Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 settembre 2021, n. 25731

Licenziamento per giusta causa, Chat aziendale con contenuto
pesantemente offensivo nei confronti di una superiore gerarchica, Espressione
della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata, Uso
anomalo dei beni aziendali

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza
pubblicata il 23/10/2018, ha rigettato il reclamo proposto dalla F. s.p.a. ed
ha confermato, seppur con diversa motivazione, la sentenza del Tribunale di
Busto Arsizio resa in sede di opposizione (rito “Fornero”, I. n.
92/12) con la quale, fermo l’annullamento del licenziamento intimato per giusta
causa dalla società a M.D. e la disposta reintegrazione della lavoratrice, era
rideterminata l’indennità risarcitoria in sette mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto con detrazione dell’aliunde
perceptum.

2. La Corte territoriale, per quanto qui ancora
interessa, ha accertato che era pacifica l’esistenza di una corrispondenza
sulla chat aziendale “W.C.” tra la D. ed un’altra collega avente
contenuto pesantemente offensivo nei confronti di una superiore gerarchica e di
qualche altra collega. Ha poi ricordato che di tali conversazioni la società
aveva appreso l’esistenza ed il contenuto in esito ad un controllo effettuato
dal personale IT (tecnico informatico) che doveva verificare – in occasione
della chiusura della chat e del conseguente progressivo suo abbandono – se vi
fossero dati aziendali da conservare. La Corte milanese accertava che la chat
era stata introdotta anni prima dell’assegnazione a ciascun dipendente di un
indirizzo di posta elettronica e veniva utilizzata per le comunicazioni
interne. Ciascun dipendente vi accedeva con una propria password personale,
così come in seguito sarebbe stato fatto per la posta elettronica aziendale.
Successivamente all’introduzione di quest’ultima, l’utilizzo della chat si era
ridotto, tanto da indurre l’azienda a decidere di eliminarla.

2.1. I giudici di appello hanno osservato che ai
sensi di quanto disposto al punto 13 del regolamento aziendale l’accesso alla
chat era lecito, perché consentito in occasione di interventi di manutenzione,
aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi;
tuttavia la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata
informazione ai dipendenti ai sensi dell’art. 4 comma 3 della legge n. 300 del
1970.

2.2. In particolare la Corte di appello ha
sottolineato che la comunicazione della interruzione del servizio di chat era
stata inviata quando i controlli erano stati già eseguiti. Inoltre essa ha
evidenziato che l’accesso alla chat era possibile solo con l’uso di una
password e che i messaggi inviati potevano essere letti solo dai destinatari.
In sostanza si trattava di corrispondenza privata svolta in via riservata
rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle
comunicazioni ai sensi dell’art. 15 della Costituzione con la conseguenza che
l’accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è
consentita la rivelazione ed utilizzazione.

2.3. Inoltre, la Corte territoriale ha escluso un
intento denigratorio ed ha ritenuto che il contenuto delle e-mail e le
espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente, destinato
ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed
espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione
privata.

2.4. Infine i giudici di appello hanno sottolineato
che nella contestazione non erano individuate altre inadempienze lavorative né
era stato contestato un uso anomalo dei beni aziendali sicché, limitato
l’addebito disciplinare al contenuto della conversazione ed esclusa la sua
rilevanza disciplinare, ha ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento
confermando la reintegrazione ed il risarcimento.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
F. s.p.a. con tre motivi ai quali resiste con controricorso M.D.

La società ricorrente ha depositato memoria.

4. L’Ufficio del Procuratore Generale ha presentato
conclusioni scritte ai sensi dell’art, 23, comma 8 bis, d.l. n. 137/2020 conv. in I. n. 176/2020, instando per il rigetto del
ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione degli artt. 4 della legge 30 maggio 1970, e
successive modificazioni, e dell’art. 15 Cost. in relazione all’art. 360 primo
comma n. 3 cod. proc. civ.

Secondo la ricorrente la Corte territoriale avrebbe
errato nel ritenere che le conversazioni offensive intrattenute nella chat
aziendale non potessero essere utilizzate a fini disciplinari. Non si era
trattato di controlli finalizzati all’adempimento della prestazione lavorativa
né, inizialmente, di controlli difensivi. L’accesso era stato occasionato dalla
scelta organizzativa di eliminare la chat e dalla necessità di conservare dati
aziendali ivi presenti. Le frasi offensive e sconvenienti ivi rinvenute erano
state inviate utilizzando il pc in dotazione di proprietà dell’azienda durante
l’orario di lavoro e attraverso la chat aziendale da usare esclusivamente per
le comunicazioni di servizio. Sostiene la ricorrente che ad una fattispecie
come quella in esame non trovi applicazione l’art. 15 Cost. che tutela la
corrispondenza e le forme di comunicazione private (la ricorrente cita Cass.
26682 del 10/11/2017) e che si verta piuttosto nell’ambito di un

– controllo difensivo a tutela dell’immagine del
datore di lavoro. L’emersione è stata del tutto casuale e legittimo
l’utilizzazione delle informazioni rinvenute a fini disciplinari. Non vi
sarebbe stato alcun controllo diretto sull’attività lavorativa e la condotta
della lavoratrice sarebbe contraria al minimo etico ed al buon vivere civile.
Secondo la ricorrente, quindi, sarebbero stati legittimi l’esercizio del potere
disciplinare ed il licenziamento, per cui l’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori, da applicarsi, ratione temporis, nel testo modificato dall’art. 23, comma 1,
d.lgs. n. 151 del 2015, sarebbe stato male applicato.

2. Con il secondo motivo è denunciata la violazione
e falsa applicazione degli artt. 2119 cod. civ. e dell’art. 18 della legge n.
300 del 1970 in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc.civ. Secondo la ricorrente la condotta accertata era
disciplinarmente rilevante e suscettibile di essere punita con un licenziamento
in tronco. Viene dedotto un vizio di sussunzione (cita Cass. 26/04/2012 n.
6498, 02/03/2011 n. 5095 e 15/04/2016 n. 7568). La società richiama ancora la
decisione di questa Corte n. 26682 del 2017 e osserva che la Corte di appello
avrebbe trascurato di considerare due circostanze: da una parte la
spregevolezza della condotta e dei contenuti delle frasi e, dall’altra, la
consapevolezza della condotta stessa, consistente in reiterati insulti e
contrarietà a regole del buon vivere civile (cita Cass. 26/06/2013 n. 16098 e
6606/2018). Si tratterebbe di comportamenti che ledono il vincolo fiduciario.

3. Con il terzo motivo di ricorso la società deduce
che in violazione degli artt. 2697 cod. civ. e 115 cod. proc.
civ. la Corte milanese non avrebbe osservato il principio di non contestazione,
e anche le regole sulla ripartizione dell’onere probatorio, atteso che i fatti
erano pacifici e avevano rilievo disciplinare.

4. Il ricorso non merita accoglimento.

5. Prima di iniziare l’esame dei motivi, il
Collegio, osserva che la decisione impugnata si regge su tre autonome ragioni
del decidere.

5.1. In primo luogo, l’illegittimità del
licenziamento è stata ritenuta a causa dell’inutilizzabilità del materiale
estratto dal computer della lavoratrice a causa della violazione dell’art. 4,
comma 3, dello Statuto dei lavoratori nel testo modificato dall’art. 23, comma
1, d.lgs. n. 151 del 2015 e dall’art. 5 d.lgs. n. 185 del 2016, applicabile ratione temporis, in particolare
perché la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata
informazione ai dipendenti ai sensi di questa disposizione, osservando chela
comunicazione della interruzione del servizio di chat era stata inviata quando
i controlli erano stati già eseguiti.

5.2. In secondo luogo, la Corte territoriale è
giunta alla stessa conclusione di inutilizzabilità del materiale probatorio
rilevando – dopo aver accertato che l’accesso alla chat era possibile solo con
l’uso di una password e che i messaggi inviati potevano essere letti solo dai
destinatari – che le conversazioni litigiose costituivano una forma
corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si impone
una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell’art. 15
della Costituzione, con la conseguenza che l’accesso al contenuto delle
comunicazioni è precluso agli estranei e non ne è consentita la rivelazione ed
utilizzazione.

5.3. Infine, la Corte milanese ha escluso un intento
denigratorio ed ha ritenuto che – in ogni caso, quindi anche nell’ipotesi della
loro utilizzabilità – il contenuto dei messaggio di posta elettronica e le
espressioni in esse utilizzate costituissero uno sfogo della mittente,
destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di
illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una
conversazione privata, per cui, non essendo state individuate nella
contestazione altre inadempienze lavorative né contestato un uso anomalo dei
beni aziendali sicché, essendo limitato l’addebito disciplinare al contenuto
della conversazione ed esclusa la sua rilevanza disciplinare, doveva ritenersi
comunque insussistente la giusta causa di licenziamento.

6. Il primo motivo, non esente da profili di
inammissibilità, è infondato.

6.1. La doglianza è inammissibile relativamente agli
aspetti in essa sollevati in ordine alla utilizzazione del computer in
dotazione alla lavoratrice di proprietà dell’azienda, alla realizzazione
dell’attività litigiosa durante l’orario di lavoro e attraverso la chat
aziendale da usare esclusivamente per le comunicazioni di servizio. Sul punto
la sentenza impugnata (a p. 5) – come si è già notato – osserva (pur dando atto
nella enunciazione dei motivi di reclamo della società che quest’ultima
sottolineava che le esternazioni litigiose avevano luogo durante l’orario di
lavoro utilizzando la chat aziendale) che la contestazione mossa alla
lavoratrice attiene esclusivamente al contenuto delle chat, mentre non contiene
nessun riferimento a inadempienze lavorative o a un uso anomalo e inappropriato
degli strumenti aziendali, statuizione quest’ultima che non viene
specificamente censurata con la doglianza in esame. È principio consolidato che
nel giudizio di cassazione non è consentita la prospettazione di nuove questioni
di diritto o contestazioni che modifichino il thema decidendum ed implichino indagini ed accertamenti di fatto
non effettuati dal giudice di merito (ex multis,
Cass. n. 14477/2018, n. 2193/2020). Si tratta dunque di questione sollevata per
la prima volta nel giudizio di legittimità, donde la sua inammissibilità.

6.2. Un ulteriore profilo di inammissibilità
riguarda la prospettazione della tesi secondo la quale il controllo del
computer in uso alla lavoratrice, inizialmente determinato esclusivamente da
ragioni tecniche ed esigenze di manutenzione del sistema, ai sensi dell’art. 13
del Regolamento aziendale, aveva assunto poi – una volta rilevata l’esistenza
delle conversazioni litigiose – la natura di un “controllo
difensivo”, come tale, in tesi, sottratto al rigido regime di cui all’art.
4 I. 300/1970 nel testo applicabile ratione temporis. Nell’esposizione dei motivi di reclamo della
società contenuta nella sentenza impugnata non vi è traccia, al di là di un
generico riferimento alla possibilità di accedere alla chat aziendale, tra
l’altro “per finalità di controllo”, della prospettazione della tesi
secondo cui la natura di “controllo difensivo” dell’azione avrebbe
consentito l’accesso ai dati della chat al di fuori delle regole stabilite
dall’art. 4 I. n. 300/1970 nel testo applicabile ratione
temporis. Né la sentenza impugnata esamina una tale
tesi difensiva, menzionando una eventuale contestazione dell’applicabilità
dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Applicabilità che, a ben vedere, la
società nemmeno contesta in questa sede di legittimità, solo lamentando
l’errata applicazione della disposizione. Anche qui va fatta dunque
applicazione del ricordato principio per cui i motivi del ricorso per
cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già
comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo
prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi
temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si
tratti di questioni rilevabili d’ufficio. Il ricorrente, al fine di evitare una
statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di
allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma
anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde
dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis
la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (v. decisioni
già citate e Cass. n. 4787/2012, 22069/2015, 28060/2018 e 7803/2020).

6.2.3. Il Collegio non ha dunque necessità, ai fini
della decisione del presente ricorso, ritenuta l’inammissibilità del profilo di
doglianza in esame, di affrontare la questione, di indubbio rilievo
nomofilattico, della compatibilità dei c.d. “controlli difensivi”,
concetto elaborato dalla giurisprudenza precedentemente alla modifica dell’art.
4 dello Statuto dei lavoratori recata dall’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015 e
dall’art. 5 d.lgs. n. 185 del 2016, con l’attuale assetto normativo.

6.3. Sotto il profilo della pretesa errata
applicazione dell’art. 4, comma 3, dello Statuto dei lavoratori, il motivo non
merita accoglimento. La lavoratrice osserva nel controricorso che l’accesso era
stato sì legittimo ai sensi dell’art. 13 del Regolamento aziendale, ma
l’inutilizzabilità dei dati raccolti è stata fatta correttamente derivare dalla
mancata tempestiva informazione dei dipendenti ai sensi dell’art. 4 comma 3
dello Statuto dei lavoratori.

Ad avviso del Collegio la norma in esame è stata
correttamente applicata dai giudici di appello.

Nella sua nuova formulazione l’art. 4 della I. n.
300/1970 così recita:

” Art. 4.

Impianti audiovisivi.

1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti
dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei
lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e
produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio
aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla
rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali.
In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse
province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere
stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al
primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede
territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso
di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più
sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I
provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi. (2)

2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica
agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa
e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2
sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione
che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli
strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto
dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.”

Quanto alla questione relativa alla qualificazione
come “strumento di lavoro” della chat aziendale oggetto dei controlli
non sembra possano sussistere dubbi, essendo essa, pacificamente, funzionale
alla prestazione lavorativa. In questi casi la disciplina vigente prevede bensì
l’esclusione delle procedure di garanzia di cui al comma 1 dell’art. 4 per tali
controlli.

Tuttavia, negli stessi casi ¡’utilizzabilità del
risultato di tali controlli “a tutti i fini connessi al rapporto di
lavoro”, compresi quindi quelli disciplinari, è subordinata, secondo il
comma 3 dello stesso art. 4, alla “condizione che sia data al lavoratore
adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione
dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30
giugno 2003, n. 196.”

Ora, la sentenza impugnata ha accertato che era
mancata l’adeguata informazione preventiva del lavoratore, giacché la
comunicazione aziendale del 9 marzo 2017 con la quale i lavoratori erano stati
informati della soppressione della chat aziendale con decorrenza immediata era
successiva all’effettuazione dei controlli. Né poteva soccorrere la previsione
del Regolamento aziendale, che nulla diceva in ordine alle modalità con cui
potevano essere eseguiti i controlli.

A fronte di questa ricostruzione in fatto ed in
diritto la società ricorrente si limita ad osservare che non vi era stato alcun
controllo diretto dell’attività lavorativa e che la manifestazione di frasi
offensive da parte della lavoratrice esula dalla prestazione lavorativa,
insistendo poi sul disvalore della condotta della D., questione quest’ultima
che si colloca evidentemente a valle di quella qui esaminata della
utilizzabilità dei dati estratti dallo strumento di lavoro della resistente.

Né può soccorrere il precedente di questa Corte
(Cass. 26682/2017) invocato dalla ricorrente, per la verità con riferimento
alla critica, nell’ambito della doglianza in esame, della diversa e autonoma
ragione del decidere centrata sull’art. 15 della Costituzione e della
riservatezza della corrispondenza. La fattispecie presa in considerazione da
quest’ultima decisione consisteva nel controllo effettuato dalla datrice di
lavoro sulla posta elettronica aziendale di un dipendente accusato di aver
inviato una serie di e-mail contenenti reiterate espressioni scurrili nei
confronti del legale rappresentante della società e di altri collaboratori,
nonché apprezzamenti negativi nei confronti dell’azienda in quanto tale. In
questo caso, al quale era applicabile ratione temporis la precedente versione dell’art. 4 I. 300/1970, la
Corte ha ritenuto che in tema di controllo del lavoratore, la duplicazione
periodica dei dati contenuti nei computer aziendali, preventivamente nota ai
dipendenti [corsivo aggiunto], esula dal campo di applicazione delle garanzie
procedurali imposte dall’art. 4,
comma 2, St. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al art. 23,
comma 1, d.lgs. n. 151 del 2015), se effettuata a tutela di beni estranei al
rapporto di lavoro, quali l’immagine dell’azienda e la tutela della dignità di
altri lavoratori, e non riguardi l’esatto adempimento delle obbligazioni
discendenti dal rapporto stesso. Indipendentemente dal suo riferimento al
quadro normativo non più oggi applicabile, il precedente è inconferente, perché
da un lato esso si riferisce all’ipotesi dei cosiddetti “controlli
difensivi”, dunque ad una fattispecie non correttamente introdotta in
questo giudizio di legittimità, e dall’altro esso afferma, come la sentenza
impugnata, il principio della necessità, al fine della utilizzabilità dei dati
raccolti, della previa informazione dei dipendenti circa le modalità di
registrazione dei dati, cioè di un elemento di cui la sentenza impugnata ha
accertato il difetto, senza che la relativa statuizione venisse specificamente
criticata.

Correttamente la Corte milanese ha quindi escluso
l’utilizzabilità dei dati raccolti, con la conseguenza del venir meno
dell’intera base fattuale della contestazione disciplinare.

6.3.1. Il rigetto della critica relativa
all’applicazione dell’art. 4 St. lav. da parte della sentenza impugnata esime
la Corte dall’esame delle residue doglianze contenute nel motivo in esame,
doglianze inerenti alla questione della dedotta inapplicabilità dell’art. 15
della Costituzione e della tutela della riservatezza della corrispondenza,
nonché a quella questioni da ritenere assorbite, essendo la statuizione della
sentenza impugnata relativa all’inutilizzabilità dei dati raccolti per
violazione dell’art. 4 St. lav., idonea a sorreggere la decisione.

7. Sono quindi da considerare assorbiti anche gli
altri due motivi (il secondo contenente critiche alla statuizione della
sentenza impugnata relativa alla irrilevanza disciplinare della condotta
rimproverata alla lavoratrice e il terzo relativo alla dedotta violazione del
principio di non contestazione e della regola del riparto dell’onere
probatorio), perché entrambe le doglianza presuppongono l’utilizzabilità a fini
disciplinari dei dati raccolti, il che è stato escluso dalla sentenza impugnata
con una statuizione che ha passato il vaglio dello scrutinio di legittimità e
che, come detto, è da sola sufficiente a reggere la decisione.

8. Segue alle svolte considerazioni il rigetto del
ricorso. La novità della questione giustifica la decisione di compensare le
spese del giudizio di legittimità.

9. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1,
comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove
dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr.
Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio
di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 settembre 2021, n. 25731
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