Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2021, n. 32956
Sicurezza sul lavoro, Mancata adozione delle misure di
prevenzione, Infortunio, Responsabilità, Comportamento imprudente dei
lavoratori non adeguatamente formati
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello
di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Monza del 7 marzo 2018,
con cui M. L. e Z. L. erano stati condannati alla pena di euro trecento di
multa ciascuno in relazione al reato di cui agli artt. 110, 590, commi primo,
secondo e terzo, cod. pen., in relazione all’art. 71, comma 1, D. Lvo n. 81 del
2008, perché, in qualità di legali rappresentanti della società E. E. S.r.l.,
cagionavano al lavoratore V. D. lesioni personali consistite in ” F.L.C.
2, 3 e 4 dito della mano destra”, da cui derivava una malattia con
incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo pari a gg.
56; per colpa generica ed inosservanza delle norme sulla prevenzione degli
infortuni sul lavoro, perché omettevano di adottare le misure necessarie per la
sicurezza dei lavoratori con particolare riferimento alla macchina curvatubi,
le cui fotocellule erano state disattivate nonostante fosse possibile un
intervento tecnico sulla macchina, cosicché, presso la sede della “E.
s.r.l.” sita in Nova Milanese, via C.R.I., mentre V. D. stava utilizzando
la predetta macchina con fotocellule di sicurezza disattivate per preparare la
lavorazione di curvatura di alcuni tubi a sezione quadrata, entrava all’interno
della zona di operazione per rimuovere il tubo rimasto incastrato nella
macchina ed appoggiava la mano destra nella zona di chiusura del braccio di
curvatura della macchina, che rimaneva incastrata a causa della chiusura del
braccio, così procurandosi le lesioni personali sopraindicate – con le
circostanze aggravanti della lesione grave per durata della malattia superiore
ai 40 giorni nonché della violazione delle norme sulla prevenzione degli
infortuni sul lavoro – in Nova Milanese in data 3 giugno 2014.
1.1. In ordine alla ricostruzione della vicenda
criminosa, gli imputati, in qualità di datori di lavoro della vittima, avevano
permesso la disattivazione delle fotocellule di sicurezza di una macchina
curvatubi, in modo tale da permettere agli operari di intervenire sull’apparecchiatura
mentre il blocco di sicurezza era disattivato.
Nella mattina del 3 giugno 2014, V. D., dipendente
della E. s.r.I., stava attrezzando una macchina curvatubi per prepararla alla
successiva lavorazione di una serie di curvature di tubi a sezione quadrata.
Tale particolare lavorazione era normalmente effettuata con procedura stabilita
dall’azienda solo da tre dei dieci dipendenti addetti al reparto, tra i quali
il vice capo reparto V., particolarmente esperto, presente in azienda sin
dall’anno 2000, e che lavorava su quella macchina da circa quattro – cinque
anni (cfr. dichiarazioni del lavoratore). Il sistema di fotocellule di
sicurezza della macchina impediva di entrare all’interno della zona di
operazione durante il movimento, permettendo l’ingresso solo con l’interruzione
della lavorazione. La zona di lavoro della macchina risultava separata
dall’esterno su tre lati da un grigliato metallico e protetta sul quarto lato
dal sistema di fotocellule di sicurezza con fermo del movimento in caso d’ingresso
dell’operatore nella zona interna di lavorazione. La pulsantiera di avvio e
spegnimento era posizionata all’esterno della macchina. Nelle lavorazioni
abitudinarie, l’addetto, inserito manualmente il tubo da piegare, usciva dalla
zona protetta e azionava la macchina attraverso la pulsantiera mobile esterna
che eseguiva automaticamente la lavorazione.
Secondo la tesi difensiva, nel corso di particolari
lavorazioni, quale quella del giorno dell’infortunio, l’azienda si era dotata
di una diversa procedura, conseguente alla necessità di particolari tipologie
di piegatura dei tubi, in sequenza e a sezione quadrata, che comportavano
spesso il blocco della lavorazione, perché il tubo si incastrava ed era
necessario l’intervento manuale dell’addetto per ovviare all’inceppamento e che
necessitava altresì di una maggiore vicinanza dell’operatore alla macchina
rispetto a quella resa possibile dalla zona grigliata. In tali ipotesi si era
deciso di eliminare le fotocellule di sicurezza, portando all’interno della
zona di operazione la pulsantiera di comando che, essendo dotata di due
pulsanti, a doppio comando, costringeva i lavoratori ad avere entrambe le mani
impegnate e lontane dalla zona non sicura.
Il giorno dell’infortunio, il lavoratore azionava la
macchina, ma inspiegabilmente appoggiava la mano destra sulla zona di curvatura
della stessa e la sua mano rimaneva incastrata all’interno. Spegneva con la
mano sinistra il movimento della macchina che gli permetteva di liberare la
mano destra, che però subiva conseguenze lesive. A seguito dell’infortunio, su
richiesta degli ufficiali di P.G. dell’Asi, la Società modificava il sistema di
curvatura dei tubi a sezione quadrata, rendendolo più fluido e ripristinava le
fotocellule di sicurezza, modificando il sistema di curvatura.
1.2. La Corte di appello di Milano ha condiviso le
argomentazioni del Tribunale; ha premesso che il datore di lavoro, dall’alto
della sua posizione di garanzia sulla vita e sulla salute dei prestatori
d’opera, è penalmente responsabile ogni qualvolta l’infortunio derivi da una
propria omissione di quelle guarentigie che, ove adottate, avrebbero impedito
l’evento.
In base a questi principi, le esigenze di
lavorazione della E. E. S.r.l. potevano essere soddisfatte, senza sacrificare
la sicurezza dei lavoratori. L’omesso intervento in epoca anteriore
all’infortunio aveva causato l’evento lesivo. Il costruttore aveva
correttamente dotato il macchinario di sistemi automatici di blocco
(fotocellule), nel caso in cui un operatore avesse superato la zona, ove era
possibile entrare in contatto con parti in movimento. Gli imputati avevano
annullato le protezioni per eseguire una particolare lavorazione:
l’impostazione della macchina per la piegatura di tubi a sezione quadrata.
Consapevoli dei rischi avevano giudicato sufficiente mettere all’interno della
zona di operazione un interruttore a due pulsanti, per cui il lavoratore
avrebbe avuto entrambe le mani impegnate e lontane dalla zona di rischio.
L’andamento dell’infortunio dimostrava l’inidoneità
di tale accorgimento a proteggere i lavoratori. Occorreva chiedersi come la
macchina avesse potuto mantenersi in movimento anche quando il V. aveva tolto
la mano dal secondo pulsante, andando ad appoggiarla in una zona, ove era poi
attinta da organi in movimento. Le critiche difensive, basate sulla pretesa
impossibilità di completa segregazione delle aree pericolose a cagione di
effettive esigenze di lavorazione, risultavano prive valore. Il paragrafo 6
dell’allegato 5° D. L.vo n. 81 del 2008, richiamato dalla difesa, è una norma
di natura residuale. Nei casi previsti nei punti 6.2 e 6.5 del par. cit.,
quando gli organi lavoratori non protetti o non completamente protetti possono
afferrare, trascinare o schiacciare e sono dotati di notevole inerzia, il
dispositivo di arresto dell’attrezzatura di lavoro, oltre ad avere l’organo di
comando a immediata portata delle mani o di altre parti del corpo del
lavoratore, deve comprendere anche un efficace sistema di frenatura che
consenta l’arresto nel più breve tempo possibile. Non ricorreva una ipotesi di
abnormità della condotta del lavoratore. Il V. era nel suo luogo di lavoro, in
giorni e orario di regolare attività, addetto alla macchina sulla quale era
stato comandato, secondo la procedura a lui indicata; era prevedibile che
potesse muovere le mani ed eventualmente appoggiarle sull’apparecchiatura.
2. M. L. e Z. L., a mezzo del proprio difensore,
ricorrono per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo
quattro motivi di impugnazione.
2.1. Violazione dell’art. 590 cod. pen. e del par.
6.5 dell’All. V D. Lgs. n. 81 del 2008 e vizio di motivazione per l’omessa
valutazione del particolare funzionamento bifasico della macchina curvatubi
quale motivo principale della temporanea disattivazione delle fotocellule di
sicurezza della macchina e della sostituzione con altre misure preventive, in
conformità al par. 6.5 All. V D. Lgs. n. 81 del 2008. La E. aveva disposto che,
sulla macchina curvatubi BLM, sulla quale era avvenuto l’infortunio, in
presenza di specifiche condizioni, fossero disattivate le fotocellule di
sicurezza e che fossero adottate misure antinfortunistiche alternative,
strettamente codificate e fatte rispettare, ritenendo tale condotta autorizzata
dal citato par. 6.5. Le condizioni che avevano portato la E. a sostituire la
presenza delle fotocellule di sicurezza della macchina Curvatubi con altre
misure di contenimento del rischio infortuni non riguardavano solo la
particolarità delle lavorazioni (la curvatura dei tubi a sezione quadrata, richiamata
dall’impugnata sentenza), ma anche le modalità di funzionamento della macchina
curvatubi BLM, articolate in due fasi: a) attrezzamento o preparazione,
consistente nella regolazione della macchina in funzione della sua successiva
messa in produzione, implicante necessariamente un intervento diretto
dell’operatore sulla macchina per inserire il tubo da curvare, effettuare le
calibrature, registrare la pressione degli elementi e rimuovere il tubo alla
fine del collaudo; b) produzione in serie (o lavorazione), che procede in
automatico, senza necessità di interventi dell’operatore.
L’incidente avveniva durante la fase sub a). La
particolarità della lavorazione in corso – curvatura dei tubi di base quadrata
– era connessa col peculiare funzionamento della macchina. La curvatura di tubi
di conformazione irregolare, interagendo con la matrice della morsa della
macchina, determinava frequenti inceppamenti dei tubi stessi durante la fase di
attrezzamento; l’operatore, pertanto, doveva intervenire con un martello per
disincastrare il tubo inceppato, per poter proseguire con l’attività di
preparazione della macchina.
La disattivazione delle fotocellule di sicurezza e
l’ingresso dell’operatore con la pulsantiera nell’area operativa della macchina
erano inevitabili: B. P., responsabile del servizio prevenzione e protezione
della società, spiegava come la necessità di disattivare le fotocellule di
sicurezza dipendesse dal fatto, verificato direttamente anche alla presenza del
caporeparto, che il passaggio dell’operatore nell’area operativa attraverso le
fotocellule attivate toglieva tutta la potenza alla macchina, tra
cui i blocchi, cioè il consolidamento meccanico delle regolazioni
impostate. Ne derivava che, il minimo spostamento della macchina,
inevitabilmente causato dal martellamento del tubo inceppato, resettava le
precedenti impostazioni e impediva di procedere con l’attività di preparazione
della macchina. Nella relazione scritta, il consulente della difesa ing. R.
descriveva analiticamente le operazioni di preparazione della macchina per
lavorazioni specifiche quali quella in oggetto. La sentenza impugnata,
pertanto, ha trascurato di valutare le effettive esigenze della lavorazione,
che imponevano la sostituzione delle fotocellule di sicurezza con altre misure
di riduzione del rischio, individuabili in due elementi: l’esecuzione di
lavorazioni specifiche (la curvatura di tubi a base quadrata) e la preparazione
(o attrezzamento) della macchina.
La sentenza impugnata si è limitata a considerare lo
svolgimento dell’infortunio durante una lavorazione specifica e, solo su questo
dato, ha escluso l’impossibilità di una completa segregazione delle aree
pericolose. Il ricorso alla modifica della
matrice, infatti, si rivelava solo a posteriori un accorgimento utile a
evitare il necessario ingresso dell’operatore nell’area di lavoro. Prima
dell’infortunio, la matrice originaria della macchina curvatubi era una
componente meccanica diffusamente utilizzata nel settore industriale e usata
per effettuare ogni tipo di lavorazione, compresa la curvatura dei tubi a
sezione quadrata, come quella in corso durante l’infortunio. Nello stesso senso
si esprimeva anche il caporeparto C., secondo il quale l’azienda lo supportava
nell’attività di aggiornamento tecnico dei macchinari di sua competenza e di
aver appreso, in precedenza, di matrici innovative che riducevano il rischio di
inceppamento del tubo. Il C., su input dell’azienda, aveva incaricato l’ufficio
tecnico di preparare i disegni di tali modifiche, che erano in corso di definizione
quando era avvenuto l’incidente.
A fronte di
ciò, la Corte di appello ha basato la condanna sulla mancata installazione di
una matrice innovativa rispetto agli standard del settore industriale e ha
correlato l’attribuzione di responsabilità degli imputati a una condotta
inesigibile, omettendo di valutare i motivi effettivi che avevano indotto
l’azienda a disattivare le fotocellule di sicurezza. Quando il datore di lavoro
disponga di più sistemi di prevenzione degli infortuni, è tenuto ad adottare il
più idoneo e moderno; tuttavia, qualora
la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino all’individuazione di
tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile pretendere che
l’imprenditore sostituisca immediatamente le tecniche precedentemente adottate
con quelle più recenti e innovative, dovendosi pur sempre procedere ad una
complessiva valutazione su tempi, modalità e costi dell’innovazione, purché,
ovviamente, i sistemi già adottati siano, comunque, idonei a garantire un
elevato livello di sicurezza.
Nella conformazione originaria della macchina, prima
delle modifiche apportate a seguito dell’infortunio, l’elemento che rendeva
inevitabile l’avvicinamento dell’operatore all’area di lavoro era, soprattutto,
il particolare funzionamento della macchina curvatubi, nella fase di
attrezzamento – preparazione, come testimoniato dal C.. La Corte di appello ha
ritenuto possibile soddisfare le esigenze della lavorazione di cui al par. 6.5,
adottando quale accorgimento la modifica della matrice – all’epoca inesigibile
per il datore di lavoro – e ha trascurato l’impossibilità di procedere alla
fase di attrezzamento della macchina a fotocellule attivate. Ciò era in
contrasto con la ratio di quella stessa norma.
Per valutare se effettive esigenze di produzione
rendessero impossibile segregare le zone pericolose della macchina, si sarebbe
dovuto verificare se, come argomentato dalla difesa, la segregazione delle aree
pericolose della macchina fosse effettivamente impossibile per la sola (e
necessaria) fase di attrezzamento/preparazione della macchina stessa per
l’esecuzione di quelle specifiche lavorazioni. I giudici di merito hanno omesso
ogni valutazione su tale punto. Infatti, per potere escludere l’applicabilità
del par. 6.5 cit., i giudici di merito avrebbero dovuto spiegare se esisteva
una modalità di preparazione della macchina, diversa da quella effettuata da
E., che consentisse il mantenimento in funzione delle fotocellule di sicurezza,
in contrasto con la posizione contraria, sostenuta dalla difesa e diffusamente
argomentata.
Le sentenze di merito non hanno esaminato una
deduzione difensiva, lungamente articolata, relativa all’impossibilità di
regolare il funzionamento della macchina senza disattivare le fotocellule, che
incideva in modo determinante sull’applicabilità della normativa cautelare
invocata. La sentenza impugnata non ha spiegato perché le particolari modalità
di funzionamento della macchina curvatubi non rendessero necessario sostituire
le misure di sicurezza automatizzate, con misure diverse, idonee a evitare il
rischio infortuni, secondo quanto disposto dal par. 6.5 cit.. Le particolari
modalità di funzionamento della macchina non rendevano possibile la completa
segregazione della stessa.
2.2. Violazione dell’art. 590 cod. pen. e del par.
6.5 AII. V D. Lgs. n. 81 del 2008 e vizio di motivazione nella parte in cui,
richiamando solo una delle misure preventive, adottate da E. in sostituzione
delle misure automatizzate, la considerava inidonea a ridurre al minimo il
rischio infortuni.
L’esclusione dell’applicabilità e della rilevanza
nel caso in esame del par. 6.5 All. V cit. dipende, secondo la Corte di appello
di Milano, da un preciso rilievo: l’accorgimento utilizzato dalla E. per
sostituire i sistemi automatici di blocco della macchina (le fotocellule di
sicurezza), ossia l’utilizzo di un interruttore a due pulsanti, per cui il
lavoratore avrebbe avuto entrambe le mani impegnate e lontane dalla zona di
rischio, è inidoneo a garantire la tutela dei lavoratori. Correttamente la
Corte di appello, nel valutare l’applicabilità della norma invocata, ha
considerato le misure di sicurezza sostitutive delle fotocellule di sicurezza,
adottate dalla E., per apprezzarne l’idoneità a prevenire gli infortuni.
La Corte di merito, tuttavia, ha esaminato solo la
meno rilevante delle misure adottate da E., sorvolando sui numerosi e
documentati elementi, emersi nel dibattimento, che descrivevano un quadro di
accorgimenti antinfortunistici ben diverso.
AI riguardo è opportuno richiamare schematicamente
quanto segue.
A) La E., anzitutto, aveva specificamente valutato
il rischio infortuni, derivante dalla necessaria e temporanea disattivazione
delle fotocellule di sicurezza della macchina curvatubi nel DVR e aveva
elaborato una specifica procedura per contenerlo al massimo. La procedura n.
31, allegata appunto al DVR e acquisita in atti, dava conto delle misure
cautelari elaborate E. e le codificava esplicitamente. Secondo tale procedura,
valida per le lavorazioni particolari, l’attività di preparazione della macchina
era riservata esclusivamente a personale selezionato, qualificato ed esperto,
dotato di apposita formazione professionale. È opportuno sottolineare come
questa procedura fosse stata elaborata dalla direzione dell’azienda in modo
collegiale, con la collaborazione degli operai qualificati all’uso della
macchina. Essa, quindi, costituisce una sintesi di conoscenze concrete,
ispirate non solo a esigenze di produttività ma anche – e soprattutto – al
rispetto delle condizioni di sicurezza.
B) La formazione specifica in relazione all’uso
della macchina in condizioni di sicurezza era stata effettivamente prestata
dall’azienda, come confermato dal tecnico ASL e spiegato dal responsabile
servizio prevenzione e protezione B..
C) Altrettanto effettivo era il controllo circa il
rispetto concreto della procedura: il caporeparto C. aveva spiegato le modalità
di esercizio di questo controllo. La Corte di appello ha trascurato di
considerare la portata contenitiva del rischio
delle misure, ben più importanti, sia in termini di efficacia che di
onerosità, adottate dall’azienda: ci si riferisce alla formazione specifica di
personale per l’uso di quella macchina; alle modalità pratiche di
somministrazione di tale formazione; all’effettività della formazione; alla
rigorosa selezione numerica degli operai abilitati a operare sulla macchina; al
controllo esercitato da caporeparto sul rispetto della codificata procedura di
sicurezza nell’utilizzo della macchina. L’omissione di tali elementi vizia la
sussistenza stessa o la coerenza logica della motivazione, che limita l’esame
dell’idoneità delle misure di contenimento del rischio infortuni alla sola
adozione della doppia pulsantiera: misura efficace ma, come espresso dai testi
in dibattimento, ancillare rispetto alla ben più effettiva sicurezza garantita
dalla formazione specifica e rispettata dagli addetti alla macchina a
fotocellule disattivate. La sentenza impugnata ha offerto un’interpretazione
errata del par 6.5 cit., in base al quale, in linea generale, gli elementi mobili
di macchine che possono causare incidenti debbano essere dotati di sistemi
protettivi che impedicano l’accesso dei lavoratori alle zone pericolose. A
fronte di questa impostazione generale, esplicitata nel par. 6.1, le
disposizioni seguenti definiscono una serie di eccezioni al principio della
segregazione delle zone pericolose della macchina, motivate da ragioni tecniche
o produttive.
Il par. 6.5. disciplina una di queste eccezioni ed è
indirizzato al datore di lavoro, che faceva uso di macchine costruite da terzi,
dotate di sistemi di sicurezza intrinseci, idonei a segregare le zone
pericolose. Tale disposizione regola, appunto, situazioni peculiari, in cui si
verifica un contrasto tra il funzionamento delle normali condizioni di
sicurezza della macchina (che isolano le aree pericolose) e effettive esigenze
di lavorazione, che rendono impossibile la completa segregazione delle aree
pericolose. Il par 6.5. risolve questo contrasto, attribuendo al datore di
lavoro il potere (e la correlata responsabilità in ordine al suo corretto
esercizio) di individuare le misure di sicurezza alternative alla completa
segregazione degli organi lavoratori. La correttezza nell’esercizio di tale
potere dipende dall’idoneità delle misure alternative adottate dal datore di lavoro
a ridurre al minimo il rischio infortunio. Non sono state considerate tutte le
misure di sicurezza alternative, adottate dall’imprenditore ma solo una di
queste, per cui l’interpretazione prospettata del par. 6.5 era giuridicamente
errata.
2.3. Violazione degli artt. 40, 41, comma secondo, e
590 cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla rilevanza della condotta
imprudente del lavoratore nel meccanismo causale dell’evento.
Si rileva che la Corte di appello non ha esaminato
la precisa censura, concernente la condotta esorbitante del lavoratore, e non
la diversa categoria dell’abnormità. La natura esorbitante della condotta del
V. emergeva da diversi elementi. La concreta dinamica dell’infortunio ha fatto
emergere appunto un comportamento esorbitante del lavoratore rispetto agli
obblighi cautelari che sullo stesso gravavano. Il V. si era infortunato,
perché, secondo le sue stesse dichiarazioni, mentre stava attrezzando la
macchina, aveva involontariamente appoggiato la mano sul braccio di salita, che,
muovendosi, l’aveva poi schiacciata. Il movimento che aveva originato
l’infortunio non era funzionale alle esigenze di produzione e non poteva
considerarsi un movimento routinario o seriale. L’azione del V. si presentava
come elemento esorbitante e imprevedibile. Tale azione, infatti, non essendo
funzionale a esigenze di produzione non poteva essere collegata all’attività
lavorativa.
2.4. Violazione dell’art. 131 bis cod. pen. e vizio
di motivazione per omessa considerazione dei profili di offensività di condotta
e danno, come emergenti dal caso concreto.
Si deduce che i giudici di merito hanno ritenuto
inapplicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto,
sulla base di un’interpretazione sbagliata dell’art. 131 bis cod. pen..
L’omessa applicazione di tale istituto, nella sentenza impugnata, è stata
rimessa a considerazioni di carattere generale e non come impone la norma, ad
un esame specifico delle caratteristiche del fatto. Il giudizio sulla tenuità
del fatto richiede una valutazione complessa in relazione alle modalità della
condotta e all’esiguità del danno o del pericolo e implica una equilibrata
considerazione di tutte le peculiarità del caso concreto.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato limitatamente alla richiesta
di applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. ed è infondato nel resto.
2. Col primo motivo di ricorso si deduce che la
Corte di appello, riportandosi alla sentenza di primo grado, non avrebbe
risposto alle censure difensive che avevano evidenziato come la particolare
fase di lavorazione a cui era intento l’infortunato, quella dell’attrezzamento
o preparazione dei tubi che comportava frequenti inceppamenti, imponeva la
disattivazione delle fotocellule di sicurezza, la segregazione delle aree
pericolose e l’ingresso dell’operatore con la pulsantiera nell’area operativa
del macchinario. Si era perciò deciso
tale diversa modalità di lavorazione, compatibile con le esigenze di sicurezza
e col paragrafo 6.5 dell’Ali. V, D.Igs. n. 81 del 2008, non essendo possibile
“pretendere che l’imprenditore proceda ad un’immediata sostituzione delle
tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative”
dovendo aversi riguardo a tempi e costi dell’innovazione laddove i sistemi in
atto siano già sufficientemente adeguati ed essendo, dunque, inesigibile
all’epoca per gli imputati
l’accorgimento della modifica della motrice.
Col secondo motivo si deducono i medesimi vizi nella
parte in cui la Corte milanese ha valutato solo una delle misure precauzionali
adottate dall’azienda, l’uso di un interruttore a due pulsanti per tenere
impegnate le mani dell’operatore lontane dall’area di pericolo, senza
considerare in alcun modo le ulteriori misure: elaborazione collegiale di una
specifica procedura di contenimento del rischio; formazione specifica adeguata
dei lavoratori; selezione accurata del personale addetto alla macchina;
controllo sul concreto rispetto della procedura. Ciò in osservanza del disposto
del paragrafo 6.5 dell’Ali. V D. Igs. n. 81 del 2008, che prevede le eccezioni
al principio di segregazione delle zone pericolose della macchina per ragioni
tecniche o produttive.
2.1. In ordine ad entrambi i motivi di ricorso, da
trattare congiuntamente, va premesso che il datore di lavoro deve non solo
predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire
a tale scopo, ma anche, e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto
da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di
trascurarle (Sez. 4, n. 27787 del 8/5/2019, Rossi, Rv. 276241). Il datore di
lavoro, infatti, risponde dell’infortunio occorso al lavoratore, in caso di
violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei
rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i
dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle
mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte (Sez. 4,
n. 45808 del 27 giugno 2017, Catrambone, Rv. 271079). Infatti, tramite
l’adempimento di tale obbligo che il datore di lavoro rende edotti i lavoratori
dei rischi specifici cui sono esposti (Sez. 4, n. 11112 del 29 novembre 2011,
Bortoli, Rv. 252729).
Non può infatti venire in soccorso del datore di
lavoro il comportamento imprudente posto in essere dai lavoratori non
adeguatamente formati. Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di
informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde,
infatti, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza
del lavoratore il quale, nell’espletamento delle proprie mansioni, pone in
essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile
della inadempienza degli obblighi formativi (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio
2015, Vallani, Rv. 265178).
Si è poi ulteriormente specificato che l’obbligo di
informazione e formazione dei dipendenti, gravante sul datore di lavoro, non è
escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore,
formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di
conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori,
anche posti in relazione gerarchica tra di loro (Sez. 4, n. 22147 del 11
febbraio 2016, Morini, Rv. 266860). Ciò in quanto l’apprendimento insorgente da
fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della
prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le
attività di informazione e di formazione prevista dalla legge e gravanti sul
datore di lavoro (Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 259219).
Non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del
lavoratore per l’infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza
approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che
le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore
anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore dì lavoro
dominare ed evitare l’instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive
di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di
pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255, in fattispecie
relativa all’omessa adeguata valutazione, da parte del datore di lavoro, dei
rischi di trascinamento – già manifestatisi in precedenza – derivanti
dall’utilizzo di uno straccio per le operazioni di pulitura e rifinitura delle
calzature in produzione eseguite dal lavoratore in prossimità di una macchina
spazzolatrice dotata di albero rotante. In applicazione del principio, la S.C.
ha escluso che il lavoratore potesse ritenersi edotto della situazione di
rischio alla luce di un incidente verificatosi alcuni giorni prima; Sez. 4, n.
7955 del 10/10/2013, dep. 2014, Rovaldi, Rv. 259313). Le disposizioni di
sicurezza perseguono infatti il fine di tutelare il lavoratore anche dagli
infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire comprende
il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo
il datore di lavoro impedire l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari
delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e, come tali,
latrici di possibili rischi per la sicurezza e la incolumità dei lavoratori
(Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 247996).
2.2. In applicazione di tali principi, la Corte di
appello, con motivazione lineare e coerente, ha spiegato che l’infortunio era
avvenuto a causa di una modifica apportata al meccanismo di sicurezza previsto
dall’azienda costruttrice. Nelle previsioni originarie il macchinario su cui il lavoratore V.
operava era protetto per tre lati da griglie metalliche che ne impedivano
l’avvicinamento, per il quarto lato erano previste fotocellule di sicurezza che
arrestavano il movimento nel caso di interferenze del lavoratore nella parte
interna. Gli imputati, per evitare continue interruzioni delle lavorazioni,
necessitate da particolari interventi sulla curvatura di alcuni tipi di tubo, e
consentire l’avvicinamento dell’operatore, avevano modificato la macchina
eliminando le fotocellule e predisponendo una pulsantiera con due pulsanti ad
attivazione manuale che impegnava entrambe le mani, così da tenerle lontane
dalla zona di pericolo. Al riguardo, i giudici di merito hanno correttamente
chiarito come tale modifica in diretta correlazione causale con l’infortunio,
in quanto annullava le attente prescrizioni della ditta fornitrice, inserendo
un meccanismo non adeguato a tutelare il lavoratore dai pericoli di contatto
con la macchina e, peraltro, neppure pienamente efficiente, considerato che
tale meccanismo non si era tempestivamente fermato malgrado una delle mani non
fosse sulla pulsantiera.
Nella sentenza impugnata si è precisato che il
sistema di sicurezza a doppio pulsante installato non era correttamente
operativo, oppure la macchina non si era fermata con la dovuta tempestività;
tale circostanza, pertanto, è stata logicamente ritenuta indicativa della sua
inadeguatezza.
Si è preferito adottare una modifica rischiosa al
macchinario, non prevista dal costruttore, per esigenze lavorative a detrimento
della salute del lavoratore. La difesa, peraltro, non fornisce nessuna
indicazione da cui emergesse che i nuovi dispositivi adottati subito dopo
l’infortunio fossero particolarmente innovativi e non potessero essere
adoperati in precedenza. E’ preciso dovere dei soggetti che rivestano una
posizione di garanzia, provvedere a munire il lavoratore dei più moderni
strumenti che la tecnologia offre, per garantire la sicurezza sul lavoro (Sez.
4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259229).
Al riguardo, la difesa invoca il principio espresso
dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in materia di infortuni sul
lavoro, è onere dell’imprenditore adottare nell’impresa tutti i più moderni
strumenti offerti dalla tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori ma
non è configurabile a suo carico un obbligo di procedere alla immediata
sostituzione delle tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti ed
innovative, dovendosi pur sempre valutare tempi, modalità e costi
dell’innovazione, sempre che i sistemi già adottati siano comunque idonei a
garantire un livello elevato di sicurezza (Sez. 4, n. 3616 del 14/01/2016,
Alfano, Rv. 265738, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto responsabile,
per l’infortunio occorso ai dipendenti, l’imprenditore che, sebbene in possesso
delle certificazioni di regolarità dell’impianto, aveva omesso di aggiornarsi
circa i sistemi di sicurezza già da tempo esistenti sul mercato e di adeguare
il proprio impianto con una spesa estremamente contenuta).
E’ evidente l’inconferenza del richiamo a tale
pronuncia, in quanto nella fattispecie in oggetto il datore di lavoro
modificava un meccanismo di funzionamento di un macchinario sicuro in modo
rischioso per la salute del lavoratore esclusivamente per esigenze produttive.
Né appare giustificare la condotta degli imputati il
richiamo al contenuto del paragrafo 6.5 dell’All. V al D. Igs. n. 81 del 2008.
La sentenza impugnata, ricordando come tale disposizione sia di chiusura alla
disciplina in esame, infatti, ha sottolineato come le esigenze produttive
potessero essere adeguatamente salvaguardate anche con una totale segregazione
dell’area di rischio come poi agevolmente avvenuto immediatamente dopo
l’infortunio, con l’intervento della società produttrice sul sistema di
curvatura dei tubi e il ripristino delle fotocellule di sicurezza.
Tali considerazioni appaiono conformi ai principi
regolatori del sistema antinfortunistico ripetutamente ribaditi dalla
giurisprudenza di legittimità. La salute del lavoratore, invero, costituisce un
“vero e proprio limite all’attività produttiva, alla sua utilità sociale nonché alla produzione del relativo
profitto” (Sez. 4, n. 6566 del 17/10/2019, dep. 2020, Vitrano, non
massimata) e, nel caso concreto, aldilà di un generico e irrilevante
riferimento ai costi della sicurezza evocato in ricorso, i veloci interventi
sulla macchina hanno reso evidente la possibilità di conciliare le necessità
della lavorazione con la massima tutela dei lavoratori.
3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente
infondato.
La condotta del lavoratore, consistente nell’aver
appoggiato la mano destra sulla zona di curvatura della macchina, che poi
rimaneva incastrata all’interno, non può essere ritenuta eccentrica rispetto
alle mansioni attribuitegli.
In ordine alla prevedibilità delle circostanze che
hanno determinato l’evento lesivo del lavoratore, i giudici dì merito hanno
evidenziato come l’operazione intrapresa dall’infortunato costituisse un
ordinario accadimento fortuito, trattandosi di condotta, seppur anomala,
preventivamente controllabile e intuibile in anticipo.
L’assunto del giudice d’appello è corretto e
conforme al principio più volte affermato dalla Corte di legittimità in materia
di infortuni sul lavoro, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle
norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il
comportamento del lavoratore sia stato posto in essere del tutto autonomamente
e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e, pertanto, al di fuori di
ogni prevedibilità per il datore di lavoro – o rientri nelle mansioni che gli
sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente,
lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del
lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzì,
Rv. 272222); nello stesso senso, si è affermato che, in tema di prevenzione
antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi
abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore
di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile,
quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante
dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di
garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603).
Pertanto, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la
violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro
ovvero al destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime
questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento
anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle
mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed
imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da
ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n.
16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386).
A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o
negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di
tutela approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia
esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi dì sicurezza. Tali
disposizioni, infatti, sono dirette a difendere il lavoratore anche da
incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro,
prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali
pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813
del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497).
Orbene, come evidenziato in maniera appropriata
dalla Corte territoriale, in linea coi principi sopra richiamati, il
comportamento tenuto dal lavoratore non può essere inquadrato nell’ambito delle
condotte connotate da esorbitanza, non essendosi realizzato in un ambito avulso
dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto. Il lavoratore era intento
alla sua ordinaria mansione e che, nonostante la sua esperienza, che lo aveva
selezionato proprio per quel tipo di compito, costituiva evenienza del tutto
prevedibile una ridotta attenzione dettata dalla stanchezza e un movimento
delle mani sbagliato a fronte dell’inadeguatezza delle alternative misure di
sicurezza adottate, peraltro, neppure pienamente funzionanti. Alla luce di tali
elementi, pertanto, è configurabile la responsabilità a carico dei ricorrenti
nel determinismo causale.
4. Il quarto motivo di ricorso è fondato.
Va premesso che, ai fini della configurabilità della
causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il
giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte
le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art.
133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di
colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U,
n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590), richiamando ad una valutazione
quanto più aderente alla concreta fattispecie e ripudiando – entro le sole
“rime obbligate” dei limiti edittali e dell’abitualità, previste
dalla legge – impropri automatismi (Sez. 5, n. 11240 del 28/02/2019, Curci, non
massimata).
In tal senso, la mancata sussumibilità del fatto nel
paradigma della particolare tenuità dell’offesa e l’inapplicabilità
dell’istituto non può essere desunta dai precedenti penali (Sez. 3, n. 35757
del 23/11/2016, Sacco, Rv. 270948; Sez. 4, n. 7905 del 7/1/2016, Vinci, Rv.
266065), ma questi possono essere posti alla base della valutazione di gravità
della condotta e dell’allarme sociale da essa provocato, unitamente alle
modalità concrete con le quali la medesima sia stata realizzata, con ciò
tenendosi conto, dunque, dei parametri di giudizio di natura e struttura oggettiva
voluti dal legislatore e non di quelli legati alla personalità dell’imputato.
L’art. 131 bis cod. pen., prevede, perché possa
ritenersi la particolare tenuità del fatto, che il comportamento non risulti
abituale. Tale disposizione, al terzo comma, indica le ipotesi in cui il
comportamento debba ritenersi abituale: a) autore dichiarato delinquente
abituale, professionale o per tendenza; b) autore che abbia commesso più reati
della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di
particolare tenuità; c) reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e
reiterate.
L’art. 131 bis cod. pen., quindi, pretende la veste
formale di delinquente abituale, professionale o per tendenza, una recidivanza
non generica ma specifica, una struttura del reato intrinsecamente conformata
dalla pluralità, dalla abitualità e dalla reiterazione delle condotte (Sez. 4,
n. 7905 del 07/01/2016, Vinci, non massimata sul punto).
Peraltro, ai fini della configurabilità della
abitualità del comportamento, ostativa all’applicazione della causa di non
punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., l’identità dell’indole dei
reati eventualmente commessi deve essere valutata dal giudice in relazione al
caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri
fondamentali comuni (Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, Salzano, Rv. 274186; Sez.
4, n. 27323 del 04/05/2017, Garbocci, Rv. 270107).
Ciò posto, nella fattispecie la Corte di merito ha
escluso l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131
bis cod. pen., rilevando che solo il caso aveva salvato la mano del lavoratore
da più gravi conseguenze. Nell’escludere la causa di non punibilità in
questione, la Corte di appello non ha svolto una valutazione complessa e
congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, mediante
l’analisi delle modalità della condotta, del grado dì colpevolezza da esse
desumibile e dell’entità del danno o del pericolo e si è limitata a riportare
un dato del tutto generico ed apodittico, incorrendo sostanzialmente in una
petizione di principio.
5. Per tali ragioni la sentenza va impugnata
limitatamente alla questione inerente all’applicazione della causa di non
punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., con rinvio ad altra Sezione della
Corte di appello di Milano. Il ricorso va rigettato nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla
questione concernente l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. e rinvia sul
punto ad altra Sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta il ricorso nel
resto.