Prima di disporre la sospensione del lavoratore, il datore di lavoro deve verificare la possibilità di assegnazione a mansioni alternative (c.d. repêchage).
Nota a Trib. Milano, sez. lav., 15 settembre 2021
Fabrizio Girolami
Il provvedimento di collocamento in aspettativa non retribuita a carico di un lavoratore sociosanitario che si sia rifiutato di sottoporsi al vaccino anti SARS-CoV-2 è illegittimo, laddove il datore di lavoro non abbia preventivamente verificato l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore e non comportanti il rischio di diffusione del contagio (c.d. repêchage).
Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, sez. lavoro, con sentenza n. 2316 del 15 settembre 2021, in relazione alla vicenda di una dipendente – assunta da una cooperativa con mansioni di Ausiliario Socio-Assistenziale (ASA) per l’attività di assistenza a soggetti ricoverati presso una struttura sociosanitaria residenziale (RSA) – la quale, a fronte del suo rifiuto di aderire alla campagna vaccinale, era stata sospesa dal lavoro senza retribuzione.
Il provvedimento datoriale – oggetto della sentenza in commento – era stato adottato prima dell’entrata in vigore del D.L. 1° aprile 2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 maggio 2021, n. 76 che, come noto, ha introdotto l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario (art. 4).
Nella lettera di collocamento, la cooperativa aveva precisato che – in assenza di un obbligo vaccinale sussistente ex lege – la sospensione era stata adottata quale “misura atta a tutelare l’integrità e le migliori condizioni di salute dei collaboratori, degli ospiti e di tutti gli utenti della RSA, potendo serbare il rifiuto della vaccinazione, in momento di intensa diffusione del virus SARS-COV-19, potenziali gravi conseguenze sulla salute dei medesimi soggetti, comprese gravi complicanze di salute e decesso”.
La lavoratrice aveva impugnato il provvedimento di messa in aspettativa senza retribuzione ritenendo che, a fronte del rifiuto del vaccino anti Covid-19, il datore di lavoro può disporre la sospensione non retribuita dal lavoro solo dopo aver verificato la possibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni non a rischio di contagio.
Il giudice milanese ha accolto l’impugnazione della lavoratrice, sulla base delle seguenti considerazioni:
- l’articolo 2087 c.c. – norma di chiusura del sistema di prevenzione nei luoghi di lavoro – impone all’imprenditore l’adozione, nell’esercizio dell’impresa, delle “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;
- la direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020 ha incluso il SARS-COV-19 tra gli “agenti biologici” per i quali è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro. Rientra, quindi, tra i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro stabiliti dal D.LGS. n. 81/2008, anche quello di tutelare i lavoratori da “agenti di rischio esterni derivanti dalla diffusione pandemica di agenti infettivi”;
- la condotta del lavoratore sociosanitario che rifiuta il vaccino anti Covid-19 costituisce una fattispecie di “sopravvenuta impossibilità della prestazione” (artt. 1463 e 1464 c.c.), sicché il lavoratore medesimo è temporaneamente inidoneo “in quanto potenziale maggior veicolo di diffusione del contagio, allo svolgimento della prestazione tipica, prevedente il contatto con soggetti fragili, potenzialmente attingibili dalle gravi o fatali conseguenze della patologia da Covid-19, sino alla sottoposizione ad un ciclo vaccinale completo o, alternativamente, alla cessazione dell’emergenza epidemiologica”;
- tuttavia, la sospensione senza retribuzione va adottata come extrema ratio, essendo onere del datore di lavoro verificare “l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, atte a preservare la condizione occupazionale e retributiva, da un lato, e compatibili, dall’altro, con la tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro, in quanto non prevedenti contatti interpersonali con soggetti fragili o comportanti, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2” (c.d. ripescaggio o repêchage);
- l’onere probatorio che grava sul datore di lavoro in caso di sospensione del rapporto per impossibilità temporanea della prestazione è, dunque, analogo a quello previsto per il caso di licenziamento per impossibilità definitiva della prestazione (i.e. impossibilità del c.d. repêchage). In entrambi i casi, il datore di lavoro ha l’onere di provare di non poter utilizzare il lavoratore in altra posizione di lavoro o in altre mansioni (equivalenti o inferiori). In assenza della prova di tale obbligo, il lavoratore sospeso ha comunque diritto alla retribuzione.
Per una fattispecie similare, v. Trib. Belluno, sez. lav., ord. 19 marzo 2021, in q. sito, annotata da G. I. VIGLIOTTI.