Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 settembre 2021, n. 24957
Bracciante agricola, Indennità di maternità per astensione
facoltativa dal lavoro, Difetto di domanda amministrativa
Rilevato che
con sentenza n. 1355 del 2014, la Corte di appello
di Catanzaro, pronunciando in sede di rinvio a seguito di riassunzione
conseguente alla cassazione della sentenza della Corte di Appello di Reggio
Calabria n. 1188/2009, ha rigettato l’appello proposto da V.M. avverso la
sentenza del Tribunale di Crotone;
tale sentenza, che aveva ritenuto inammissibile, per
difetto di domanda amministrativa, la pretesa della predetta bracciante
agricola intesa ad ottenere l’indennità di maternità per astensione facoltativa
dal lavoro, era stata confermata in appello ma tale ultima sentenza era stata
cassata con rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza 3560 del 2012;
la sentenza ora impugnata, appurato che in effetti
l’indennità di maternità per astensione facoltativa era stata chiesta in sede
amministrativa con domanda del 31.1.1997, in relazione al parto avvenuto 3
novembre 1996, ed in sede giudiziaria il successivo 2 dicembre 1998, ha accolto
l’eccezione di decadenza ai sensi dell’art. 47 d.P.R. n. 639 del 1970 come
modificato dall’art. 4 d.l. n. 384 del 1992;
per la cassazione di tale decisione ricorre V.M.,
affidando l’impugnazione a quattro articolati motivi, cui resiste l’INPS, con
controricorso e successiva memoria;
il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo
che il ricorso sia dichiarato inammissibile o rigettato;
Rilevato che
con il primo motivo, si denunzia violazione e falsa
applicazione artt. 24, 37, 111 e 117 Cost., violazione dell’art. 47 C:DUEF,
dell’art. 6, n. 1, terzo comma, TUE, degli artt. 27,33,34,51, 52, 53 e 54
CDFUE, dell’art. 6 e 13 CEDU e dell’art. 3 e dello Statuto del Consiglio
d’Europa; violazione ed errata applicazione dell’art. 7 I. n. 1204 del 1971,
ratione temporis vigente, dell’art. 8 del d.P.R. n. 1026/76, dell’art. 7 I. n.
533/1973, dell’art. 47 d.P.R. n. 639/1970, violazione dell’art. 12 disp. prel
c.c., violazione dell’art. 443 c.p.c., in sostanza, la ricorrente, pur
affermando di essere consapevole del netto orientamento assunto da questa Corte
di cassazione in materia decadenza dalle prestazioni temporanee, ritiene che i
principi emergenti dalla normativa comunitaria e dal Trattato di Lisbona,
imporrebbero di leggere la disciplina dell’indennità di maternità nel senso di
non ritenerla compatibile con la previsione di un termine di decadenza
decorrente dalla comunicazione della decisione del ricorso amministrativo anche
quando lo stesso intervenga oltre i 300 giorni dalla proposizione del ricorso
stesso; si sostiene che in caso diverso si avrebbe una grave limitazione dei
diritti degli assistiti previdenziali che, di fronte ad un’inerzia immotivata
dell’amministrazione o a comportamenti negligenti ed omissivi o ingannevoli,
vedrebbero sacrificato il proprio diritto per il semplice decorso del tempo. Si
aggiunge che la S.C. aveva desunto dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 97, un
principio di carattere generale di settore per il quale il decorso della
prescrizione risulta sospeso per il tempo di inerzia giustificata, e quindi
incolpevole, dell’assicurato e che tale soluzione risponde all’esigenza di
interpretare la normativa nazionale in conformità ai trattati internazionali ed
al principio dell’equo processo, letto in combinato disposto con la garanzia
costituzionale della tutela giurisdizionale ed anche con l’art. 47 della Carta
dei Diritti fondamentali UE;
viene, quale secondo motivo, sollevato il dubbio
sulla costituzionalità, in ipotesi di conferma della giurisprudenza di
legittimità criticata, dell’art. 47 d.P.R. n. 639/1970 in relazione all’art.
117 Cost. e, conseguentemente, all’art. 47 CDFUE, agli artt. 27, 33, 34, 51, 52,
53 e 54 CDFUE, all’art. 6 e 13 CEDU e dell’art. 3 e dello Statuto del Consiglio
d’Europa;
con il terzo motivo, si denuncia la violazione degli
artt. 2966, 2968, 2969 c.c. in ragione del fatto che la decadenza non potrebbe
essere rilevata d’ufficio ma solo su tempestiva eccezione di parte;
con il quarto motivo, si denuncia la violazione e
falsa applicazione della legge n. 1204 del 1971, artt. 7 e 15, in relazione al
d.l. n. 463 del 1983, art. 5, comma 6, conv. in I. n. 638 del 1983 in ragione
del fatto che nel corso del giudizio di primo grado erano stati accertati i
presupposti della sussistenza del rapporto di lavoro agricolo a tempo
determinato, del requisito contributivo e dell’avvenuto parto per fruire
dell’indennità facoltativa di maternità, non impugnata su tali aspetti;
i primi tre motivi, connessi e da trattare
congiuntamente, sono infondati;
innanzi tutto, con riferimento particolare al terzo
motivo, non può accogliersi la tesi del carattere disponibile della decadenza
prevista dall’art. 47 d.P.R. n. 639 del 1970;
come plurime volte affermato da questa Corte di
cassazione, infatti, tale decadenza, nel testo di cui all’art. 4, comma 1, del
d.l. n. 384 del 1992, conv. con modif. in I. n. 438 del 1992„ che sanziona la
mancata proposizione, entro termini computati in riferimento a diverse fasi del
procedimento amministrativo, dell’azione giudiziaria diretta al riconoscimento
di determinate prestazioni previdenziali, è dettata a protezione dell’interesse
pubblico alla definitività e certezza dei provvedimenti concernenti
l’erogazione di spese gravanti sui bilanci pubblici, sicché è sottratta alla
disponibilità della parte, è rilevabile d’ufficio – salvo il limite del
giudicato – in ogni stato e grado del giudizio ed è opponibile, anche
tardivamente, dall’istituto previdenziale (Cass. n. 3990 del 2016; n. 28639 del
2018; n. 17792 del 2020);
peraltro, come già osservato in un precedente di
legittimità utilmente richiamabile (vd. Cass. n. 26664 del 2016), già la
pronuncia del 27.10.2009 n 12718 resa a sezioni unite„ componendo un contrasto
insorto nella giurisprudenza di legittimità, in tema di decadenza dall’azione
giudiziaria per il conseguimento di prestazioni previdenziali, ha chiarito che
il D.P.R. n. 639 del 1970, art, 47, nel testo modificato dal D.L. n. 384 del
1992, art. 4, convertito, con modificazioni, nella L. n. 438 del 1992, dopo
avere enunciato due diverse decorrenze delle decadenze riguardanti dette
prestazioni (dalla data della comunicazione della decisione del ricorso
amministrativo o dalla data di scadenza del termine stabilito per la pronunzia
della detta decisione), individua nella “scadenza dei termini prescritti
per l’esaurimento del procedimento amministrativo” – la soglia di trecento
giorni (risultante dalla somma del termine presuntivo di centoventi giorni
dalla data di presentazione della richiesta di prestazione di cui alla L. n.
533 del 1973, art. 7 e di centottanta giorni, previsto) dalla L. n. 88 del
1989, art. 46, commi 5 e 6, oltre la quale la presentazione di un ricorso
tardivo pur restando rilevante ai fini della procedibilità dell’azione
giudiziaria non consente lo spostamento in avanti del “dies a quo”
per l’inizio del computo del termine decadenziale. Tale disposizione – per
configurarsi come una norma di chiusura volta ad evitare una incontrollabile
dilatabilità del termine di una decadenza avente natura pubblica – deve trovare
applicazione anche se il ricorso amministrativo o la decisione sul ricorso
siano intervenuti in ritardo rispetto al termine previsto (cfr. Cass. 27.10.2014
n. 22759, che richiama Cass. n. 18528 del 2011, n. 17562 del 2011, n. 7527 del
2010);
tale disciplina non si pone in contrasto con i
principi costituzionali o euro unitari richiamati dalla ricorrente, come
plurime volte affermato, oltre che da questa Corte di cassazione ( vd. Cass.
nn. 4307 del 2020; 29819 del 2017; 22948 del 2016), anche dalla Corte
Costituzionale ( vd. Corte Cost. n. 192 del 2005), secondo la quale l’art. 38,
secondo comma, della Costituzione, attiene all’adeguamento dei mezzi di carattere
previdenziale alle esigenze di vita dell’interessato, piuttosto che alle
modalità necessarie a conseguirli, a meno che esse non siano tali da
comprometterne il conseguimento, ed ha ritenuto pienamente legittime le regole
con cui, nel rispetto degli altri precetti costituzionali, viene condizionata
l’insorgenza di tali diritti o di questi disciplinato l’esercizio (v., sul
punto, tra le altre le sentenze n. 345 del 1999, n. 71 del 1993, n. 203 del
1985, n. 33 del 1977, n. 33 del 1974 e n. 10 del 1970);
in particolare, la citata sentenza ha ricordato che,
sul tema della decadenza, già Corte Cost. n. 192 del 1987 aveva affermato che
«l’esercizio di ogni diritto, anche costituzionalmente garantito, può essere
dalla legge regolato e sottoposto a limitazioni, sempre che tali limitazioni
siano compatibili con la funzione del diritto di cui si tratta e non si
traducano nell’esclusione della effettiva possibilità dell’esercizio di esso»;
inoltre, quanto, poi, al profilo della
irragionevolezza del termine in ragione della affermata sua brevità, la Corte
Costituzionale con la sentenza n. 192 del 2005 ha pure ribadito che, in tema di
valutazione di congruità dei termini di decadenza, la incongruità può
ammettersi solo quando il termine sia determinato in modo da non rendere
effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e, di
conseguenza, inoperante la tutela che si sia inteso accordare al cittadino leso
(v. sentenza n. 10 del 1970, cit.), essendo stato chiarito che «la congruità di
un termine di decadenza – sia pure con riguardo alla garanzia costituzionale
del diritto alla difesa – deve essere valutata non solo in rapporto
all’interesse di chi ha l’onere di osservarlo, ma anche con riguardo alla
funzione ad esso assegnata nell’ordinamento giuridico» (sentenza n. 284 del
1985);
infine, pur dovendosi rilevare che la fattispecie
non presenta caratteri di collegamento con l’ordinamento dell’Unione Europea,
va rilevato che neanche le fonti sovranazionali indicate dalla ricorrente
confliggono con la previsione dell’art. 47 d.P.R. n. 639 del 1970 dal momento
che, proprio in tema di tutela della maternità, la giurisprudenza della CGUE
(Corte giustizia UE sez. III, 29/10/2009, n.63) ha affermato la conformità al
diritto dell’Unione di ipotesi di decadenza precisando che
<per quanto riguarda il principio di tutela
giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dal diritto
comunitario, risulta dalla giurisprudenza consolidata che le modalità
procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai
singoli in forza del diritto comunitario non devono essere meno favorevoli di
quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di
equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente
difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico
comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza 15 aprile
2008, causa C-268/06, Impact, Racc. pag. 1-2483, punto 46 e giurisprudenza
citata)>;
anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è
espressa nel senso che la previsione di limiti temporali relativi all’accesso
al giudice non è di per sé in contrasto con l’art. 6 della CEDU, in quanto lo
scopo, in definitiva, è quello di realizzare un “equo bilanciamento”
(“fair balance”) tra, da un lato, gli interessi generali della
comunità e, eventualmente, i diritti dei convenuti e, dall’altro lato, le
esigenze di protezione dei diritti fondamentali delle persone (Fayed c. Regno
Unito, CEDU, 21 settembre 1994, cit.”;
pertanto, posto che il termine di un anno,
dall’esaurimento del procedimento amministrativo, non è certo talmente breve da
rendere impossibile l’accesso al giudice, anche sotto tali profili, i rilievi
sollevati dalla ricorrente appaiono infondati;
in definitiva, il ricorso va rigettato;
le spese seguono la soccombenza nella misura
liquidata in dispositivo:
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro
200,00 per esborsi, Euro 1700,00 per compensi professionali, oltre accessori
come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%. Ai
sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato
D.P.R. ove dovuto.