteva la mansione di
maneggio denaro.

Il motivo pur formalmente qualificato come
violazione di norme di diritto, impinge in realtà inammissibilmente (ex art.
360, co.l, n. 5 novellato c.p.c.) nel fatto, ed in particolare sullo
svolgimento;da parte della lavoratrice, di mansioni comportanti il maneggio
denaro con diritto alla relativa indennità. La Corte di merito ciò ha
motivatamente escluso, anche alla luce della disciplina collettiva (secondo cui
l’indennità spetta al lavoratore addetto stabilmente al maneggio denaro e
cassa), evidenziando in particolare che gli sporadici incarichi ricevuti di
prelevare del denaro in banca per conto della proprietà non integravano la
fattispecie negoziale collettiva unica fonte del diritto reclamato.

4. – Con quarto motivo la S. denuncia ancora la
violazione degli artt. 2697, 2126 e 2447 c.c. per avere la senten2’.a impugnata
erroneamente negato la legittimazione passiva a tutti i convenuti diversi dal
Calzaturificio di F.D. ed inoltre l’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio e cioè l’esame della querela di parte datoriale e della domanda di
sequestro che sostanzialmente confermava la mansione di maneggio denaro a
vantaggio di tutti i convenuti, oltre all’esistenza di una società di fatto tra
di essi.

Anche tale motivo è inammissibile sia per difetto di
autosufficienza del ricorso (non essendo chiarito il contenuto degli atti giudiziari
de quibus) sia perché, ancora una volta, la ricorrente censura in sostanza
l’apprezzamento dei fatti da parte del giudice di merito che ha motivatamente
escluso, sulla base dell’istruttoria svolta, l’esistenza di una società di
fatto tra i vari convenuti o di un unico centro di imputazione giuridica del
rapporto, risultando così infondata anche la dedotta violazione dell’art. 2697
c.c.

5. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Nulla per le spese, essendo i controricorrenti
rimasti intimati.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1
quater, del d.P.R. n. 1152, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la
Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 agosto 2021, n. 23065
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: