Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 ottobre 2021, n. 26710
Licenziamento disciplinare, Violazioni dolose di leggi o
regolamenti o dei doveri d’ufficio, Gravi irregolarità, Atteggiamento
spregiudicato
Rilevato che
La Corte d’appello di Caltanissetta confermava la
pronuncia del giudice di prima istanza con la quale era stata respinta la
domanda proposta da S.C. nei confronti di P.I. s.p.a., volta a conseguire la
declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare senza preavviso
intimatogli il 9/1/2015 ai sensi dell’art. 54 comma 6 lett. c), e), k) e
dell’art.80 c.c.n.I. 14/4/2011, per violazioni dolose di leggi o regolamenti o
dei doveri d’ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio
alla società o a terzi, di gravità tale da non consentirne la prosecuzione;
la Corte distrettuale perveniva a tale convincimento
all’esito di un’ampia ricognizione del quadro probatorio acquisito, alla cui
stregua era emersa l’evidenza del compimento, da parte del dipendente, di gravi
irregolarità rilevate nel contesto di attività di vigilanza dal servizio
ispettivo, che aveva, riscontrato l’apposizione da parte del ricorrente –
specialista finanziario – di firme contraffatte di due clienti (dipendenti
della società P.I.), nel corso di una serie di operazioni concernenti la revoca
della richiesta di finanziamento del quinto dello stipendio e la sottoscrizione
di quote di Fondi di Investimento B.P.;
il giudice del gravame rimarcava, per quanto qui
interessa, che la condotta falsificante posta in essere dal ricorrente, pur
scriminata sul piano penalistico, restava trasgressiva dei doveri di
correttezza inerenti alla obbligazione lavorativa, tradiva un atteggiamento
spregiudicato, posto in essere in deliberata violazione delle regole che governano
e strutturano il rapporto di lavoro subordinato, in consapevole rottura del
rapporto di fiducia intercorrente sia con la parte datoriale che con la
clientela; anche l’episodio concernente la reazione abnorme manifestata in
pubblico dal C., rispetto ad una disposizione impartita dal direttore in tema
di pagamento delle pensioni – richiamata nel verbale ispettivo acquisito agli
atti ma oggetto di contestazione ritenuta dal primo giudice non tempestiva –
concorreva a conferire, a livello indiziario, un ulteriore contributo alla
attendibilità delle testimonianze raccolte, attestanti la propensione del
dipendente al mancato rispetto delle regole e direttive dettate dai superiori
gerarchici;
avverso tale decisione S.C. interpone ricorso per
cassazione affidato a quattro motivi;
resiste con controricorso la società intimata;
entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.
Considerato che
1. con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., 1455, 2106, 2119 c.c. nonché degli
artt. 52, 53, 54, 55 c.c.n.I. 14/4/2011 per il personale non dirigente in
relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
ci si duole che il giudice di seconda istanza abbia
fondato il proprio convincimento anche sulle dichiarazioni assunte in sede
ispettiva, definendole prove atipiche, idonee a conferire ulteriore
attendibilità a sostegno delle testimonianze rese dai soggetti le cui firme
erano state oggetto di contraffazione; si prospetta l’erroneità della statuizione
sul rilievo che “al fine di assumere valore di prove atipiche, i documenti
in questione devono pur sempre essere riferibili ai fatti che formano specifico
oggetto della contestazione”; nello specifico, gli episodi relativi a
presunti alterchi del ricorrente (ipotizzati con la prima contestazione poi
ritenuta tardivamente formulata dal primo giudice), non avevano alcuna
attinenza » con i fatti relativi alle contestazioni aventi ad oggetto
irregolarità nella apposizione di firma, tanto in evidente violazione dei
dettami di cui all’art.116 c.p.c.;
2. il secondo motivo prospetta violazione e falsa
applicazione degli artt.53 e 54 c.c.n.I. 14/4/2011 per il personale non
dirigente in relazione airart.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si lamenta che la Corte distrettuale, nel confermare
l’irrogazione della massima sanzione espulsiva, abbia vulnerato il principio di
gradualità e proporzionalità consacrato dalla disposizione
contrattual-collettiva di cui all’art.53 che impone l’elaborazione di un
giudizio modulato sulla intenzionalità del comportamento o del grado di
negligenza, sul concorso nella mancanza, di più lavoratori, ed sul
comportamento complessivo * assunto dal dipendente, con particolare riguardo ai
precedenti disciplinari subiti nell’ambito del biennio;
si imputa al giudice del gravame di non aver
rimarcato la insussistenza di alcun danno in capo alla società e la mancanza di
alcun riflesso all’esterno, delle condotte ascritte; tanto in violazione anche
dello specifico dettato contrattuale rubricato al comma sesto dell’art.54
c.c.n.I. di settore, secondo cui il licenziamento senza preavviso può essere
irrogato per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio
che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi;
3. con il terzo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt.53 e 54 c.c.n.I. 14/4/2011 per il personale non
dirigente in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si deduce che erroneamente il giudice del reclamo
abbia espresso il giudizio in tema di irredimibile violazione del patto
fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, trascurando di considerare che il
ricorrente non era incorso in alcuna recidiva, secondo le previsioni delle
pattuizioni collettive, essendo stata annullata la precedente sanzione
conservativa della multa, e che i fatti addebitati non erano stati posti in
essere in concorso con altri;
in tal senso il giudizio di proporzionalità della
sanzione rispetto alle mancanze poste in essere dal ricorrente palesava la
propria infondatezza, integrando una violazione di legge che ridondava in
termini di non corretta valutazione dei fatti;
4. il quarto motivo attiene alla violazione e falsa
applicazione degli artt. 1455, 2106, 2119 c.c. nonché degli artt. 53 e 54
c.c.n.I. 14/4/2011 per il personale non dirigente in relazione all’art.360
comma primo n.3 c.p.c.;
ci si duole che i giudici di seconda istanza abbiano
omesso di operare una „ doverosa valutazione, secondo il paradigma normativo
delineato dalle disposizioni pattizie e dai precetti codicistici richiamati, di
ogni aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto, nell’ambito
del giudizio in tema di gravità della condotta ascritta al lavoratore;
nello specifico sarebbe stata obliterata la
necessaria valutazione delle ottime prestazioni in tema di rendimento,
conseguite dal ricorrente, che aveva dato lustro alla filiale, in sede
regionale, nel campo vendita di prodotti di investimento, consentendone la
classificazione fra le prime dieci;
5. appare opportuno esaminare con priorità, e
congiuntamente, stante la connessione che li connota, i motivi dal secondo al
quarto, con sostituzione del profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle
questioni da trattare ai sensi dell’art.276 c.p.c. (cd. ragione più liquida),
in considerazione del fatto che si impone un approccio ispirato ad una
prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del
giudizio, costituzionalizzata dagli artt. 24 e 111 Cost. (vedi Cass. Sez. U, n.
9936 del 8/05/2014; Cass. n. 12002 del 28/05/2014, Cass. n.11458 del 11/5/2018,
Cass. n.363 del 9/1/2019);
6. va, inoltre, considerato che le critiche, le
quali investono l’interpretazione delle norme collettive di settore rubricate,
mirano a sollecitare un esame, da parte di questa Corte, del contenuto del
c.c.n.I.,
in assenza del deposito in forma integrale della
copia degli stessi così come della indicazione specifica, nel corpo del motivo
in scrutinio, della sede processuale in cui detti testi siano rinvenibili (vedi
Cass. 4/3/2019 n. 6255, Cass.4/3/2015 n.4350, Cass. S.U. 2013 n.25083, Cass.
S.U. 2010 n.20075), così non sottraendosi ad un giudizio di improcedibiità;
7. le summenzionate critiche, si palesano altresì
infondate;
deve osservarsi in via di premessa che, secondo
l’orientamento privo di contrasti espresso in sede di legittimità, la giusta
causa di licenziamento integra una clausola generale o norma elastica, che
richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei
fattori esterni * relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente
richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura
giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come
violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli
elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di
fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di
incongruenze;
pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal
giudice di merito nell’applicare norme elastiche come quelle relativa alla
sussistenza della giusta causa di licenziamento non sfugge alla verifica in
sede di legittimità, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo
deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento (cfr., ex
plunmis, Cass. 13/8/2008 n.21575, Cass. 2/3/2011 n.5095, Cass.26/4/2012 n.6498,
Cass. 26/3/2018 n. 7426);
correlato a tale principio è quello secondo cui la
valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare deve
essere in ogni caso elaborata attraverso un accertamento in concreto da parte
del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento
addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e
infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza del
comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente,
occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione
legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto
del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo;
va anche rammentato che l’elencazione delle ipotesi
di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza
meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta
causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore
contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola
condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento del lavoratore
contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far
venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr., ex
plurimis,Cass. 6/8/2020 n.16784, Cass. 12/2/2016 n.2830 Cass., Cass. 4/3/2013
n.5280);
nello specifico la Corte distrettuale si è attenuta
ai suenunciati principi giurisprudenziali, procedendo ad una ricognizione
approfondita delle acquisizioni probatorie; qualificando in termini di gravità
la condotta del lavoratore il quale aveva arrecato un evidente vulnus ai
principi di correttezza e buona fede poste a presidio della nascita e
dell’adempimento delle obbligazioni che scandiscono il rapporto di lavoro,
mediante la contraffazione in due occasioni, delle sottoscrizioni apposte da
clienti, dipendenti della società P.I., a moduli relativi alla definizione di
operazioni finanziarie; operando, dunque, una corretta sussunzione dei fatti
descritti (vedi pag.5 della pronuncia impugnata) nell’ambito della categoria
dell’inadempimento grave, rubricato all’art.2119 c.c. per la violazione del
complesso di regole in cui si sostanzia la civiltà del lavoro in un determinato
contesto storico-sociale ovverosia degli standards normativi che rispetto a
detti principi si trovano in rapporto essenziale ed integrativo;
s’impone, allora, l’evidenza del fatto che,
pretendendo di rimettere in discussione la riconducibilità delle descritte
mancanze alla violazione dei canoni di
buona fede, correttezza e ordinaria diligenza, parte ricorrente ambisce in
realtà ad un ulteriore riesame dei medesimi fatti accertati in sede di merito,
non consentita in sede di legittimità;
altrettanto è a dirsi in ordine alle censure di
difetto di proporzionalità tra fatto e sanzione, essendo consolidato il
principio secondo cui tale giudizio è devoluto al giudice di merito, la cui
valutazione non è censurabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui
all’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. n. 8293 del 2012), i quali, anche se
considerati nella loro espressione precedente alla riformulazione della disposizione
cit. da parte dell’art. 54, d.l. n. 83/2012 (conv. con l. n. 134/2012), non
consentono che si denunci la non corrispondenza della ricostruzione dei fatti
operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte,
né che si proponga per suo tramite un preteso migliore e più appagante
coordinamento dei molteplici dati istruttori acquisiti, atteso che tali aspetti
del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli
elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero
convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di
tale convincimento (cfr. Cass.28/3/2017 n. 7916 in motivazione);
in tale prospettiva è da reputarsi inammissibile il
motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di
disposizioni di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata
dal giudice di merito, atteso che in tal modo si consentirebbe la surrettizia
trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado
di merito (vedi per tutte Cass. S.U. 27/12/2019 n.34476);
va peraltro considerato che le statuizioni oggetto
di critica appaiono conformi a diritto anche sul versante della coerenza con
gli approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità in tema di
esegesi delle disposizioni contrattual-collettive di riferimento;
in particolare, quanto alla definizione
dell’elemento soggettivo sotteso alla clausola pattizia di cui all’art. 54,
comma 6, lett. c), del c.c.n.I. in data 11 luglio 2007 per i dipendenti delle
P.I., l’approccio ermeneutico è stato definito nel senso che tale disposizione
richiede solamente il dolo generico e la mera potenzialità dannosa della
condotta contestata (vedi Cass. 4/12/2017 n.28962), il dolo richiesto rimandando
a una nozione più generale, coincidente con la rappresentazione e volizione del
fatto costituente l’addebito disciplinare, nel senso che l’evento sia preveduto
e voluto quale conseguenza della propria azione, e non con una nozione
restrittiva di dolo, in sostanza coincidente con quella di dolo intenzionale,
intendendosi per tale il legame psicologico che raggiunge l’intensità massima,
nel senso che la rappresentazione del verificarsi del fatto costituente
l’addebito disciplinare, costituisce lo scopo finalistico in vista dei quali il
soggetto si determina alla condotta (cfr. Cass. 30/11/2015 n.24367);
deve considerarsi al riguardo che, anche a seguito
della trasformazione in società per azioni dell’ente pubblico postale,
l’impegno di capitale pubblico nella società e lo stesso fine pubblico
perseguito (tali da sottomettere l’attività svolta ai principi di imparzialità
e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.), non sono senza riflesso
quanto ai doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, i quali devono assicurare
affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell’utenza (vedi Cass.
19/1/2015 n.776);
e tale è la prospettiva che ha indirizzato la Corte
distrettuale nel proprio incedere argomentativo, consentendole di connotare
come di rilevante intensità l’elemento soggettivo sotteso alla contestata
mancanza, in quanto portatore di una prognosi infausta sul futuro corretto
adempimento delle obbligazioni lavorative;
sulla scia di tali principi è stato affermato,
proprio con riferimento all’art. 54 del c.c.n.I. Poste, che la nozione di
pregiudizio alla società o a terzi, ossia eventualmente agli utenti del
servizio postale, non comprende soltanto il danno patrimoniale ma anche
l’imminente pericolo per l’interesse dei soggetti coinvolti (cfr. Cass. 5/8/2015,
n. 16464);
rispetto a tali considerazioni il ricorrente, ad
onta dei richiami normativi indicati, ha sviluppato censure di merito,
attinenti anche alla intensità del pregiudizio arrecato, e dirette ad una
“rivalutazione del fatto” non compatibili con la nuova formulazione dell’art.
360, n. 5, cod. civ. proc.: il fatto, nel suo complesso, è stato infatti
valutato dal giudice di merito con una motivazione che certamente non eccede i
limiti costituzionali essendo congrua, puntuale e correlata a specifici
elementi (cfr. Cass., S.U. nn. 8052 e 8053 del 7/4/2014);
in definitiva, al lume delle superiori
argomentazioni, i surrichiamati motivi vanno respinti, con assorbimento del
primo;
infatti, la reiezione dei motivi descritti (dal
secondo al quarto) rende consolidata la motivazione enunciata dalla sentenza
impugnata in relazione alla relativa ratio decidendi, con la conseguenza che
inutile diventa lo scrutinio del primo motivo, perché, se anche esso fosse
fondato, non potrebbe giustificarsi la cassazione della sentenza in relazione
alle ulteriori statuizioni impugnate, che rimarrebbero ferme sulla base degli
argomenti riconosciuti esatti (vedi Cass. 21/6/2017 n.15350);
la regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1
quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento
delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed
euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso articolo 13, ove dovuto.