Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2021, n. 24402
Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro,
Valutazione del materiale probatorio, Requisito della eterorganizzazione
Rilevato che
1. La Corte di Appello di Catania con sentenza n.
150 dell’8.2.2018 ha respinto l’appello proposto da C.G. avverso le sentenze
(dapprima non definitiva n. 2260/2014 e poi definitiva n. 978/2017) del locale
Tribunale che avevano accolto il ricorso proposto da C.C. per l’accertamento
della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso dal settembre 1987
al settembre 2008, con mansioni di aiutò verniciatore di autocarrozzeria, con
conseguente condanna al pagamento delle differenze retributive.
2. La Corte territoriale, dichiarato inammissibile
il primo motivo di ricorso per carenza dei requisiti di specificità, ha
ritenuto di condividere le valutazione del materiale probatorio (di fonte
testimoniale e documentale) già svolte dal giudice di primo grado, materiale
idoneo a dimostrare la sussistenza del requisito della eterorganizzazione nel
rapporto di lavoro.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso C.G. sulla base di tre motivi; C.C. non si è costituito.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia nullità
della sentenza e violazione/falsa applicazione degli artt. 342, 434
cod.proc.civ. (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ.),
avendo, la sentenza impugnata, dichiarato inammissibili il “supposto”
primo motivo nonché il quinto, che costituivano, in realtà, rispettivamente, la
premessa alle prime tre doglianze critiche svolte in appello e la quarta
doglianza critica, sviluppate nel pieno rispetto dei criteri dettati dal
novellato, art. 434 cod.proc.civ. che richiede l’indicazione delle parti del
provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste,
oltre a una motivazione alternativa a quella svolta dalla sentenza impugnata.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia
nullità della sentenza (ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 4 e 5,
cod.proc.civ.), avendo, la sentenza impugnata, con motivazione assolutamente
apparente, omesso di valutare le censure, svolte nell’atto di appello, relative
alle deposizioni rese dai testimoni del lavoratore-ricorrente, alla insussistenza
del vincolo di soggezione tipico del rapporto di lavoro subordinato, alla
inattendibilità dei testimoni di parte datoriale-resistente.
3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 cod.civ. (ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.), avendo, la Corte
territoriale, erroneamente ritenuto che dalle deposizioni testimoniali fossero
emerse circostanze idonee a concretare il requisito della subordinazione inteso
quale soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e
disciplinare del datore di lavoro.
4. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per
carenza di interesse.
Questa Corte ha affermato che è inammissibile, per
carenza di interesse, il ricorso per cassazione con il quale si contesti
esclusivamente l’avvenuto rilievo in motivazione, da parte del giudice di
appello, dell’inammissibilità dei motivi di impugnazione per difetto di
specificità, ove tale rilievo sia avvenuto “ad abundantiam” e
costituisca un mero, “obiter dictum”, che non ha influito sul
dispositivo della decisione, la cui “ratio decidendi” è, in realtà,
rappresentata dal rigetto nel merito del gravame per infondatezza delle censure
(Cass. n. 30354 del 2017).
Ebbene, nel caso di specie il primo motivo non
coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata in quanto la Corte
territoriale, dopo aver rilevato l’inammissibilità di quello che ha considerato
il primo e poi il quinto motivo, ha comunque esaminato le doglianze nel merito,
rigettandole per infondatezza.
5. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Va osservato che la sentenza in esame (pubblicata
dopo l’11 settembre 2012) ricade, ratione temporis, nel regime risultante dalla
modifica dell’art. 360, primo comma n. 5), cod.proc.civ. ad opera dell’art. 54
del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7
agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la decisione può essere impugnata per
cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è
stato oggetto di discussione tra le parti”. L’intervento di modifica del
n. 5 dell’art. 360 cod.proc.civ., come interpretato dalle Sezioni Unite di
questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014), comporta una sensibile restrizione
dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto,
dovendosi interpretare, la norma, alla luce dei canoni ermeneutici dettati
dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo
costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto,
è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in
violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della
sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”,
nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella
“motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa
qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della
motivazione.
Ebbene, la sentenza impugnata ha affrontato, con
argomenti logici e coerenti, tutti i profili oggetto delle censure avanzate dal
ricorrente, rilevando che era condivisibile la motivazione fornita dal giudice
di primo grado circa la maggiore attendibilità dei testimoni del
lavoratore-ricorrente rispetto a quelli del datore di lavoro-resistehte in
considerazione della concordanza delle dichiarazioni dagli stessi rese
(“coincidenti”), dei profili di responsabilità penale sollevati
riguardo al teste di parte resistente P.(che, inoltre, aveva negato il dato
formale delle risultanze previdenziali), della scarsa utilizzabilità delle dichiarazioni
del teste di parte resistente R. in quanto “presente in officina solo
occasionalmente, non come dipendente”; la Corte territoriale ha, inoltre,
sottolineato che la natura subordinata del rapporto di lavoro, in data
precedente la regolarizzazione, era provata altresì dalla documentazione
versata in atti (bolle di accompagnamento) da cui risultava che il C. aveva
“svolto attività (ritiro merce) per conto del G. proprio nel periodo
anteriore a quello in cui il rapporto de quo è stato formalizzato”,
risultando, inoltre, tardiva (in quanto svolta solamente in grado di appello)
l’argomentazione concernente la simulazione di un rapporto di lavoro
subordinato per il periodo luglio-ottobre 1992.
La Corte territoriale si è, dunque, conformata al
principio di diritto ripetutamente affermato da questa Corte secondo cui sono
riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del
materiale probatorio, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla
formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che, è insindacabile,
in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze
rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto
ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo
giudice (Cass. n. 13054 del 2014); inoltre, il giudice, nel caso sussista un
contrasto fra le dichiarazioni rese dai testimoni escussi, è tenuto a
confrontare le deposizioni raccolte ed a valutare la credibilità dei testi in
base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza
alle parti, l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni e la convergenza di
queste con gli eventuali elementi di prova acquisiti, per poi esporre le
ragioni che lo hanno portato a ritenere più attendibile una testimonianza
rispetto all’altra o ad escludere la credibilità di entrambe (Cass. n. 1547 del
2015).
5.1. nel caso di specie, opera, inoltre, la modifica
che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia
conforme”. Invero, l’art. 348 ter, comma 5, cod.proc.c.iv., prescrive che
la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo
dei vizi deducibili di cui all’art. 360, comma 1, c.p.c. – si applica, fuori
dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione
avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, con la
conseguenza che il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa
di pronuncia c.d. doppia conforme.
Come evidenziato, oltre a non ricorrere alcun error
in procedendo per omessa pronuncia su critiche formulate nell’atto di appello,
la Corte territoriale ha confermato la statuizione del Tribunale che aveva
ritenuto sussistente – sulla base degli elementi istruttori (di fonte
documentale e testimoniale) – l’instaurazione di un rapporto di lavoro
subordinato fra le parti sin da epoca antececedented maggio 2002.
6. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che ai fini
della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è
censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri
generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce
accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da
motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle
risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il
rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (ex plurimis,
Cass., nn. 4220 del 1992, 6919 del 1994; 326 del 1996; 4036 del 2000; 5989 del
2001, 23455 del 2009, 9808 del 2011).
Nel caso di specie, come già rilevato, la Corte
territoriale ha rilevato che non risultava smentito che la prestazione
lavorativa resa a favore del G. non fosse riconducibile allo schema della
subordinazione, “essendo stata data dimostrazione dell’elemento peculiare,
ovverosia la eterorganizzazione all’esito delle deposizioni rese dai testi indicati dal ricorrente puntualmente richiamati
dalla sentenza di primo grado le cui argomentazioni sul punto vanno
richiamate”.
7. In conclusione, il ricorso va dichiarato
inammissibile; nulla si provvede sulle spese di lite in assenza di costituzione
del controricorrente.
8. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma
1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge
di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che
liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.500,00 per compensi
professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.