Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 agosto 2021, n. 23332
Licenziamento disciplinare, Ripetuto ed abituale artificioso
aumento delle somme riportate sui cedolini paga, Proporzionalità della
sanzione espulsiva
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 30 ottobre 2018, la Corte
d’appello di Napoli ha respinto il reclamo avverso la decisione del Tribunale
di Nola che, confermando quanto statuito nella fase sommaria, aveva disatteso
le domande proposte da G.M. nei confronti della società a responsabilità
limitata V.G. volte ad ottenere la declaratoria di illegittimità del
licenziamento irrogato alla lavoratrice nonché la reintegra e il risarcimento
del danno.
1.1. Il giudice di secondo grado, condividendo
l’iter argomentativo del primo giudice, ha ritenuto legittimo il licenziamento
disciplinare comminato e, segnatamente, costellate di riscontri logici e
fattuali le numerose irregolarità ascritte alla reclamante, in quanto
ampiamente dimostrate dalla documentazione allegata agli atti, nonché dalle dichiarazioni
sommarie assunte nel corso delle indagini penali svolte sulle medesime vicende
oggetto del giudizio.
1.2. La Corte quindi, considerata la natura
dell’attività di direttrice amministrativa svolta e, pertanto, il ruolo apicale
rivestito, ha reputato giustificata e proporzionata la sanzione estrema
irrogata, alla luce delle gravi inadempienze, consulenti, sostanzialmente, nel
ripetuto ed abituale artificioso aumento delle somme riportate sui cedolini
paga, con conseguente arbitrario accrescimento della retribuzione spettante
alla M.; ha, quindi, escluso la configurabilità di un licenziamento ritorsivo,
nonché la allegata tardività della contestazione.
2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
G.M., affidandolo a cinque motivi.
2.1. Resiste, con controricorso, V.G. s.r.l.
2.2. La parte ricorrente ha presentato memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
3. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1322
cod. civ., 7 L. n. 300 del
1970 e 41 del CCNL Sanità Privata AlOP personale non medico, del
23/11/2004, per aver la Corte considerato ordinatori i termini di avvio del
procedimento disciplinare.
1.1. Con il secondo motivo, si allega ancora la
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970 e
dell’art. 41 CCNL Sanità Privata AIOP personale non medico, del 23/11/2004, per
aver la Corte considerato tempestiva la contestazione disciplinare del 23
settembre 2014.
1.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 3
L. n. 604 del 1966, 2119 cod. civ., 7 L. n. 300 del 1970, 18 L. n. 300 del 1970 commi
tre e quattro, come modificati dalla legge n. 92
del 2012, in relazione all’art. 360, n. 3, cod.
proc. civ., per aver posto a fondamento della decisione fatti non oggetto
di contestazione disciplinare.
1.4. Con il quarto motivo, si deduce la violazione
e/o falsa applicazione dell’art.
3 L. n. 604 del 1966, 2119 cod. civ., 7 L. n. 300 del 1970, 18 L. n. 300 del 1970 commi
tre e quattro, come modificati dalla legge n. 92.
del 2012, in relazione all’art. 360, n. 3, cod.
proc. civ., per non aver considerato tutte le circostanze del caso concreto
per affermare la proporzionalità tra l’inadempimento del lavoratore e la
sanzione.
1.5. Con il quinto motivo, si allega la violazione
dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per aver
la Corte omesso l’esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le
parti, relativamente alla prova documentale delle effettive retribuzioni
percepite, emergenti dagli estratti di conto corrente bancario della ricorrente
rispetto alle risultanze del cedolini paga, con conseguente omessa valutazione
della concreta condotta tenuta dalla ricorrente circa la indisponibilità per la
stessa degli strumenti per redigere i cedolini stessi, di esclusiva pertinenza
del legale rappresentante dell’azienda.
2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, da
esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati.
2.1. Giova premettere che, per costante
giurisprudenza di legittimità, nel licenziamento per giusta causa, il principio
dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso
relativo, potendo In concreto ossee compatibile con un intervallo di tempo più
o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti siano molto
laboriosi e richiedano uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso
in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro,
ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza
del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di
conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a
prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente (ex
plurimis, Cass. n. 5546 del 2010: Cass. n. 10069 del 2016; Cass. n. 12193 del 2020).
Non contrasta con tale declinazione del principio di
immediatezza quanto affermato dalla richiamata Cass.
n. 12193 del 2020, nella quale si precisa, infatti, come evidenziato dalla
stessa parte ricorrente nella memoria depositata ex art.
378 cod. proc.civ., che l’imprenditore è tenuto a portare a conoscenza del
lavoratore i fatti contestati non appena gli stessi gli appaiono
“ragionevolmente sussistenti”, e si aggiunge, richiamando la
giurisprudenza anteatta, che nel valutare l’immediatezza della contestazione
occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non
avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del
lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla
loro commissione.
In particolare, perché il datore sia tenuto alla
contestazione, occorre che lo stesso abbia acquisito una compiuta e meditata
conoscenza dei fatti oggetto di addebito, nel bilanciamento con il diritto di
difesa del lavoratore (Cass. n. 29627 del 2018).
Nella relatività del concetto di immediatezza della
contestazione, va sottolineato, che deve si darsi conto delle ragioni che
possono cagionare il ritardo (quali il tempo necessario per l’accertamento dei
fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa), ma
quest’ultima costituisce una valutazione riservata al giudice di mento ed
insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e
priva di vizi logici (Cass. n. 16841 del 2018).
Occorre evidenziare, in merito, che già da epoca
risalente, questa Corte ha affermato che i requisiti della immediatezza e
tempestività condizionanti la validità del licenziamento per giusta causa sono
compatibili con un intervallo temporaneo, quando il comportamento del
lavoratore consti di una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica
condotta, esigono una valutazione globale ed unitaria da parte del datore ci
lavoro (Cass. n. 4150/1986; in terminis, Cass. n. 4346/1987).
A conferma di tale impostazione, questa Corte ha
osservato che principio dell’immutabilità della contestazione dell’addebito
disciplinare mosso ai lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello statuto lavoratori,
preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli
contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a
distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze
confermative della significatività di altri addebiti posti a base del
licenziamento, ai fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il
profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità
o meno del correlativo provvedimento sanzionatone del datore di lavoro (Cass. n. 1145 del 19/01/2011; Cass. n. 21795 del 14/10/2009, Cass. n. 6523 del
20/07/1996).
In argomento, già Cass. n. 412/1990, precisava che
non è preclusa al giudee la valutazione di pregressi comportamenti del
lavoratore, i quali non configurino autonome o concorrenti ragioni di recesso,
ma rappresentino soltanto circostanze meramente confermative – sotto il profilo
psicologico e con riguardo alla personalità del lavoratole – della gravità
dell’addebito contestato e dell’adeguatezza del provvedimento sanzionatone.
Le considerazioni anzidette operano anche nel caso
in cui 1 comportamenti disciplinarmente rilevanti siano stati contestati non
subito dopo il loro verificarsi ma in ritardo ed anche quando la loro
contestazione sia avvenuta solo unitamente al fatto ultimo da sanzionare (Cass.
n. 11410/93 cit.; Cass. n. 3835/1981).
2.2. Non mutano tali considerazioni nel caso di
specie, ove si inserisce una norma di contrattazione collettiva, l’art. 41 del
CCNL. per le aziende sanitarie, a mente del quale, posto che i provvedimenti
disciplinari devono essere adottati in conformità dell’art. 7 L. n. 300 del 70 e
delle procedure ivi stabilite, nonché del rispetto, da parte del datore di
lavoro, dei principi generali di diritto vigenti in materia di immediatezza,
contestualità ed immodificabilità della contestazione disciplinare, si conviene
che ” , comunque, la contestazione disciplinare deve essere inviata al
lavoratore non o,tre n termine di trenta giorni dal momento in cui gli organi
direttivi sanitari ed amministrativi delle Strutture di cui all’art. 1 del
presente contratto hanno avuto effettiva conoscenza della mancanza
commessa”. Il provvedimento non potrà più essere adottato soltanto in caso
di ritardo nell’irrogazione del licenziamento rispetto alle giustificazioni
rese dal lavoratore.
Deve, infatti, osservarsi che, come già rilevato in
sede di legittimità (cfr., sul punto, Cass. n. 24529 del 2015), in un assetto
disciplinare contrattualizzato, gli effetti decadenziali possono verificarsi
solo in presenza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale,
ovviamente, precisiamo in questa sede, nel rispetti: dei principi generali in
tema di immediatezza della contestazione, che, come già accennalo e come si
preciserà in prosieguo, nel caso di specie risultano congruamente rispettati.
D’altro canto, come già chiarito da Cass. n. 22930
del 2016, soltanto in caso ci regolamento contrattuale che preveda
espressamente una comminatoria di decadenza per l’ipotesi di superamento del
termine previsto dalle parti, si può ipotizzare la natura perentoria del
medesimo che, invece, di regola, come nella specie, deve reputarsi ordinatorio.
Inconferente il richiamo di parte ricorrente alle
pronunzie di questa Corte secondo cui la contrattazione collettiva è abilitata
anche ad introdurre un termine perentorio per l’esercizio del potere
disciplinare atteso che nessun dubbio sussiste in ordine a tale possibilità e,
pur tuttavia, la valutazione concreta della specie in esame induce ad
escludere, sulla base della stessa lettera della disposizione contrattuale, che
le parti abbiano inteso introdurre un termine perentorio per l’esercizio di
quel potere.
Nella valutazione di diritto che il giudice di
legittimità può espletare circa l’arco temporale intercorso tra la scoperta
dell’illecito disciplinare e la sua contestazione (limitata al se possa
incorrersi in violazione del diritto di difesa secondo Cass. n. 23446 del
2018), va, segnatamente, evidenziato come la Corte abbia motivato in modo
perfettamente conforme al principio secondo cui il recesso datoriale e le
preliminari contestazioni, ove ricorra una giusta causa di licenziamento basata
su condotte aventi rilievo disciplinare, debbano essere immediate, ossia
cronologicamente vicine alla effettiva conoscenza della commissione del fatto
nella sua massima estensione e gravità.
Nondimeno, il giudice di secondo grado ha
evidenziato come, nel caso di specie, ad una prima relazione del tecnico
incaricato, nella quale era stato dato atto che lo stesso aveva difficoltà a
reperire tutta la documentazione necessaria rispetto all’incarico ricevuto,
proprio per effetto del ritardo nella consegna della documentazione stessa da
parte del Direttore amministrativo della clinica – la M. – era seguita una
seconda relazione, datata 4 agosto 2014, inclusiva degli statini paga, da cui
emergevano le alterazioni e contraffazioni recepite dalla contestazione
disciplinare del 25/29 settembre 2014.
Appuntandosi proprio su tale arco temporale – 4
agosto/25 settembre – le censure di parte appellante, la Corte ha affermato
congruamente e conformemente ai primo giudice, non solo il carattere
ordinatorio del termine di trenta giorni, ma, segnatamente, la decorrenza dello
stesso dalla conoscenza effettiva dei fatti da parte degli organi direttivi,
sanitari ed amministrativi, non potendo l’accertamento dei fatti e la compiuta
valutazione degli stessi da carte degli organi a ciò deputati, farsi
“meccanicamente” coincidere con il giorno del deposito della relazione
tecnica da parte del rag. V., “dovendosi reputare ragionevole ed in linea
con l’elasticità con cui va inteso il principio di immediatezza della
contestazione, che la lettura e l’esame di tale relazione da parte degli organi
direttivi e deliberativi della società resistente abbia comunque richiesto un
sia pur minimo Intervallo di tempo”.
La Corte ha, per tale via, offerto compiuta
attuazione al principio secondo cui l’immediatezza è un concetto relativo, nel
senso che la valutazione di essa deve tener conto della complessità del fatto e
degli accertamenti nonché della complessità della struttura organizzativa
dell’impresa datrice di lavoro perché è sempre ammissibile un lasso temporale
più o meno lungo liberamente valutabile dal giudice, tra la conoscenza del fatto
e l’avvio della procedura disciplinare: tale ultima valutazione, si ripete,
che, al di fuori dei casi di pretesa lesione del diritto di difesa, in quanto
di merito – sicuramente non ipotizzabile nel caso di specie – deve ritenersi
incensurabile in sede di legittimità.
3. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi
congiuntamente, per ragioni ci ordine logico – sistematico, sono inammissibili.
3.1. Giova premettere che, come hanno precisatole
Sezioni Unite di questa Corte (SU n. 34469 del 27/12/2019), non solo sono
inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma
1, n. 6, c. p. c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia
compiuta riproduzione nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti
del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e
documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza
fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con
riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla
documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di
renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel
fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in
sede di giudizio di legittimità.
D’altra parte, è consolidato il principio secondo
cui i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c. p. c., un. 3, 4 e 6, devono
essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da
altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il
ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata
indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato,
producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si
dolga, o indicando esattamente nel ricorso In quale fascicolo esso si trovi e
in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o
riassumendone il contenuto nel ricorso (ex plurlmis, Cass. n. 29093 del
13/11/2018).
3.2. Come più volte affermato da questa Corte (cfr.,
ex plurimis, Cass. n. 15517 del 2020) la proposizione, mediante ricorso per
cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum”
della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso, risolvendosi
in un “non motivo”.
L’esercizio del diritto di impugnazione, infatti,
può considerarsi avvenuto in modo idoneo solo qualora i motivi con i quali è
esplicato si traducano in una critica alla decisione impugnata e, quindi,
nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, da
considerarsi in concreto e dalle quali non possano prescindere, dovendosi
pertanto considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il
motivo che difetti di tali requisiti.
Nel caso di specie, va evidenziata la genericità
della doglianza contenuta nel terzo motivo di ricorso, con cui si censura la
pronunzia di secondo grado per aver posto a fondamento della decisione fatti
disciplinari non oggetto di contestazione.
Parte ricorrente, infatti, con una formulazione
perplessa del motivo, allega il riferimento compiuto dalla Corte a quanto
riportato dal tecnico ma essa stessa, poi, precisa come la Corte abbia chiarito
che dei vari punti richiamati dal tecnico, erano state indicate con lettera da
a) ad f) le somme indebitamente percepite per le infrazioni di cui ai punti 4),
5), 7), 9), 10) e 11) censurando il ragionamento decisorio in ordine alla proporzionalità.
Orbene, rilevato che anche nel quarto motivo di
ricorso si denunzia la violazione delle medesime disposizioni legali sotto il
profilo del difetto di considerazione di tutte le circostanze del caso concreto
da cui desumere la proporzionalità tra l’inadempimento del lavoratore e la
sanzione comminata, va premesso che, secondo il costante Insegnamento della
giurisprudenza di legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 13411 del 2020) ai fini della
valutazione di proporzionalità è sicuramente necessario valutare in concreto se
il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la
fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto
si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare
attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad
attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona
fede e correttezza.
La valutazione compiuta dalla Corte al riguardo,
immune da vizi logici, deve ritenersi incensurabile in sede di legittimità
proprio per aver attinto alle concrete modalità di perpetrazione degli illeciti
ed alla fattuale e concreta verifica operata dal consulente, né può in questa
sede tornarsi ad esaminare aspetti di dettaglio quali scatti di anzianità e
superminimo, rimborso spese non documentate e spese indennità chilometriche,
anticipazione TFR ecc. senza addurre in qual modo una diversa valutazione di
tali singoli aspetti avrebbe potuto condurre ad una diversa valutazione della
proporzionalità della sanzione comminata alla luce delle risultanze complessive
raggiunte.
D’altro canto, per costante giurisprudenza di
legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 20335
del 2017, con particolare riguardo alla duplice prospettazione del difetto
di motivazione e della violazione di legge) il vizio relativo all’incongruità
della motivazione di cui all’art. n. 360, n. 5,
cod. proc. civ., comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto
giuridicamente rilevante e sussiste solo quando il percorso argomentativo
adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da
impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della
decisione, o comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata
effettuata in un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente,
contraddittoria o omessa motivazione della sentenza.
Attiene, invece, alla violazione di legge la
deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato,
della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando
necessariamente una attività interpretativa della stessa nel caso di specie,
pur avendo la parte ricorrente fatto valere una violazione di legge, in realtà
mira ad ottenere una rivisitazione del fatto inammissibile in sede di
legittimità chiedendo una diversa valutazione delle risultanze istruttorie che,
invece, è di esclusiva spettanza del giudice di merito essendo rimesso
esclusivamente al giudice di secondo grado, il quale, come anzidetto, ha
peraltro motivato in modo del tutto immune da vizi logico in ordine alla
gravità dei comportamenti ascritti ed alla proporzionalità della sanzione
comminata.
Va poi rilevato che, secondo l’insegnamento di
questa Corte (da ultimo, Cass. n. 13534 del 2019
nonché, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e
Cass. n. 18241 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta
delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd.
clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo
scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La
specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la
stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscenza
generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare
dai principi costituzionali ma anche dalia disciplina particolare, collettiva,
come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni
del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione
è deducibile in sede di legittimità come o azione di legge (ex plurimis, Cass.
n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016;
Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).
Conseguentemente, non si sottrae al controllo di
questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito
nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario
compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di
discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia
recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno
appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass.
n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica
e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit.,
Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005;
Cass. n. 8017 del 2006).
Nondimeno, va sottolineato che l’attività di
integrazione del precetto normativo di cui all’art.
2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a
condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede
di merito non si ‘imiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma
contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio
rispetto agli standards, conformi ai valori.
Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato
al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella
fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro
normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta
causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a
livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano
normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione
in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra
nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il
fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella
fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass.
n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).
Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano
inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti
accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro
riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa”
(cosi, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonché la giurisprudenza ivi
citata).
Tale distinzione operante per le clausole generali
condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi
normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in
proposito Cass SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (di recente si segnala
Cass. n. 13747 del 2018).
E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale
e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e
consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del
più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di
fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento
della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta”
(sul punto fra le altre, Cass. n.18247 del 2009
e n. 7838 del 2005).
Nel caso di specie, parte ricorrente, pur veicolando
la censura per il tramite della violazione di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., mira con evidenza
ad ottenere una rivisitazione nel merito, inammissibile in sede di legittimità.
3.3 Con riguardo al quinto motivo con cui si deduce
l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, relativamente alla prova
documentale delle effettive retribuzioni percepite risultanti dagli estratti
conto della ricorrente rispetto ai cedolini e circa l’omessa valutazione
dell’indisponibilità per la ricorrente degli strumenti per effettuare i pagamenti
dei cedolini, di competenza del solo legale rappresentante dell’azienda, va
rilevato che si tratta, ancora una volta, di censura di fatto, inammissibile in
sede ci legittimità.
Non può non rammentarsi come, in seguito alla
riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del
cod. proc. civ., disposto dall’art.
54 co. 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con
modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134
che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico
grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”,
con la conseguenza che, ai di fuori dell’indicata omissione, il controllo del
vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del
requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed
individuato “in negative” dalla consolidata giurisprudenza della
Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note
ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del
provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile
contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono
nella violazione dell’art. 132. comma 2, n. 4),
c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del
prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del
2017).
Nel caso di specie, la Corte ha chiarito in modo
compiuto circa le risultanze probatorie poste a fondamento della decisione
precisando come la mole e la gravità degli illeciti contestati e provati o
ammessi fosse tale da non lasciare alcun dubbio circa la consapevole
partecipazione della ricorrente alla loro commissione, precisando che se vi
fosse stato concorso del legale rappresentante nella commissione dei falsi,
esso sarebbe stato comunque esulante dalla competenza di accertamento della
Corte, apparendo in ogni caso la consapevolezza delle azioni commesse dalla M.
a suo esclusivo vantaggio fra cui l’attribuzione della qualifica di dirigente,
l’anticipazione del tfr, la “fruizione di un trattamento retributivo
clamorosamente gonfiato”.
La Corte ha, d’altro canto affermato con chiarezza
di non aver ritenuto di accedere all’acquisizione di ulteriore documentazione,
in particolare con riguardo alle buste paga della M., non essendo mai state le
voci in contestazione sulle stesse negate dalla ricorrente la quale, anzi, le
aveva ammesse e giustificate in vario modo nei diversi stati dell’accertamento
condotto.
Rilevato, quindi, che si tratta di valutazioni di
fatto, e che la motivazione deve ritenersi del tutto immune da vizi logici,
essa risulta, anche sotto tale profilo, sottratta al sindacato di legittimità.
4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il
ricorso va respinto.
5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in
dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1-bis dell’articolo 13 comma 1
quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla
rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, che liquida
in complessivi euro 5.250,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre
spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.
1-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.