Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 agosto 2021, n. 23324

Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, Mansioni di
segretaria, Vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo,
organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, Differenziazione con il
lavoro autonomo

 

Rilevato

 

che la Corte territoriale di Roma, con sentenza
pubblicata il 29.4.2016, ha respinto l’appello interposto da F.M. e L. M., nei
confronti di S. B., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede n. 13200/2012,
con la quale era stata accolta la domanda della B., diretta ad ottenere, previa
riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro svolto con
mansioni di segretaria presso lo studio legale degli avvocati M. e M.,
dall’1.9.2002 al 16.5.2008, la condanna di questi ultimi al pagamento di Euro
52.947,00, oltre accessori, a titolo di differenze retributive; che per la
cassazione della sentenza ricorrono F. M. e L. M. articolando un motivo;

che S. B. è rimasta intimata;

che il PG non ha formulato richieste;

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si deduce la violazione e falsa
applicazione dell’art. 2094 c.c., in riferimento all’art. 360, primo comma, n.
3, c.p.c. e si contesta, in particolare, che «sulla base dei fatti, così come
accertati, la prestazione della B. fosse sussumibile nella fattispecie di cui
all’art. 2094 c.c,», essendo «il giudizio di sussunzione basato su criteri di
qualificazione del tutto erronei ed inidonei al fine»;

che il motivo non è fondato, perché i giudici di
seconda istanza hanno fatto proprie le considerazioni svolte dal primo giudice
all’esito della esperita istruttoria, pervenendo così a ritenere che il
rapporto di lavoro di cui si tratta avesse, in concreto, il carattere della
subordinazione. Al riguardo, è da premettere che il caso all’esame ripropone la
vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di
lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei
connotati peculiari. Deve, del resto, prendersi atto che oggi i due cennati
tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni
“primordiali” e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una
vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne
sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per
così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la prirnigenia
simplicitas del “tipo legale” e fanno dei medesimi, non di rado,
qualcosa di ibrido e, comunque, di difficilmente definibile. Per cui la
qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum e la sua
sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen iuris diventa più delicata e richiede
una più approfondita opera di accertamento della realtà fattuale e di
affinamento di quei momenti che la teoria ermeneutica caratterizza come
subtilitas explicandi e, soprattutto, come subtilitas applicandi. Soccorre,
peraltro, in questa actio finium regundorum tra lavoro autonomo e subordinato
l’insegnamento della giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza
sul tema, ha dato alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi,
ormai dirsi consolidata. E’ noto, difatti, che, secondo il richiamato e
consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’elemento essenziale
di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel
vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e
disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento
esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della
prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica
l’inserimento del lavoratore nella 
organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a
disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il
contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo
l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus): ex
multis, e già da epoca non recente, Cass. nn. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994;
4770/2003; 5645/2009, secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di
lavoro come subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della
subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo
del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli
elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati
fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr. pure, tra
le molte, Cass. nn. 1717/2009, 1153/2013). In subordine, l’elemento tipico che
contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla
subordinazione, intesa, come innanzi detto, quale disponibilità del prestatore
nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo
stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa;
mentre, è stato pure precisato, altri elementi – come l’assenza del rischio
economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa
collaborazione – possono avere solo valore indicativo e non determinante (v.
Cass. n. 7171/2003), costituendo quegli elementi, ex se, solo fattori che,
seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto
conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione del rapporto stesso
(fra le altre – e già da epoca risalente – Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984); ciò
precisato, è da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla
qualificazione del rapporto contrattualmente operata, sovviene l’insegnamento
della giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla
identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si
può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro
tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto
nell’esercizio della loro autonomia contrattuale: pertanto, quando i contraenti
abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, specie nei
casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno che
con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una diversa
qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della
subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto
medesimo (v., fra le molte, e già da epoca meno recente, Cass. nn.4220/1991;
12926/1999). Il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto
non è quindi vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in
presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della
prestazione (Cass. n. 812/1993); al proposito, la Corte di legittimità ha
avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della individuazione della c.d.
natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della
subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il
ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto,
dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del
rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del
contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai
sensi dell’art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell’accertamento
di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso
dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e
talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da
autonoma a subordinata; con la conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati
formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto
emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi
necessariamente rilievo prevalente nell’ambito di una richiesta di tutela
formulata tra le parti del contratto (Cass. nn. 4770/2003; 5960/1999). Del
resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della
effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in
considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe
essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale
pur di garantirsi un posto di lavoro. Più di recente, con la sentenza n.
7024/2015, questa Corte ha ribadito che gli indici di subordinazione sono dati
dalla retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione
lavorativa; l’orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della
prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con
le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al
potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con
conseguente limitazione della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione
aziendale.

E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio
l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l’onere di fornire gli
elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra
le molte, Cass. n. 11937/2009);

che, tutto ciò premesso, deve osservarsi che, nella
fattispecie, la  Corte di merito ha
condivisibilmente reputato che la B. avesse fornito la prova relativa al
requisito della eterodirezione e che <<l’eventuale presenza di un
pregresso rapporto di amicizia tra le parti non esclude l’esistenza di un
rapporto di lavoro di natura subordinata»;

che, per tutto quanto esposto, il ricorso va
rigettato;

che nulla va disposto in ordine alle spese, poiché
S. B. non ha svolto attività difensiva;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto
specificato in dispositivo

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater del d.P.R.
n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
– bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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