Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2021, n. 24401
Infortunio, Inabilità permanente, Liquidazione del danno
differenziale, Individuazione dei danni non riconducibili alla copertura
assicurativa
Rilevato che
1. La Corte di appello di Roma, in parziale riforma
della sentenza di primo grado, ha parzialmente accolto le domande avanzate da
L.T. nei confronti dell’Impresa di F.F., di cui era stato dipendente a tempo
determinato dal 19.1.2010 al 20.5.2010, e l’ha condannata al pagamento della
somma di € 24.784,77 a titolo di danno differenziale conseguente all’infortunio
sul lavoro subito il 10.5.2010 in luogo della somma di € 8.856,00 liquidata dal
Tribunale; a corrispondergli la somma di € 1.791,28 a titolo di retribuzioni
per i mesi di marzo e di aprile del 2010 con accessori dovuti per legge; al
pagamento dell’indennità per ferie e permessi non goduti fino al 30.4.2010,
oltre interessi e rivalutazione monetaria, da liquidarsi in separato giudizio.
2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
F.F. che articola sette motivi ai quali resiste con controricorso L.T. che ha
depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art.
380 bis 1. cod. proc.civ.
Considerato che
3. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 2697 cod. civ. con
riguardo al riconosciuto diritto del lavoratore al pagamento delle mensilità di
marzo e aprile.
3.1. Sostiene il ricorrente che diversamente da
quanto ritenuto dalla Corte di merito nel corso del giudizio, al contrario, era
stato dimostrato l’avvenuto pagamento delle retribuzioni anche in quei due mesi
ed che era stata allegata una dichiarazione sottoscritta dal L. che ne
attestava la ricezione.
4. La censura è inammissibile.
4.1. La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice
abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era
onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla
differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di
censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte
dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede dì legittimità, entro i
ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n.
5 cod.proc.civ.) (cfr. Cass. 29/05/2018 n. 13395 e 31/08/2020 n. 18092).
5. Anche il secondo motivo di ricorso – con il quale
si deduce la violazione degli artt. 2697, 2728 e 2730 cod. civ.
con riguardo all’accertato diritto del L. a ricevere l’indennità per ferie e
permessi non goduti – è inammissibile a cagione della genericità della censura
che non riporta il contenuto delle dichiarazioni rese dal F. e dalle quali la
Corte ha indotto un riconoscimento della debenza del compenso sostitutivo.
Inoltre nel motivo non si riporta il contenuto dei documenti dai quali
emergerebbe la prova dell’avvenuto godimento (buste paga e ricevuta del
10.5.2010) né è chiarito se era stato allegato alla Corte di merito che da tali
documenti emergeva la fruizione degli stessi.
6. Il terzo motivo, con il quale è denunciata la
violazione degli artt. 2697 e 2087 cod. civ., dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 23
febbraio 2000 e dell’art.
10 del d.P.R. 1124 del 30 giugno 1965 è infondato.
6.1. Con riguardo alla liquidazione del danno
differenziale conseguente all’inabilità permanente residuata dall’infortunio
sofferto dal L. il F. sostiene che non sarebbe stata dimostrata l’esistenza di
patimenti che avrebbero giustificato il riconoscimento del danno differenziale
nella misura del 40%, come ritenuto immotivatamente dalla Corte di Appello.
6.2. In via generale occorre premettere che le somme
eventualmente versate dall’Inail a titolo di indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000
non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento
del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a
fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il
risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attività lavorativa
(nella specie, per demansionamento), il giudice adito, una volta accertato
l’inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano
le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal d.P.R. n. 1124 del 1965, ed in tal caso, potrà
procedere, anche di ufficio, alla verifica dell’applicabilità dell’art. 10 del decreto citato,
ossia all’individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla
copertura assicurativa (cd. “danni complementari”), da risarcire
secondo le comuni regole della responsabilità civile; ove siano dedotte in
fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato
perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell’eventuale
danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno
civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni,
dal quale detrarre quanto indennizzabile dall’Inail, in base ai parametri
legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì,
tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, ed a tale ultimo accertamento procederà
pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto
all’indennizzo, ed anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto
all’indennizzo stesso (cfr. Cass. 10/04/2017 n. 9166, 01/08/2018 n. 20392 e 02/04/2019
n. 9112).
6.3. La Corte territoriale ha fatto corretta
applicazione dei principi ricordati e non è incorsa in alcuna violazione delle
regole dettate in ordine alla distribuzione degli oneri probatori atteso che il
lavoratore ha puntualmente allegato i fatti poi accertati nel corso del
giudizio per il tramite di accertamento peritale disposto d’ufficio.
7. Quanto alla liquidazione del danno differenziale
in relazione all’inabilità temporanea conseguente all’infortunio – oggetto del
quarto motivo di ricorso con il quale si deduce ancora una volta la violazione
degli artt. 2697 e 2087
cod. civ., dell’art. 13 del
d.lgs. n. 38 del 2000 e dell’art. 10 del d.P.R. n. 1124 del
1965 – va rilevato che l’indennizzo erogato dall’INAIL ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000
non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che sulla base di
tale norma, in combinato disposto con l’art. 66, comma 1, n. 2, del
d.P.R. n. 1124 del 1965, il danno biologico risarcibile è solo quello
relativo all’inabilità permanente.
8. E’ invece inammissibile la censura, oggetto del
quinto motivo di ricorso, con la quale si lamenta, sempre con riguardo
all’invalidità temporanea, I’ omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia.
8.1. In disparte il riferimento, errato, ad una
formulazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod.
proc.civ. non più applicabile stante l’entrata in vigore della novella del
2012, comunque trascura di considerare che la Corte ha esattamente chiarito che
l’eventuale liquidazione di una indennità da parte dell’INAIL non rileva ai
fini del riconoscimento del danno biologico conseguente all’inabilità temporanea
( v. sopra sub. 7).
9. Ad uguali profili di inammissibilità si espone il
sesto motivo di ricorso formulato, anch’esso, in termini di omessa
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia.
10. Con il settimo articolato motivo di ricorso è
denunciata l’illogicità della motivazione e la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ..
10.1. E’ articolato in tre censure riferibili ai
primi tre motivi:
– con riguardo all’avvenuto pagamento delle mensilità
di marzo e aprile 2010 viene eccepito un vizio di motivazione e l’illogicità
nella valutazione delle prove e si sostiene che era stato dimostrato di aver
pagato quanto dovuto attraverso la produzione delle buste paga quietanzate e
della ricevuta del 10 maggio 2010 e si sostiene che le dichiarazioni del teste
M.N., in quanto riferite a circostanze apprese da terzi, non valevano a provare
il fatto che in realtà le buste paga erano per un altro lavoratore.
– con riguardo al diritto a ricevere compensi per
ferie e permessi non goduti si osserva che la Corte avrebbe mal valutato ed
interpretato quanto dichiarato dal F. in sede di interrogatorio formale
evidenziandosi che non sarebbe ravvisabile il necessario animus confitendi.
– quanto al riconosciuto danno differenziale
ribadisce che mancherebbe del tutto la prova del danno non patrimoniale.
11. il motivo è inammissibile in tutte le sue
articolazioni.
11.1. Va qui ribadito che in tema di ricorso per
cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c.
(norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva
diversa previsione legale) ricorre solo quando il giudice di merito disattenda
tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto,
valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria
soggetta ad un diverso regime (Cass. 31/08/2020 n. 18092). In sostanza non può
porsi una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116
cod.proc.civ. per una erronea valutazione del materiale istruttorio
compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia
posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte
d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo
il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato
come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di
prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. 17/01/2019 n. 1229 e già n.
27000 del 2016).
11.2. Tanto premesso ciò che si richiede a questa
Corte non attiene alla violazione delle norme invocate ma tende piuttosto ad
una diversa ricostruzione del materiale probatorio senza che sia correttamente
denunciato un vizio di motivazione che, nella formulazione applicabile al caso
in esame dell’art. 360 primo comma n. 5 cod.
proc.civ. può avere ad oggetto solo l’omesso esame di un fatto decisivo che
avrebbe determinato un esito diverso del giudizio, nella specie neppure
denunciato, ovvero (cfr. Cass. sez. U. n. 8053 del
07/04/2014) un’ anomalia della motivazione che non è sussumibile nella mera
illogicità o insufficienza ma deve ridondare in un “mancanza assoluta di
motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione
apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” ovvero in una “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile” che nella specie, oltre a non essere stata
denunciata specificatamente, non è in ogni caso ravvisabile.
12. In conclusione, per le ragioni esposte, il
ricorso va rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno regolate
secondo il criterio della soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, infine, va dato atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma
dell’art.13 comma 1 bis del
citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.500,00 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli
accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato
d.P.R., se dovuto.