Per una diversa concezione della Riforma delle PPAA*

Fabrizio Giorgilli**

Vorrei essere subito chiaro. Il titolo di questo contributo copia, parafrasandola, l’essenzialità e la chiarezza concettuale di quello riferito al lavoro fondamentale di Alsdair MacIntyre (“After Virtue” 1981, in bibliografia citato nell’edizione italiana del 2009) che, negli anni Ottanta del secolo scorso aprì nuove prospettive alla riflessione sui comportamenti etici e sulle loro dimensioni analitiche fondamentali.

Non mi sono comunque inventato nulla, visto che sul tema generale delle buone pratiche in campo sociale si svolse nel 2018 un significativo seminario a Milano proprio con il titolo “Oltre la competenza, quali virtù?”. Sul tema specifico di questo intervento, questa scelta dovrebbe permettermi di rendere chiara la mia posizione sull’annosa questione della riforma delle Pubbliche Amministrazioni. Propongo infatti un cambio di paradigma totale che richiede, ne sono consapevole, un pizzico di incoscienza e mente serena. Si tratta, appunto, di andare “oltre” e, in tal modo, realizzare una “emancipazione da”. Proverò quindi a fare ciò sviluppando alcuni, spero semplici, passaggi argomentativi, così come già in altre occasioni ho provato ad esporre (Giorgilli 2021a; Giorgilli 2021b)

 

  1. Dalle conoscenze/competenze alla vocazione

Il Piano Nazionale di Resilienza ci ha riportato, a quanto si legge, al punto di partenza: cambiare la qualità delle prestazioni del sistema di servizi pubblico attraverso il modello delle ultime (e numerose) riforme.

Infatti, dopo i chili di norme sul cambiamento, risulta evidente la loro bassa capacità trasformativa negli esiti. Il prodotto licenziato dagli esperti, a questo punto, sembra riproporre gli stessi script cognitivi, alla prova dei fatti tutti necessari ma insufficienti.

  1. Azione compulsiva sulle norme, in stile autoconcluso. Il tecnicismo come deus ex machina e non come mezzo, strumento tra altri. Si riavvia inoltre la consueta e più che decennale giostra dell’oscillazione tra “deregolamentare” (contro la burocrazia che frena lo sviluppo ed il genio italiano) e “riregolamentare al dettaglio” (per difendersi dalle ondate di truffe e “illegalità esperta”, puntuali ad ogni appuntamento di deregolamentazione). Forse c’è una variabile culturale da considerare?
  2. Attenzione superficiale al fatto organizzativo pubblico. Ci si concentra solo sul vecchio drive evoluzionistico del premio-punizione, senza alcuna sensibilità di carattere psicosociale. Forse c’è una dimensione comportamentale profonda (motivazionale) da considerare?
  3. Introduzione, considerata salvifica, di competenze classiche nella progettazione e nel problem solving, accompagnate da innesti digitali ritenuti risolutori. Si tratta, quindi, di tradizionali assets organizzativi che, pur nella loro necessarietà ed ineludibilità, dovrebbero essere oramai un implicito metodologico e non il focus di una strategia. La consapevolezza di Aristotele nel distinguere tra virtù di giudizio e virtù di carattere è ancora sconosciuta: chi opera nelle Amministrazioni sa infatti da tempo che si possono far crescere le abilità e le capacità razionali, senza per questo garantire una reale spinta attuativa e di cambiamento. Lo stesso concetto di qualità andrebbe trasformato (e lo sanno bene quei pochi dirigenti che provengono dal front end e dalla street level bureaucracy): non sta nella risposta negativa al cittadino, ma nel modo in cui si gestisce la relazione di servizio. Una relazione che richiede sensibilità di ruolo istituzionale. Forse c’è una dimensione comportamentale identitaria (vocazionale, sia sul piano emotivo che su quello cognitivo) da considerare, strettamente connessa al desiderio di cura del bene comune?
  4. Considerazione monoculare del cambiamento dei processi prestazionali di servizio. Si pensa ancora alla singola Pubblica Amministrazione e non alle diversificate (in termini di culture organizzative) Pubbliche Amministrazioni. Inoltre, come conseguenza di questo pensiero leggero, l’azione operativa viene immaginata come svincolata dall’antropologia dei territori dove essa si propone.

 

In generale, sarebbe come immaginare di imparare ad andare a cavallo puntando tutto sul giusto e corretto abbigliamento da cavallerizzo, sulla sella adatta, sullo studio del percorso, sul cavallo di razza.

 

  1. Dalla vocazione alla dimensione etica dei comportamenti

 

Il profilo vocazionale ed identitario ricordato, ci conduce al piano, questo sì a mio parere strategico, etico-comportamentale.

  1. Prima di tutto, è un piano fortemente pratico, o meglio di valorizzazione della causazione circolare tipica del rapporto sano tra ideazione ed applicazione operativa. Non a caso l’etica è da sempre stata collocata nella letteratura al capitolo dedicato ai comportamenti concreti. Un grande contributo ci è venuto proprio dalle riflessioni di filosofia pratica riproposto negli anni ’50 del secolo scorso, in particolare in Germania. (tra gli altri: Pansera 2010, Contesini 2005, Volpi 2002, Frega-Briganti 2004-2005, Habermas 1994).
  2. E’ un piano naturale e fisiologico per le Pubbliche Amministrazioni, a partire dagli indirizzi Costituzionali contenuti dall’art. 54. Tutto è già da tempo scritto, anche in termini comportamentali ed è stata la stessa Costituzione a dare l’esempio non avendo alcuna paura di porre il tema etico in evidenza (si veda la declaratoria del Titolo II: “Rapporti eticosociali”).
  3. E’ un piano, quello etico-comportamentale, che ci aiuta a recuperare, il valore autonomo del modello organizzativo pubblico (progettuale e di mission) rispetto a quello privato. Il settore pubblico deve diventare Adulto (uso non a caso la concettualizzazione dell’Analisi Transazionale (Stewart-Joines 1990). Questo non vuol dire che le due dimensioni di lavoro debbano ignorarsi. Al contrario, sono possibili ed auspicabili canali di confronto su specifiche metodiche gestionali, come anche opportunità di collaborazione per la valorizzazione di risorse sociali e la crescita delle comunità territoriali (si veda il tema dell’economia civile e sociale, come quello della responsabilità sociale d’impresa o del recupero di modelli olivettiani d’impresa), anche solo in considerazione del fatto che la stessa Carta Costituzionale indica al privato una precisa vision nello sviluppo della sua azione, cercando di renderla “compatibile” con quella delle Istituzioni. Ci si deve però emancipare dall’idea vecchia ed inefficiente dell’innesto del modello privato su terreno pubblico: un innesto che fu immaginato antropologicamente decontestualizzato ed integralmente sostitutivo con la proposta del New Public Management, della quale sono ancora visibili i danni e le irrazionalità prodotte anche se va riconosciuto che è stata avviata, negli ultimi anni, una riflessione critica, di “ravvedimento operoso” (Di Mascio-Natalini 2018). Si tratta, allora al contrario, di recuperare uno spazio di interdipendenza e reciproca influenza tra le etiche dei principi e quelle della responsabilità, così come individuate sin dai lavori di Weber. Peculiari, infatti, sono i compiti del settore pubblico, le sue funzioni di garanzia, di equità, di cura del bene comune e dei beni pubblici. Tutti aspetti riconducibili al valore della cittadinanza democratica, ad una dimensione competitiva specifica “sul piano dei valori” (valore competitivo del servizio alla comunità e di promozione e tutela dell’interesse generale: Valotti 2009), nonché ad una funzione altrettanto esclusiva del civil servant (professionista al servizio della comunità). Tutte peculiarità rese ancor più importanti dalla evidente necessità di ancoraggi Istituzionali richiesti per rispondere alle vulnerabilità prodotte con la non-linearità della globalizzazione economica e da ultimo persino sanitaria (si pensi solo alla questione della liberalizzazione dei brevetti relativi ai vaccini).
  4. Ed infine, quello etico-comportamentale è un piano di grande tradizione culturale, come abbiamo già visto nel punto a). Proprio sul carattere peculiare del lavoro pubblico la storia del pensiero civile e sociale è forte e ci conferma che il cammino del cambiamento è possibile anche se non può essere esente da difficoltà, non richiede visione eroiche (pur essendo chiamati tutti ad essere “santi nell’organizzazione”). In questa storia si incontrano contributi diversi (diretti sul tema, indiretti al cittadino od al cristiano, di riflessione generale), molto spesso provenienti da figure che svolsero funzioni come funzionari pubblici (da Platone in Sicilia, all’”umanesimo civile”) e nella Costituzione Italiana confluiti nelle due grandi tradizioni di pensiero cristiano-sociale e liberaldemocratica. Alcuni brevi esempi (si veda “Nota bibliografica punto 2d”, in Bibliografia): in campo cristiano, Bonhoeffer (etica come azione, verso la comunità, ed etica come qui ed ora delle funzioni sociali delle Istituzioni), il sacerdote Genovesi (etica come attenzione alla trasparenza dei poteri ed alla formazione civica), la letteratura a commento del passo del Nuovo Testamento di Marco 1043-45 (“Chiunque tra di voi vorrà essere primo, sarà servo di tutti”), Papa Francesco (intervenuto nel 2021 sulle funzioni diaconali ed il concetto di potere come servizio); in campo liberaldemocratico, Cicerone (centralità del bene comune, funzionario pubblico come moderator ossia colui che coadiuva e modera), Marco Aurelio, Coluccio Salutati, Weber, Bobbio, de Montesquieu, Romagnosi (definizione di “civile filosofia”, riferita alle relazioni tra diritto-etica-azione pubblica), Cuoco. Dunque, dobbiamo e possiamo trovare tutto quello che ci occorre nella tradizione pubblica, ma questa, grazie soprattutto alla spinta culturale della Costituzione che richiede un drive

 

  1. Dal comportamento etico al modello comportamentale delle virtù

 

Se è corretto tutto quello che abbiamo detto sin qui, sappiamo di poter allora contare anche su di un percorso concreto offerto dall’approccio dell’Etica delle Virtù (EdV). Questa concezione operativa comportamentale, questa possibile pedagogia professionale nel lavoro pubblico ci permette una reale incidenza sull’azione organizzativa. Essa pone al centro la motivazione intrinseca e l’attenzione alle caratteristiche di personalità, incontrandosi a mio parere utilmente con alcuni approcci manageriali alla motivazione come quello di McClelland (1987) e quello di Adams (1965) dell’equità organizzativa. Così, l’EdV ci aiuta a recuperare il fattore vocazionale richiesto al lavoro pubblico e sociale, (fattore un tempo ritualizzato simbolicamente nel “giuramento” al momento dell’accesso ed oggi purtroppo non più richiesto).

Ci sono esempi sul campo, come quello della Finlandia nel suo Working Group Memoranda (2000). In questo documento, infatti, viene introdotto il concetto di “Ethics Infrastructure”, capace, per le istituzioni finlandesi, di rendere possibili elevati standard comportamentali (encourages high standards of behavior), puntando ad esempio tra le altre azioni sul valore esemplearista della leadership. Le stesse sensibilità stanno apparendo da qualche anno anche nella letteratura aziendale internazionale in modo più convinto e strutturato.

Proverò ora di seguito a focalizzare alcuni temi di riflessione immediatamente esemplificativi di questo percorso operativo possibile.

  1. Risposta alla sottovalutazione, se non assoluta mancanza di considerazione, della dimensione dei poteri nelle diverse PPAA. Questa non è stata infatti mai aggredita sul piano del cambiamento di mentalità, perdendo di vista la sua vicinanza alle forme di applicazione concreta della norma e determinando l’allontanamento dal criterio costituzionale generale che vede “cittadini al servizio di altri cittadini”. Di fatto è, a mio parere, la variabile fondamentale presente in particolare negli spazi non strutturati dell’organizzazione (il potere, quasi sempre, si sente, si vive, ma non si vede con chiarezza), ossia quegli spazi strategici per l’azione concreta ed il risultato prestazionale conclusivo: spazi tra norma/regola e caso concreto; spazi tra norma /regola e contesto socioantropologico. Inoltre, una corretta lettura dei poteri agiti si collega direttamente, non andrebbe mai dimenticato, alla qualità dei profili di responsabilizzazione, di trasparenza, di equità.
  2. Conseguente introduzione dell’urgenza di una riforma culturale del concetto di carriera. Questa, anche nel pubblico, è stata tollerata, negli ultimi anni, nei suoi “ismi” (carrierismo) e nelle sue forme esasperatamente competitive, tipiche del modello privato aziendalistico ma lontane da ogni idea di servizio. Si erode l’investimento istituzionale di ruolo a favore di quello personale, attraverso un concetto dopato di carriera. Serve invece, coerentemente con la Costituzione, favorire una concezione di sviluppo professionale, come costruzione di competenze e qualità comportamentali utili ad agire i diversi ruoli di servizio nell’ottica generale del civil servant, ponendo quindi al centro le funzioni del ruolo pubblico e non le ambizioni (di comando, possesso di spazi decisionali, destino personale) della singola persona funzionario pubblico. Un modo molto chiaro di rendere di nuovo attrattive le PPAA rispetto alle culture civiche attente al bene comune, già presenti diffusivamente in molti giovani del nostro Paese. Uno sviluppo professionale concepito come “cammino bottom-up, capace di valorizzare la fioritura personale attraverso lo scambio interpersonale ed il lavoro cooperativo. Dal personalismo di ruolo (cerco le occasioni utili per me e prendo quello che posso ora!) al ruolo della progettualità come funzione sociale (do, insieme ad altri, quello che posso alla Comunità in funzione del suo patto sociale). Si giunge al ruolo con la saggezza adeguata. Di conseguenza, si deve dare valore al tempo (di crescita), senza fughe giovanilistiche od immobilismo di età: carriere veloci spesso equivalgono a virtù deboli.” (Giorgilli 2021a, p. 4)
  3. In questa nuova visione e concezione dei poteri e dello sviluppo professionale, le virtù ci sollecitano nell’immaginare politiche radicalmente nuove di sviluppo organizzativo, tali da valorizzare l’aging, lo scambio intergenerazionale e le modalità dell’”entrare nelle organizzazioni” (Depolo 1988). “Si tratta di dare spazio reale ad un’etnografia generazionale dei valori, diacronica (tramandare luoghi e storie rilevanti) e sincronica (trasferimento curato delle capacità/sensibilità). Si tratta di concepire, in particolare, forme strutturate di mentoring bidirezionale (reverse mentoring), centrato sul ruolo del gruppo e della comunità di pratiche come anche sull’esemplarità.” (Giorgilli 2021b, p. 20)
  4. L’approccio metodologico dell’EdV orienta inevitabilmente anche verso un arricchimento delle dimensioni valutative e di controllo della performance, almeno in tre direzioni: attenzione alle diversità operative tra le PA e dentro ogni PA; valorizzazione della differenziazione individuo-gruppo, a seconda della natura dei ruoli, dei loro diversi sistemi di responsabilità (dirigenti, quadri, funzionariato senza posizioni di responsabilità, ecc.) e con centralità assegnata ai processi più che al riduzionismo valutativo individualistico; abbandono della mitologia dell’“oggettivismo quantitativistico”, per la quale “tutto è misurabile”. Va quindi dato spazio ad una diversa concezione della performance stessa superando l’approccio insufficiente della mera efficienza comportamentale, che rischia di indebolire le sensibilità verso la tutela dei beni comuni a favore di un’esasperata concezione personale sinallagmatico-incentivante.
  5. Sul piano dell’organizzazione del lavoro l’EdV appare poi coerente con le forme di organizzazione per processi, “dove al posto del soggettivismo/individualismo si punta all’individualità nella gruppalità” (Giorgilli 2021a, p. 4). Su questo tema, riprendo quanto scrissi a proposito di alcune riflessioni del Guido Capaldo (2021) su un mio lavoro (Giorgilli 2020): “Egli ha colto, tra le pieghe del flusso operativo per processi, quei micro-comportamenti che propongono un significato etico al principio di efficacia ed a quello di efficienza: il saper lavorare con gli altri colleghi, considerandoli risorse e non fastidi; la proattività in termini di problem solving, con la consapevolezza non solo della specifica azione operativa ma del suo più ampio ‘senso’ di cura della comunità (‘missione da compiere’, secondo Capaldo). Insomma, e di nuovo mi riferisco al contributo di Capaldo, le virtù etiche le ritroviamo tutte nelle logiche dell’organizzazione per processi, ossia su quella ‘barca a vela’ che mette in gioco, soprattutto ‘in mare aperto e burrascoso’, tutte le cinque virtù che ho proposto nel mio lavoro [nda. cura, equità, trasparenza, responsabilità, saggezza]. Su quella barca, dove ‘o si vince o si perde tutti’, la vela principale è nella consapevolezza, anch’essa a tratto etico, dell’interdipendenza tra le persone coinvolte, dove non c’è indipendenza (autonomia solpsistica) e tantomeno dipendenza.” (Giorgilli 2021a, p. 4-5) Dove, ancora, si contrastano inefficienti dinamiche di fronteggiamento comparativo tra persone e si introduce invece una mentalità sperimentale (nelle soluzioni operative).
  6. Le virtù, infine, ci spingono ad una riforma radicale dei contenuti e dei metodi della formazione. La loro provata insegnabilità (sin da Protagora!), “rende di nuovo centrale la dimensione gruppale e la logica esperienziale (tra gli altri: Mortari-Valbusa 2017; Mortari-Mazzoni 2014; Mortari 2020; Cosentino 2006; Alt-Reingold 2012; Mutlu 2016). Un processo di apprendimento che deve poggiarsi sul vissuto organizzativo, attraverso il potenziamento del dialogo, della capacità argomentativa, del lavoro cooperativo (connesso all’organizzazione del lavoro per processi) e di specifiche virtù ‘operative’ (solo come esempio: la cura, la trasparenza, l’equità, la responsabilità, la saggezza). Fare questo vorrà dire assegnare una minore responsabilità taumaturgica alle formazioni tecniche classiche, sempre importanti ma presupposto di fatto oramai implicito. Tali formazioni, in assenza di un habitat etico-esistenziale solido, risulterebbero infatti strumenti vuoti e persino adatte a dare efficienza, al contrario, a comportamenti non etici (o addirittura corrotti), come ci, racconta da tempo la letteratura, anche in lingua inglese.” (ed una ricerca citata da Capaldo sui servizi delle Università italiane: Capaldo 2021, p. 3). In generale si dovrebbe guardare ad una formazione-intervento, di comunità di pratiche, con attenzione alla “fioritura” delle personalità di ruolo, in particolare quelle riferite alle dirigenze ed ai quadri intermedi (funzionariato direttivo).

 

  1. Conclusioni

 

Oggi credo serva un capovolgimento nel modo di vedere la riformabilità delle PPAA. Questo capovolgimento richiede anche nuove visioni in diverse discipline che sviluppano temi importanti per il lavoro pubblico. Penso ai diversi diritti amministrativi, alle discipline economico-aziendali, a quelle psicosociali, a quelle giuslavoristiche ed a quelle sociologiche. Serve la consapevolezza e la voglia per realizzare nuove contaminazioni interdisciplinari, ricollocando le categorie analitiche specifiche di ogni area disciplinare in una tessitura culturale e riflessiva che riponga al centro il valore peculiare del settore pubblico, emancipandolo definitivamente dal servaggio verso altre mentalità organizzative ed operative. Una rivoluzione che, paradossalmente, “ci indica la strada del ritorno a casa, allo spazio etico e vocazionale indicato mirabilmente dalla nostra bella Costituzione.” (Giorgilli 2021b, p. 20) Il Piano Nazionale di Resilienza sarebbe un’occasione da non perdere.

 

 

*Con riferimento alle ricerche di McClelland, uso il concetto di conoscenza/knowledge per riferirmi ad un “domino cognitivo” quale insieme di conoscenze tecnico-professionali richieste per specifici ruoli organizzativi. In parte, sempre considerando la stessa letteratura, si potrebbe collegare, per il tema dell’articolo, anche il concetto di “competency” laddove indichi il possesso desiderato (“dominio psicologico”) di skills (functional competencies) o talents importanti e richiesti per fare un lavoro specifico o per apprendere a tal fine, senza però coinvolgere necessariamente profili vocazionali od etici.

 

**Fabrizio Giorgilli è dirigente della Pubblica Amministrazione da oltre 20 anni. Insegna, come docente a contratto, nell’area disciplinare del comportamento organizzativo presso l’Università del Molise. Segue per l’AIDP Abruzzo-Molise le tematiche riferite al lavoro pubblico. Tra i suoi lavori pubblicati: Etica e virtù nel lavoro pubblico, Giappichelli, 2020; Valori, etica ed efficienza nelle organizzazioni pubbliche, Palinsesto, 2014; Rilevanze organizzative, Palinsesto, 2013; Il gruppo nelle organizzazioni (con F.P. Arcuri e C. Ciccia), Palinsesto, 2009; Quaderno di psicologia e comportamento organizzativo. Il sapere minimo, Editoriale Scientifica, 2008; Il lavoro di gruppo (con F.P. Arcuri), Pirola, 1993;

 

 

Bibliografia

 

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Nota bibliografica punto 2d

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