Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 ottobre 2021, n. 26692
Rapporto di lavoro, Contratto a termine, Nullità, Ragioni
giustificatrici
Rilevato che
con sentenza n. 401 dell’8 marzo 2017, la Corte
d’appello di Bari, in riforma della decisione di primo grado, accogliendo
l’impugnazione proposta dalla Aeroporti di P. S.p.A., ha respinto la domanda
proposta da I.S. avente ad oggetto la dichiarazione di illegittimità del
termine apposto al contratto di lavoro stipulato in data 30 aprile 2001, con decorrenza
2.5.2001 – 31.12.2001;
in particolare,, il giudice di secondo grado ha
ritenuto valido ed efficace il contratto a termine stipulato ai sensi dell’art.
23 L. 28 febbraio 1987, n. 56 non essendo mai stata denunziata dal lavoratore
in primo grado l’omessa indicazione, nel contratto individuale di lavoro, della
norma contrattuale posta a giustificazione del termine ed essendosi la società
sempre difesa allegando che l’apposizione del termine stesso trovava
giustificazione, piuttosto, nelle previsioni di cui all’art. 1 L. 203 del 1962;
per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso, assistito da memoria, I. S., affidandolo a due motivi;
resiste, con controricorso, la Aeroporti di P.
S.p.A.
Considerato che
Con il primo, articolato motivo di ricorso, si
denunzia la violazione di norme di legge e di contratto ai sensi dell’art. 360
comma 1, n. 3 cod. proc. civ., con particolare riguardo alla nullità
dell’apposizione del termine, per effetto della violazione dell’art. 23 L. n.
56 del 1987, alla violazione del principio iura novit curia, alla lesione dei
principi posti a fondamento dell’onere della prova; con il secondo motivo si
allega l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di
discussione fra le parti, con riguardo alla percentuale degli assunti a tempo
determinato;
il primo motivo è fondato, nei termini che seguono;
la Corte territoriale ha ritenuto valido ed efficace
il contratto a termine intercorso fra le parti per essere lo stesso stato
stipulato ai sensi dell’art. 23 I. n. 56 del 1987, “ricorrendone i
presupposti” là dove tale ultima disposizione richiama(va) l’art. 1, della
legge n. 203 del 1962, non reputando necessaria l’espressa previsione nel
regolamento contrattuale di una delle ipotesi legittimanti di cui al suddetto
art. 1;
invero, dalla direttiva Europea 28 giugno 1999 n. 70
e dall’allegato accordo del 18 marzo 1999, soprattutto dal preambolo, risulta
che i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma generale di
rapporto di lavoro anche se in talune circostanze, ossia eccezionalmente,
quelli a termine possono meglio corrispondere ai bisogni dei datori o dei
prestatori di lavoro;
a tal proposito è opportuno ricordare che, con
sentenza 2 marzo 2006 n. 4588 le Sezioni unite di questa Corte hanno illustrato
l’evoluzione legislativa in materia di contratto di lavoro a termine, che,
appunto, si conferma quale eccezione rispetto alla regola costituita dal
contratto a tempo indeterminato;
il Supremo Collegio ha così chiarito che, mentre con
L. n. 230 del 1962, il legislatore introdusse il sistema della “lista
chiusa” dei motivi che permettevano la stipulazione dei contratti
temporanei, con la L. n.56 del 1987, egli ha rinunciato alla previsione di
fattispecie tassative ed ha per contro affidato alla contrattazione collettiva,
nazionale oppure locale, la possibilità di autorizzare il contratto a termine
“per causali di carattere oggettivo ed anche – alla stregua di esigenze
riscontrabili a livello nazionale o locale – per ragioni di tipo meramente
soggettivo, consentendo (in funzione di promozione dell’occupazione o anche di
tutela delle fasce deboli di lavoratori) l’assunzione di speciali categorie di
lavoratori”, operando una sorta di “delegificazione” in favore
delle parti sociali;
le Sezioni unite hanno aggiunto che con il D.Lgs. n.
368 del 2001, il legislatore ha superato
“le forme di assunzioni a termine contrattualizzate” ed è tornato a
chiedere nell’ art. 1 alle parti del contratto individuale la specificazione in
forma scritta delle ragioni giustificatrici del contratto a termine;
orbene, tale ricostruzione in chiave diacronica del
sistema legislativo non implica, tuttavia, che nel periodo compreso tra la
legge del 1987 ed il decreto legislativo del 2001 fosse consentita
l’apposizione di un termine senza che ne venisse indicata la ragione
giustificativa;
invero, le parti non erano più libere di
individuarla nell’ambito di un’elencazione legislativa ma potevano limitarsi ad
applicare la previsione del contratto collettivo, soltanto richiamandola;
tale espresso richiamo, tuttavia, era necessario
onde consentire in ogni caso il controllo giudiziario sull’operato delle parti,
mentre il loro silenzio in proposito avrebbe permesso il mero arbitrio delle
medesime, ed in particolare del datore di lavoro che del termine si giovava sul
piano economico;
come osservato da questa Corte (ex plurimis, Cass.
n. 23702 del 2013) tale effetto negativo avrebbe potuto evitarsi permettendo
allo stesso datore di lavoro di fornire un’eventuale e successiva
giustificazione del termine, in sede giudiziaria, ciò che avrebbe reso in ogni
caso eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti del lavoratore, in
contrasto con l’art. 24 Cost.;
si è voluta ravvisare un’ipotesi di contratto a
tempo determinato “acausale” soltanto nella previsione della L. 28
giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 8, che, introducendo l’art. 1 bis al D. Lgs.
n. 368 del 2001, ha permesso in un caso eccezionale la non indicazione della
ragione giustificativa del termine: nondimeno, quell’ipotesi eccezionale
dev’essere comunque verificabile;
non può vale a supplire a tale mancanza il generico
richiamo nel contratto, ritenuto idoneo e sufficiente dalla Corte territoriale,
all’art. 23 della legge n. 56 del 1987, “ricorrendone i presupposti”
sulla base dell’assunto secondo cui il richiamo all’art. 23 conterrebbe già in
sé il riferimento all’art. 1, L. n. 203 del 1962;
contrariamente a quanto ritenuto dal giudice
di secondo grado, non è priva di rilievo la circostanza che nel contratto
considerato non vi fosse alcun riferimento alle ipotesi per così dire
“legittimanti” di cui all’art. 1 della legge n. 203;
la peculiarità della “delegificazione”
operata dalla legge n. 56 del 1987 in favore delle parti sociali, infatti, era
proprio nell’aver consentito il ricorso al contratto a termine non solo nelle
ipotesi previste dall’art. 1 L. n. 230 del 1962 ma anche nelle ipotesi
individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati
nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative
sul piano nazionale: erano poi i contratti collettivi a stabilire il numero in
percentuale di lavoratori che potessero essere assunti con contratto a termine
rispetto al numero di lavoratori impegnati a tempo indeterminato;
evidente l’insufficienza del richiamo all’art. 23
“ricorrendone i presupposti” in assenza di ulteriori indicazioni,
trattandosi di richiamo ultroneo e, per ciò stesso, inadeguato, essendo
comunque possibile il ricorso alla legge n. 230 in alternativa alla definizione
da parte della contrattazione collettiva;
delle due l’una, infatti: o il regolamento
contrattuale avrebbe dovuto contenere il rinvio alla previsione della
contrattazione collettiva, o ad una delle ipotesi specificamente indicate
nell’art. 1 L. n. 230 del 1962 e, quindi, a tutti i requisiti connessi,
compresi quelli inerenti il numero percentuale consentito;
il mero rinvio alla previsione legislativa impone al
giudice una ricerca in fatto della categoria legittimante e non consente quel
controllo di legalità che governa la contrattazione a termine trasformando la
previsione contrattuale in una legittimazione del contratto cd. acausale prima
e fuori dei casi previsti dall’art. 1 D. Lgs. n. 368 del 2001, non applicabile
alla fattispecie ratione temporis; alla luce delle suesposte argomentazioni il
primo motivo di ricorso deve essere accolto ed il secondo deve ritenersi
assorbito;
la sentenza
va cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Bari, in diversa
composizione, che si atterrà ai principi enunciati provvedendo, altresì, anche
in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità;
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il
secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la
causa alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, anche in ordine
alle spese relative al giudizio di legittimità.