Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 settembre 2021, n. 25035

Tributi, IRPEF, Pensione integrativa aziendale,
Sostituzione della prestazione periodica con un’indennità unica, Tassazione

 

Rilevato che

 

1.La
Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno,
rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza
della Commissione tributaria provinciale di Salerno (n.521/1/2011), che aveva
accolto il ricorso proposto da G.L. contro il diniego di rimborso dell’Agenzia
delle entrate alla sua richiesta di restituzione delle ritenute Irpef, per
l’anno 2006, quantificate in euro 7614,00, operate sulla somma erogata una
tantum dal Fondo pensioni per il personale della Banca Commerciale Italiana, a
titolo di pagamento di capitale, in sostituzione della rendita originaria. Per
il contribuente, in pensione dal 1997, che aveva ricevuto nel 2006 la somma di
€ 67.500,34, il Fondo pensioni non avrebbe dovuto operare, quale sostituto
d’imposta, le ritenute del 4% su tale somma, in quanto le somme erano
imponibili nella misura del 87,50%, perché rappresentative del provento
sostitutivo del valore attuale di una prestazione periodica, essendo state
erogate in sostituzione della stessa. Il giudice d’appello rigettava il gravame
dell’Agenzia, in quanto la rendita periodica era stata convertita in capitale.
Le indennità percepite una tantum in correlazione alla cessazione del rapporto
di lavoro, a titolo definitivo, dovevano essere assimilate alle prestazioni
periodiche.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per
cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resta intimato il contribuente.

 

Considerato che

 

1. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia
delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione degli articoli 16 e 17 del Tuir (nella
versione ratione temporis vigente) nonché dell’art. 12 del d.lgs. n. 47/2000,
in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
c.p.c.”. Per l’Agenzia il Fondo pensioni per il personale della Banca
Commerciale Italiana -Comit, fino al 1954 aveva operato in sostituzione del
regime generale di previdenza obbligatoria per invalida vecchiaia, mentre
successivamente ha iniziato a svolgere la sua funzione di previdenza
integrativa, finanziata mediante un contributo sulle retribuzioni. Pertanto,
dal 1° gennaio 1955, quando è cessato il funzionamento del fondo in regime
sostitutivo, i dipendenti della banca sono stati scritti all’assicurazione
generale obbligatoria presso l’Inps, con l’attivazione dei corrispondenti
obblighi contributivi. Per evitare una doppia contribuzione ai dipendenti, sia
per il fondo sia per l’Inps, il carico dei contributi da versare a favore del
Fondo pensioni è stato oggetto di vari accordi tra la banca le organizzazioni
sindacali. Pertanto, dal 1955 al 1994, la banca si è assunta l’onere di pagare
la contribuzione obbligatoria dovuta all’Inps, gravante, invece, per legge sui
lavoratori dipendenti; di contro i dipendenti hanno versato l’intera quota
contributiva al fondo pensioni per il personale della banca, con trattenute in
busta paga. Tale meccanismo contabile ha determinato un incrocio contributivo
detto “chassé- croisé”, che ha evitato la doppia contabilità, sia per
i contributi previdenziali destinati all’Inps, che erano del 7,75% e che
dovevano essere versati, invece dai lavoratori, ma che effettivamente, sono
stati pagati dalla banca, sia per i contributi destinati al Fondo. Pertanto,
per effetto di tale ripartizione di entrambe le contribuzioni ogni dipendente
ha sostenuto il solo onere dei contributi al Fondo pensioni integrativo, al
fine di percepire due pensioni: quella dell’Inps e quella, integrativa, del
Fondo. È stato poi stipulato un accordo tra la banca e le organizzazioni
sindacali, in vigore dal 1° gennaio 1995, in base al quale il carico relativo
alla contribuzione Inps è stato ripartito tra la banca e i lavoratori, mentre
la banca si è assunta integralmente l’onere dei contributi da versare al Fondo
dal contribuente che, dunque, per effetto di tali accordi, non ha versato alcun
contributo obbligatorio al Fondo e nessun contributo è rimasto fiscalmente a
suo carico. In aggiunta, si evidenzia che il fondo era costituito sulla base di
un accordo sindacale tra le parti, con obbligo di contribuzione, non in virtù
di una disposizione legislativa, ma in base al predetto accordo di natura
privatistica. Tali contributi erano, in definitiva, pacificamente finalizzati
alla capitalizzazione di un montante contributivo per l’erogazione di una
pensione e non di un’indennità. Pertanto, potevano essere detratti dall’importo
lordo soltanto i contributi dovuti per legge, ma non quelli assunti
volontariamente. Inoltre, alle somme versate ai dipendenti non può essere
applicata l’imponibilità ridotta al 87,50%, non essendo le stesse inquadrabili
tra le prestazioni periodiche, ma essendo assoggettata d’imposta per il loro
intero ammontare essendo erogazioni una tantum.

1.1. Il motivo è fondato.

1.2. Il contribuente, pensionato dal 1° gennaio
1997, ha presentato istanza di rimborso per la somma di euro 7614,00, per
l’anno 2006, fondata sulle asserite maggiori ritenute subite, nella misura del
4 %, sulla prestazione erogata di in forma capitale, in occasione della
cessazione del rapporto di lavoro con la Banca Commerciale Italiana.

Secondo il L. il Fondo Comit non ha scomputato
dall’imponibile i contributi versati dal lavoratore stesso nel periodo di
contribuzione compreso tra il 1955 e 31 dicembre 1996. Inoltre, l’importo non
poteva essere tassato integralmente, ma solo nella misura dell’87,5%,
trattandosi di importi sostitutivo di prestazioni periodiche.

1.3. Il Fondo Comit ha operato in regime sostitutivo
del regime generale di previdenza obbligatoria per invalidità e vecchiaia per i
dipendenti della Banca Commerciale Italiana. Inizialmente, dunque, la
partecipazione di essi al Fondo era obbligatoria, costituendo parte integrale
del contratto di lavoro con la Banca Commerciale Italiana.

Successivamente dal 1° gennaio 1955, a seguito di
decisione governativa di estendere l’iscrizione dei dipendenti della banca
all’assicurazione generale obbligatoria presso l’Inps, con attivazione dei
corrispondenti obblighi contributivi, il Fondo, da funzione sostitutiva
dell’assicurazione generale obbligatoria, ha iniziato a svolgere la funzione di
previdenza complementare integrativa (Cass., sez. 6, 28 dicembre 2016, n.
27079).

Il Fondo pensione Comit, dunque, in quanto iscritto
all’albo dei fondi presso la Covip e assoggettato alla sua vigilanza,
costituisce una forma di previdenza complementare, concretizzandosi in una
prestazione in forma di rendita realizzata in modo volontario, con lo scopo di
integrare la pensione pubblica al fine di garantire all’avente diritto un
adeguato tenore di vita all’età pensionabile (in tal senso Cass., sez. 6,
27079/2016, cit.).

Per l’Agenzia, per evitare una doppia trattenuta
sulle retribuzioni, una in favore dell’Inps e l’altra favore del Fondo, è stato
stipulato dalla banca e dalla Commissione interna, organo di rappresentanza dei
lavoratori, un accordo aziendale che ha introdotto il meccanismo dell’incrocio
contributivo (chassé- croisé).

Tale meccanismo, secondo la ricorrente, sorto come
puro strumento di semplificazione contabile, imputava formalmente alla banca il
contributo previdenziale obbligatorio gravante per legge sul lavoratore e
destinato all’Inps, mentre imputava formalmente sul lavoratore quello destinato
al Fondo Comit.

1.4. La questione attiene, dunque,
all’individuazione del soggetto che ha effettivamente pagato i contributi al
Fondo Comit, ma si innesta inevitabilmente anche sulla natura obbligatoria o
facoltativa dei contributi erogati al fondo di previdenza complementare.

1.5., Infatti, ai sensi dell’art. 17 primo comma (indennità di fine
rapporto), d.P.R. n. 917 del 1986, all’epoca vigente, “il trattamento
di fine rapporto costituisce reddito per un importo che si determina riducendo
il suo ammontare delle rivalutazioni già assoggettate ad imposta sostitutiva.
L’imposta è applicata con l’aliquota determinata con riferimento all’anno in
cui è maturato il diritto alla percezione, corrispondente all’importo che
risulta dividendo il suo ammontare, aumentato delle somme destinate alle forme
pensionistiche di cui al d.lgs. 21 aprile 1993, n.
124 e al netto delle rivalutazioni già assoggettate ad imposta sostitutiva,
per il numero degli anni o frazione di anno preso a base di comunicazione, e
moltiplicando il risultato per 12”.

Il comma 2 dell’art. 17 del d.P.R. n. 917 del 1986,
all’epoca vigente, prevede che “le altre indennità e somme indicate alla
lettera a) del comma 1 dell’art. 16,
anche se commisurate alla durata del rapporto di lavoro e anche se corrisposte
da soggetti diversi dal datore di lavoro, sono imponibili per il loro ammontare
complessivo, al netto dei contributi obbligatori dovuti per legge, con
l’aliquota determinata agli effetti del comma 1”.

Pertanto, l’art. 16 (tassazione separata) del
d.P.R. n. 917 del 1986, all’epoca vigente, dispone che la tassazione
separata si applica ai redditi indicati nella successiva lettera a), quindi al
trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 del
codice civile e indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate
alla durata dei rapporti di lavoro dipendente.

L’aliquota era invece determinata ai sensi del comma
1 dell’art. 17 del d.P.R. n. 917 del
1986; ciò ai fini della “imposta sostitutiva”.

L’art. 48
del d.P.R. n. 917 del 1986 (determinazione del reddito di lavoro
dipendente), all’epoca vigente, prevede, al comma 2, che “non concorrono a
formare il reddito: a) i contributi previdenziali e assistenziali versati dal
datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di
legge”.

1.6. Questa Corte (Cass., sez. 6-5, 1 luglio 2020,
n. 13353), con orientamento consolidato (Cass.,
sez. 6-5, 10 dicembre 2020, n. 28125; Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n.
33828), ha ritenuto che la prestazione di capitale in Fondo di previdenza
complementare per il personale di un istituto bancario (nella specie, il Fondo di
previdenza complementare per il personale della Banca Commerciale Italiana),
effettuata in favore di un ex dipendente, in forza di accordo risolutivo di
ogni rapporto inerente al trattamento pensionistico integrativo in godimento
(“zainetto”), costituisce, ai sensi dell’art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 917 del
1986, reddito della stessa categoria della “pensione integrativa”
cui il dipendente ha rinunciato e va, quindi, assoggettato al medesimo regime
fiscale cui sarebbe stata sottoposta la predetta forma di pensione. Ne consegue
che la base imponibile su cui calcolare l’imposta è costituita dall’intera
somma versata dal Fondo, senza che sia possibile defalcare da essa i contributi
versati, in quanto, ai sensi della lettera a) dell’art. 48 del d.P.R. n. 917 del 1986,
nel testo in vigore fino al 31 dicembre 2003, gli unici contributi
previdenziali e/o assistenziali che non concorrono a formare il reddito sono
quelli versati in ottemperanza a disposizioni di legge (Cass., sez. 5, 8 maggio
2019, n. 1215; Cass., sez. 6-5, 4 gennaio 2018, n.
124; Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2019, n.
33827).

Si è chiarito che l’imponibile delle prestazioni
erogate dei fondi di previdenza complementare per il personale degli istituti
bancari include pertanto anche i contributi versati al dipendente, attesa la
natura facoltativa degli stessi (Cass., n. 27078 del 2016; Cass., n. 27079 del
2016). Sono dunque fiscalmente esenti a norma dell’art. 48 del d.P.R. n. 917 1986
soltanto i contributi previdenziali obbligatori, quelli versati “in
ottemperanza a disposizioni di legge”.

1.7. La Commissione regionale, riconoscendo il
diritto al rimborso, non si è attenuta agli indicati principi.

1.8. Questione ancora diversa è poi quella relativa
alla tassazione delle somme nella misura, non integrale, ma in quella ridotta
dell’87,5%.

L’art.
47, primo, comma, lettera h-bis (redditi assimilati a quelli di lavoro
dipendente), del d.P.R. 917 del 1986 prevede che “sono assimilati ai
redditi di lavoro dipendente:…h bis) le prestazioni pensionistiche di cui al d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124, comunque
erogate”.

L’art. 48,
comma 7-bis (determinazione del reddito di lavoro dipendente), all’epoca
vigente, dispone che “le prestazioni periodiche indicate alla lettera h-
bis del comma 1 dell’art. 47
costituiscono reddito per l’87,5% dell’ammontare corrisposto”.

Tale norma è, poi, transitata nell’art. 48-bis del d.P.R. n. 917 del 1986,
al primo comma lettera d (” per le prestazioni periodiche indicate alla
lettera h-bis del comma 1 dell’art.
47 non si applicano le disposizioni del richiamato art. 48 e le stesse costituiscono
reddito per l’87,5% dell’ammontare lordo corrisposto”).

Sul punto, questa Corte (Cass., sez. 5, 26 settembre
2019, n. 24009; Cass., sez. 6-5, 9 gennaio 2018, n. 2201) ha ritenuto che
sussiste violazione degli articoli
47 e 48 d.P.R. n. 917 del 1986, laddove il giudice d’appello abbia
riconosciuto la spettanza della detrazione del 12,50% prevista per le
erogazioni periodiche di previdenza complementare, posto che, a norma dell’art. 47, comma 1, lettera h-bis, e
48-bis, comma 1, lettera d, d.P.R. 917 del 1986, all’epoca vigente,
l’imponibile è ridotto al 87,50% soltanto per le pensioni complementari erogate
“in forma di trattamento periodico”, ciò in ragione di
un’assimilazione ai redditi di lavoro dipendente che viene meno per le dazioni
una tantum, come quella in esame.

Successivamente la disciplina è stata modificata
dall’art. 10 comma 1, lettera f)
del d.lgs. 18 febbraio 2000, n. 47, entrato in vigore il 1 gennaio 2001 e
con effetto relativamente ai contributi versati, ai rendimenti maturati, ai
contratti stipulati, alle prestazioni maturate e alle rendite erogate a
decorrere dal 1 gennaio 2001, con il quale si è previsto che alle prestazioni
pensionistiche di cui alla lettera h-bis, del comma 1, dell’art. 47 Tuir, non si applicano le disposizioni
dell’art. 48. Le stesse si
assumono al netto della parte corrispondente ai redditi già assoggettati ad
imposta e di quelli di cui alla lettera g-quinquies del comma 1, dell’art. 41, se determinabili; analoga
disposizione è contenuta nel Tuir, art.
52, comma 1, lettera d) (così numerato l’art. 48 dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, art. 1)
che, nella formulazione in vigore dal 1 gennaio 2004 e fino al 31 dicembre
2006, disponeva: “d) per le prestazioni pensionistiche di cui alla lettera
h-bis), del comma 1, dell’art. 47,
erogate in forma periodica non si applicano le disposizioni del richiamato art. 48.

Le stesse si assumono al netto della parte
corrispondente redditi già assoggettate d’imposta e di quelli di cui alla
lettera g- quinquies del comma 1, dell’art. 1, se determinabili.

Pertanto, dal 1° gennaio 2004, le prestazioni
pensionistiche di cui alla lettera h- bis del comma 1 dell’art. 47, erogate in forma
periodica, sono tassabili non già sull’87,5% dell’ammontare lordo corrisposto,
a seguito della sostituzione del nuovo testo, ma sull’intero (Cass., 7 maggio 2010, n. 11156; Cass., 12 gennaio 2015, n. 240).

A decorrere dal 1 gennaio 2001 è stato abrogato il
riferimento all’imponibile sino al 87,5%, con detrazione del 12,5% sulle
prestazioni erogate dal Fondo pensioni e, a norma dell’art. 47, comma 1, lett. h-bis del
d.P.R., n. 917/1986, vigente ratione temporis, l’imponibile è ridotto
all’87,5% soltanto per le pensioni complementari erogate “in forma di
trattamento periodico”, ciò in ragione di un’assimilazione ai redditi di
lavoro dipendente che viene meno per le dazioni una tantum, come quella in
esame (Cass., 30 gennaio 2018, n. 2201; Cass., sez. 6-5, 21 giugno 2019, n.
16677).

Il d.lgs.
18 febbraio 2000, n. 47, art. 10, lettera f (avente effetto, come detto,
dal 1 gennaio 2001) è rimasto in vigore sino al 31 dicembre 2003, essendo stato
soppresso dal d.lgs. 12 dicembre
2003, n. 344, art. 1, a decorrere dal l’gennaio 2004.

Avendo il contribuente ricevuto le somme nel 2006,
non aveva diritto alla detrazione del 12,5 %, con imponibile, quindi, solo sino
all’87,5%.

2. In accoglimento del ricorso, la sentenza va, pertanto,
cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi
dell’art. 384, secondo comma, c.p.c., la causa
può essere decisa nel merito con il rigetto dell’originario ricorso proposto
dal contribuente.

3. Le spese del giudizio vanno poste, per il
principio della soccombenza, a carico del contribuente intimato e si liquidano
come da dispositivo. Compensa tra le parti le spese delle fasi di merito,
sussistendone giusti motivi.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e,
decidendo la causa nel merito, rigetta l’originario ricorso proposto dal
contribuente.

Condanna l’intimato contribuente al pagamento in
favore della Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che
si liquidano in complessivi € 200,00, oltre spese prenotate a debito.

Compensa tra le parti le spese delle fasi di merito.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 settembre 2021, n. 25035
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