Maria Novella Bettini
Nel nostro ordinamento, le pause di durata non inferiore ai 10 minuti, e complessivamente non superiore a 2 ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesto alcun tipo di prestazione lavorativa, non vanno computate come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata. In sintesi, non rientrano né nell’orario di lavoro né nel periodo di riposo giornaliero. Esse sono concesse, anche sul posto di lavoro, nell’ipotesi di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore, ed hanno lo scopo di far recuperare le energie psico-fisiche e permettere la eventuale consumazione del pasto e l’attenuazione del lavoro monotono e ripetitivo (art. 8, co. 2, D.LGS. n. 66/2003).
Nello specifico, in base all’art. 8, co.2, D.LGS. n. 66/2003:
a) il lavoratore ha diritto ad una pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore. Il momento di fruizione della pausa può coincidere con qualsiasi momento della giornata lavorativa. Sicché la pausa non va goduta necessariamente e successivamente al trascorrere delle 6 ore di lavoro. Tuttavia, la pausa minima stabilita per legge e corrispondente a 10 minuti deve essere fruita consecutivamente affinché possa essere raggiunta la finalità per la quale è prevista;
b) se manca il contratto collettivo, la pausa va concessa: 1) anche sul posto di lavoro; 2) tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro; 3) deve essere di durata non inferiore a 10 minuti; 4) con decisione datoriale, tenendo conto “delle esigenze tecniche del processo lavorativo”. Il datore di lavoro può individuare il momento in cui godere della pausa, tenuto conto delle esigenze tecniche dell’attività lavorativa, “in qualsiasi momento della giornata lavorativa e non necessariamente successivamente al trascorrere delle 6 ore di lavoro. Quindi, nell’ipotesi in cui l’organizzazione del lavoro preveda la giornata c.d. spezzata, la pausa potrà coincidere con il momento di sospensione dell’attività lavorativa” (Circ. n. 8/2005, cit.).
c) in presenza di contratti collettivi, questi regolano la durata e le modalità e possono prevedere una pausa a qualunque titolo;
d) salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, “rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata i periodi di cui all’articolo 5 regio decreto 10 settembre 1923, n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell’articolo 4 del regio decreto 10 settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni” (art. 8, co. 3, D.LGS. cit.).
Come si vede, dunque, con l’art. 8, D.LGS. n. 66/2003, il legislatore ha disposto una disciplina generale delle pause lavoro con una soglia minima di tutela valevole per tutti i lavoratori, lasciando alla contrattazione collettiva la regolamentazione primaria e puntuale dei profili temporali, modali e retributivi delle pause di lavoro.
I contratti collettivi (siglati a livello nazionale con i sindacati comparativamente più rappresentativi) possono anche derogare alle previsioni di legge in tema di pause e, per il settore privato, le deroghe sono ammesse anche da parte dei contratti collettivi territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (art. 17, co. 1, D.LGS. n. 66/2003, come sostituito dall’art. 41, co. 7, D.L. 112/2008 conv. in L. 133/2008). Le deroghe, tuttavia, sono consentite solo “a condizione che ai prestatori di lavoro siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata” (art. 17, co. 4, D.LGS.cit.).
Il Ministero del Lavoro ha chiarito che:
- A) “la eventuale “concentrazione” della pausa all’inizio o alla fine della giornata lavorativa, che determina in sostanza una sorta di riduzione dell’orario di lavoro, può essere ritenuta lecita come disciplina derogatoria, ex 17 comma 1 e per il legittimo esercizio della quale è necessario accordare ai lavoratori degli equivalenti periodi di riposo compensativo o, comunque, assicurare una appropriata protezione” (Circ. n. 8/2005);
- B) il diritto alla pausa non è monetizzabile poiché la pausa, in quanto finalizzata a costituire un intervallo tra due momenti di esecuzione della prestazione, “non può essere sostituito da compensazioni economiche”.
Ai sensi dell’art. 5, R.D. n. 1955/1923 vanno invece retribuite (e dunque escluse dalla non-retribuibilità) sia le soste inferiori a 10 minuti, che possono essere correlate ad esigenze fisiologiche del lavoratore o semplicemente all’alleggerimento del carico di lavoro, sia le soste legate alla tutela psico-fisica dei lavoratori (v. la pausa obbligatoria di 15 minuti ogni 2 ore per i videoterminalisti). Anche la giurisprudenza comunitaria e nazionale ha sempre confermato la retribuibilità delle soste di brevissima durata, specialmente quando strettamente funzionali alla ripresa dell’attività lavorativa.
Pausa pranzo. Nell’ipotesi in cui l’organizzazione del lavoro preveda la giornata cosiddetta spezzata (“pausa pranzo”), l’obbligo di fruizione della pausa può essere assolto in coincidenza con il momento di sospensione dell’attività lavorativa.
Con particolare riguardo a tale pausa, la sua concessione e la sua collocazione, (ferme restando le eventuali clausole dei contratti collettivi e/o individuali), spetta al datore di lavoro, in considerazione delle esigenze produttive e organizzative. Il periodo di tale astensione può essere fissato in qualsiasi momento della giornata non necessariamente una volta trascorse le 6 ore di lavoro. E, in caso di orario “spezzato”, il periodo di pausa può essere assorbito da quello di sospensione dell’attività lavorativa.
Anche per la pausa pranzo, in quanto periodo di sospensione del lavoro, non spetta la retribuzione, salvo diverse previsioni in sede collettiva o individuale. Ad esempio, se si prevede un orario dalle 8,30 alle 12,30 e dalle 14,00 alle 18,00, l’ora e mezzo di pausa pranzo dalle 12,30 alle 14,00 è ininfluente ai fini della busta paga. Lo stesso discorso vale qualora si preveda un orario di 8 ore, dalle 8,30 alle 17, specificando che il dipendente avrà diritto a mezz’ora di pausa dal lavoro effettivo. Al contrario, se nell’orario effettivo giornaliero di 8 ore, dalle 8,30 alle 16,30, si comprende una mezz’ora di pausa pranzo, il periodo di non lavoro per la consumazione del pasto è compreso nella retribuzione. In questo caso si parla di pausa pranzo retribuita. Questa opzione, di norma prevista per gli operai addetti alle linee produttive, è solitamente precisata dai contratti collettivi o dal contratto individuale.
Pause per allattamento riconosciute alle lavoratrici madri sono considerate ore lavorative ai sensi dell’art. 39, co. 2, D.LGS. n. 151/2001. Il Ministero del Lavoro ha infatti specificato (Interpello n. 2, 16 aprile 2019) che le ore di riposo per allattamento non vengono considerate utili ai fini del limite di 6 ore giornaliere al superamento delle quali scatta il diritto ai 10 minuti di pausa. Ad esempio, se la dipendente ha svolto 5 ore di lavoro (su un orario teorico di 7) e 2 ore di allattamento non spettano i 10 minuti di pausa previsti dalla legge.
Si computano anche le pause di 15 minuti ogni 2 ore tassativamente imposte per gli addetti ai videoterminali (art. 175, D.LGS. n. 81/2008 e successive mod.).
Relativamente ai dirigenti medici, in mancanza di disposizioni ad hoc del contratto collettivo, per quanto concerne la “pausa di 10 minuti” di cui ogni dipendente deve “beneficiare” qualora l’orario di servizio ecceda le 6 ore, la normativa europea ed interna (art. 8, D.LGS. n. 66/2003), pur non prevedendo alcuna definizione specifica di pausa lavorativa, si riferisce ad un periodo d’inattività all’interno dell’intero arco lavorativo giornaliero, che abbia la finalità del recupero delle energie psico-fisiche, della consumazione del pasto e dell’attenuazione di mansioni monotone e ripetitive. Pertanto, in difetto di disciplina collettiva che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, al medico deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a 10 minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo (anche se, nell’ambito del lavoro sanitario, ed ospedaliero in particolare, è difficile – se non impossibile – prevedere con certezza il “momento di pausa”, a causa dell’aspetto più squisitamente tecnico della tipologia del lavoro di medico ospedaliero). Pertanto, Il momento di fruizione della stessa può coincidere con qualsiasi momento della giornata lavorativa e non necessariamente al trascorrere delle 6 ore di lavoro.
Qualora l’organizzazione del lavoro preveda la cosiddetta giornata spezzata (“pausa pranzo”), l’obbligo di fruizione della pausa può essere assolto in coincidenza con il momento di sospensione dell’attività lavorativa. La pausa può essere fruita anche sul posto di lavoro e la sua collocazione, in difetto di una previsione collettiva, è stabilita dal datore di lavoro.
In particolare, tale intervallo di 10 minuti è a carico del datore di lavoro, il quale “accetta” che un dipendente si fermi per 10 minuti per un momento di pausa nell’ambito di un turno di servizio più lungo di 6 ore. Per cui il “costo” di questi 10 minuti va attribuito all’Azienda Sanitaria ed il medico, per effettuare la pausa, non è tenuto (in seguito alla decurtazione di 10 minuti dell’orario complessivo) a recuperare tale pausa tramite la permanenza in servizio per 10 minuti in più, al momento del termine dell’orario di lavoro.
In sintesi, la pausa di 10 minuti non va scomputata dall’orario di lavoro e non se ne deve chiedere il recupero. L’Azienda deve concedere una sosta per recuperare energie finalizzate a portare a termine il turno di lavoro previsto e non può costringere il lavoratore a restare 10 minuti in più, al termine del turno di servizio, potendosi in tal caso ravvisare elementi di mobbing nella condotta aziendale.
Le sanzioni. La violazione dell’art. 8, D.LGS. n. 66/2003 comporta sanzioni sia di carattere civilistico, in virtù dell’art. 2087 c.c., secondo cui è obbligo dei datori di lavoro garantire l’incolumità psico-fisica dei lavoratori, sia di carattere amministrativo, in virtù dell’art. 14, D.LGS. n. 124/2004 (come sostituito dall’art. 12 bis, co. 3, del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, conv., con mod., dalla L. 11 settembre 2020, n. 120), secondo cui “il personale ispettivo dell’Ispettorato nazionale del lavoro può adottare nei confronti del datore di lavoro un provvedimento di disposizione, immediatamente esecutivo, in tutti i casi in cui le irregolarità rilevate in materia di lavoro e legislazione sociale non siano già soggette a sanzioni penali o amministrative”. La mancata ottemperanza a tale provvedimento di disposizione comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da 500 euro a 3.000 euro.