Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26449
Cessione di ramo d’azienda, Licenziamento, Dirigente,
Pagamento di ulteriori emolumenti derivanti dal computo di spettanze
retributive sul TFR
Rilevato che
Il Tribunale di Firenze accoglieva in parte le
domande proposte da S.G. ex dirigente
della A. s.p.a. transitato alle dipendenze della A. Gestioni s.r.l. a seguito
di cessione di ramo d’azienda e da quest’ultima licenziato il 1/12/2012, condannando
la società al pagamento della – somma di euro 278.064,98 comprensiva di
indennità supplementare ex art. 29 c.c.n.l. di settore – ragguagliata a 14
mensilità – nonché di ulteriori importi corrispondenti al computo sul t.f.r. di
una serie di compensi (per attività di consigliere svolta presso una società
partecipata) ed indennità (di preavviso, di mansione);
tale pronuncia veniva parzialmente riformata dalla
Corte distrettuale che rigettava l’appello principale proposto dalla A.
Gestioni s.r.l. ed in parziale accoglimento dell’appello incidentale,
condannava la società al pagamento di ulteriori emolumenti derivanti dal
computo di spettanze retributive sul trattamento di fine rapporto;
la cassazione di tale decisione è domandata dalla
società sulla base di otto motivi;
resiste con controricorso S.G. che dispiega ricorso
incidentale sostenuto da due motivi, ai quali A. Gestioni s.r.l. oppone difese
con controricorso, ai sensi dell’art.371 c.p.c.;
entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.;
Considerato che
1. con i primi tre motivi del ricorso principale, si
denuncia sotto il profilo di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
ex art.360 comma primo n.5 c.p.c. (primo
motivo), di violazione e falsa applicazione degli artt.1175
e 1375 c.c. (secondo motivo), e degli artt.112, 115 c.c.
ex art.360 comma primo n.3 c.p.c. (terzo
motivo), la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno accertato la
ingiustificatezza del licenziamento intimato al dirigente in data 2/12/2012;
detta statuizione era fondata sul rilievo che, dopo
il verificarsi dell’evento traslativo del ramo di azienda, nell’ambito di una
prospettata “organizzazione invariata”, era stata appena comunicata
dalla società la conservazione del posto di lavoro, quando era sopravvenuto il
licenziamento in tronco; il carattere estemporaneo del recesso ridondava in
termini di violazione dei principi di correttezza e buona fede;
la ricorrente si duole che i giudici di seconda
istanza, nel pervenire a tale convincimento, abbiano tralasciato di considerare
che nella vicenda traslativa si era imposta l’evidenza dell’interesse dei soci
alla assunzione diretta delle funzioni apicali; si argomenta che nello
specifico, non si era inteso addivenire ad una mera sostituzione dei tre dirigenti
provenienti da A. s.p.a. ma alla dotazione di A. Gestioni di una propria
organizzazione, più confacente anche agli interessi dei soci; si imputa, in
definitiva, alla Corte distrettuale, di esser pervenuta ad un giudizio di
ingiustificatezza del licenziamento per violazione degli obblighi di buona fede
e correttezza, sulla base di elementi indiziari inconsistenti, e di aver omesso
ogni pronuncia sulla eccezione formulata in sede di gravame, con la quale era
stata stigmatizzata l’illogicità ed infondatezza della motivazione dedotta dal
giudice di primo grado, perché assunta in mancanza di espletamento di attività
istruttoria;
2. i motivi non sono fondati;
occorre premettere che il generale principio
etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e
nell’adempimento dei propri doveri, gioca un ruolo fondamentale anche in
funzione integrativa dell’obbligazione, assunta dal debitore, e quale limite
all’esercizio delle corrispondenti pretese;
come rimarcato da avvertita dottrina, attraverso le richiamate
norme, può venire più esattamente individuato il contenuto del singolo rapporto
obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di
cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della
vicenda negoziale, vanno ad individuare la regula iuris effettivamente
applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del
regolamento di interessi che le parti hanno inteso raggiungere; la
giurisprudenza di questa Corte ha anche ribadito che il principio di
correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al
codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione
dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo
all’interesse del creditore” deve essere inteso in senso oggettivo ed
enuncia un dovere di solidarietà, costituzionalmente garantito, che, operando
con criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna
delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare
gli interessi dell’altra, a prescindere dagli specifici obblighi contrattuali o
legali, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere,
anche di per sè, un danno risarcibile (confr. Cass. 22/1/2009, n. 1618; Cass. S.U.
25/11/2008, n. 28056);
il principio di buona fede, che si specifica nel
dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse
della controparte, si pone, dunque, come limite di ogni situazione, attiva o
passiva, negozialmente attribuita, determinando così anche in fase integrativa
il contenuto e gli effetti del contratto (vedi in motivazione, Cass. 20/4/1994 n. 3775);
orbene, nel caso di specie, deve ritenersi che il
giudice di merito abbia esattamente ipotizzato un giudizio di sfavore da parte
dell’ordinamento nei confronti del comportamento assunto dalla parte datoriale
la quale, dopo aver rassicurato il dirigente a fine novembre, sulla
continuazione del rapporto di lavoro e sul conferimento di un ruolo specifico
nell’ambito di una Commissione incaricata di redigere la “situazione
patrimoniale di riferimento” aziendale nei successivi 120 giorni dalla
cessione di ramo d’azienda, il successivo 1° dicembre aveva intimato il
licenziamento; la Corte di merito è quindi pervenuta a tali approdi – conformi
a diritto per quanto sinora detto – all’esito di valutazioni probatorie e
accertamenti di fatto istituzionalmente riservati al giudice di merito,
esattamente sovrapponibili a quelli elaborati dal giudice di prima istanza,
contro i quali si infrange in particolare, la prima censura, inidonea a
superare anche il principio consacrato dall’art.348
ter ultimo comma c.p.c. del divieto di denuncia dei vizi ex art. 360 c.1 n.5 per i giudizi di appello – quale
quello in esame – instaurati successivamente alla data del 11/9/2012 (art. 54, comma 2, del richiamato
d.l. n.83/2012) definiti con sentenza che conferma la decisione di primo
grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici
di primo e di secondo grado;
3. il quarto motivo prospetta violazione e falsa
applicazione dell’art.29 c.c.n.l. dirigenti Confservizi in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si critica la statuizione con la quale è stata
determinata l’indennità supplementare sul rilievo che i giudici del gravame non
avrebbero esplicato le ragioni per le quali era stata ritenuta equa la
valutazione della stessa nella misura di 14 mensilità, incorrendo nella
elaborazione di una motivazione apparente, in violazione dell’art.132 c.p.c.;
4. il motivo è privo di fondamento;
il Collegio del merito ha congruamente mostrato di
condividere il convincimento già espresso sul punto dal giudice di prima
istanza;. nel rimarcare come i termini entro i quali si muoveva il giudizio di
quantificazione della indennità disciplinata dall’art.29 c.c.n.l. di settore,
spaziavano da un minimo di undici ad un massimo di venti mensilità, ha
disatteso il motivo di censura proposto al riguardo dal G., osservando che i
paradigmi sui quali conformare il giudizio di liquidazione erano integrati
dalla durata quinquennale del rapporto di lavoro inter partes, e dal rapido
reperimento di una nuova occupazione presso la società T. di Firenze;
l’incedere argomentativo che connota la ricordata
statuizione, si sottrae alla denuncia modulata dalla società sulla violazione
dei dettami di cui all’art.132 c.p.c.: secondo i principi affermati da
questa Corte, ed ai quali si intende dare continuità, la sentenza pronunziata
in sede di gravame è, infatti, legittimamente motivata “per
relationem” ove contenga espliciti riferimenti alla pronuncia di primo
grado, facendone proprie le argomentazioni in punto di diritto, e fornisca, pur
sinteticamente, una risposta alle censure formulate, nell’atto di appello e
nelle conclusioni, dalla parte soccombente, risultando così appagante e
corretto il percorso argomentativo desumibile attraverso l’integrazione della
parte motiva delle due sentenze (ex aliis, vedi Cass.
23/08/2018 n. 21037);
diversamente, il vizio di motivazione previsto dall’art.132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli
una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il
giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi
sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina
logicogiuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (vedi Cass. 14/2/2020 n. 3819); ma detta ipotesi,
all’evidenza, e per le considerazioni sinora esposte, non ricorre nella
fattispecie sicchè anche sotto tale profilo, la pronuncia resiste alla censura
all’esame;
5. con il quinto motivo è denunciata violazione e
falsa applicazione dell’art.2948, 1362, 1230, 2120, in relazione all’art.360
comma primo n.3 c.p.c.;
si critica la statuizione con la quale la Corte
distrettuale ha respinto l’eccezione di prescrizione quinquennale formulata
dalla società, del diritto azionato dal G., attinente al computo dell’indennità
di mansione sulle competenze di fine rapporto; al riguardo, era stata, infatti,
esclusa la natura novativa del contratto stipulato in data 15/11/07 sul rilievo
che le diverse determinazioni in esso contenute, anche in materia di
retribuzioni, assumevano il valore di mere modifiche del rapporto; si rimarca,
per contro, che con A. s.p.a. erano intercorsi due rapporti di lavoro, a
termine ed a tempo indeterminato: il primo era cessato il 21/11/2007 ed entro
il successivo quinquennio il G. avrebbe dovuto azionare il diritto al computo
della indennità sul TFR; si deduce che, accertando la continuità del rapporto e
l’infrazionabilità della anzianità senza tener conto della effettiva novazione
del rapporto, desumibile dal tenore della comunicazione aziendale del 6/8/2007
in cui si manifestava l’interesse a rinegoziare il rapporto, il Collegio di
merito ha falsamente applicato l’art.2120 c.c.
e violato le disposizioni in tema di novazione del rapporto;
6. la censura soffre di un irredimibile difetto di
autosufficienza, non essendo riportato il tenore dell’atto di parte datoriale
in relazione al quale si accredita il perfezionarsi di una fattispecie novativa
del precedente accordo negoziale;
è bene rammentare che, secondo i principi affermati
da questa Corte, ed ai quali va data continuità, i -requisiti di
contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono
essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da
altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il
ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata
indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato,
producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si
dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e
in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o
riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di
autosufficienza (vedi fra le molte, Cass. 13/11/2018 n. 29093); è stato al
riguardo puntualizzato che sono inammissibili, le censure fondate su atti e
documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare
tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti,
senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con
riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla
documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di
renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel
fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione
in sede di giudizio di legittimità (vedi Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34469);
si è poi ben chiarito che la disciplina del ricorso
per cassazione, nella parte in cui prevede – all’art.
366, comma 1, n. 6), c.p.c. – requisiti di ammissibilità di
contenuto-forma, non contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale
sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, giacché essi sono individuati in modo chiaro (tanto da doversi
escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia
in grado di percepirne il significato e le implicazioni) ed in armonia con il
principio della idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo,
sicchè risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata
propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di
legittimità quale processo privo di momenti di istruzione (vedi Cass. 3/1/2020
n.27);
nello specifico la ricorrente ha omesso di riportare
il contratto a tempo determinato del 2004 – se non nella clausola relativa alla
comunicazione in caso di mancato rinnovo – e di richiamare il contenuto della
comunicazione 6/8/2007 con la quale A. s.p.a. avrebbe comunicato al G. la sua
volontà di non rinnovare il contratto a termine alla sua scadenza, limitandosi
a riprodurre in minima parte, il tenore del contratto a tempo indeterminato del
15/11/2007; in tal guisa è rimasta inadempiente agli oneri posti a suo carico
dalle summenzionate disposizioni del codice di rito;
da ultimo, non va sottaciuto che, secondo
l’insegnamento di questa Corte, in tema di interpretazione del contratto o di
un atto unilaterale ex art.1324 cod. civ., il
sindacato di legittimità deve essere condotto non sulla- ricostruzione della
volontà delle parti, o dell’unica parte – che costituisce un accertamento di
fatto non consentito in sede di legittimità – ma soltanto sulla individuazione
dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si
sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di riscontrare
errore di diritto o vizi del ragionamento (vedi Cass. 16/9/2002 n.13543, Cass.
26/2/2009 n.4670, Cass. 8/6/2018 n.14882); sicché, per far valere una
violazione sotto tale profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle
regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni
asseritannente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare
in qual modo e con quali considerazioni il giudice del ‘merito se ne sia
discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di
ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del
vizio di motivazione e si risolva, in realtà, (come nella specie) nella
proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536); d’altra
parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del
merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la
migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra
le altre: Cass. 12/7/2007, n. 15604; Cass.22/2/2007, n. 4178); da ciò consegue
che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della
ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si
traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli
stessi elementi già dallo stesso esaminati;
quando di una clausola contrattuale sono possibili
due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto
l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di
legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass.6/12/2016, n.
24958, Cass. 9/8/2018 n.20694, Cass. 3/11/2020 n. 24395);
sotto tutti i profili delineati, la-statuizione
resiste alla critica formulata; 7. con il sesto motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art.2113, 1362, 2120, in relazione all’art.360 comma
primo n.3 . c.p.c.; si censura la statuizione con la quale l’indennità di
mansione annuale è stata inserita nell’ambito della retribuzione imponibile ai
fini del T.F.R.;
si deduce che nel caso di specie l’accordo
individuale del 17/4/2007 non aveva escluso il compenso di euro 25.000,00 dalla
base di calcolo del TFR ma aveva stabilito che detto compenso fosse comprensivo
anche della incidenza sulla retribuzione differita, con esclusione di oneri
aggiuntivi a carico di A.; in tal senso si palesava la violazione dell’art.1362 c.c. non avendo il giudicante tenuto
conto della lettera della clausola contrattuale;
8. il motivo è privo di fondamento;
la tesi accreditata da parte societaria, non
consente di ritenere superato il divieto di esclusione dal t.f.r. del computo
di indennità corrisposte in via continuativa, consacrato nel disposto di cui
all’art.2120 c.c. nella elaborazione resa dai
consolidati dicta di questa Corte, alla cui stregua il diritto al trattamento
di fine rapporto sorge, a norma dell’art. 2120 cod.
civ., al momento della cessazione del rapporto ed in conseguenza di essa,
essendo irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza,
l’accantonamento annuale della quota del trattamento, che costituisce una mera
modalità di calcolo dell’unico diritto che matura nel momento anzidetto, ovvero
l’anticipazione sul trattamento medesimo, che è corresponsione di somme
provvisoriamente quantificate e prive del requisito della certezza, atteso che
il diritto all’integrale prestazione matura, per l’appunto, solo alla fine del
rapporto lavorativo (vedi per tutte Cass..
18/2/2010 n.3894);
la censura incorre, poi, nello stigma della novità,
con riferimento alla eccezione di decadenza ex art.2113
c.c., laddove si deduce che il dirigente non avrebbe potuto eccepire
l’invalidità del patto di conglobamento, non essendovi nella pronuncia
impugnata alcun riferimento alla dedotta eccezione (cfr. Cass. 9/8/2018 n.
20694, Cass. 24/01/2019 n. 2038);
9. la settima e la ottava critica attengono alla
violazione e falsa applicazione dell’art.132 e 112 c.p.c. (settimo motivo) e degli artt. 2094, 2099, 2120, 2121 c.c. 29
e 35 c.c.n.l. di settore in relazione all’art.360
comma primo n.3 c.p.c.;
si deduce che i giudici di seconda istanza, nel
richiamare la statuizione con cui il primo giudice ha incluso nel computo del
TFR anche i compensi percepiti come consigliere della T. s.p.a., abbiano reso
una motivazione meramente apparente in violazione dei dettami di cui all’art.132 c.p.c.; si rimarca che A. s.p.a. non aveva
assunto alcuna
obbligazione avente ad oggetto la retribuzione della
attività svolta dal dirigente in favore della società T. di Firenze,
sussistendo invece un interesse precipuo e diretto di tale società alla
prestazione del dirigente come consigliere;
10. i motivi, che possono congiuntamente trattarsi
per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono infondati;
la Corte distrettuale ha ampiamente argomentato in ordine al rapporto
instaurato dal G. con la società T. di Firenze, specificando che l’attività di
consigliere delegato a far tempo dal 2008, era stata espletata “dietro
richiesta e nell’interesse di A. s.p.a.” di talchè il suo espletamento
rientrava nella prestazione resa in favore della stessa;
ha altresì rimarcato come nella autorizzazione del
4/4/2008 A. menzionasse “la regola generale secondo la quale il dirigente
avrebbe dovuto riversare alla stessa A. gli emolumenti percepiti da terzi per
la veste di consigliere in c.d.a. di società diverse e anche precisava che la
speciale deroga era concessa in quanto …l’attività prestata all’esterno da G.
S. rispondeva ad un interesse (e pure ad un risparmio) per A.” ; il
contratto di lavoro inter partes, prevedeva poi “espressamente che il compenso
pattuito fosse remunerativo dell’eventuale affidamento di incarichi in società
enti ed organizzazioni partecipate da A. s.p.a.”; coerentemente con le
suddette pattuizioni, i compensi per gli incarichi presso le società
partecipate, venivano fatturati direttamente ad A.;
nell’ottica descritta la Corte territoriale ha
convalidato il giudizio espresso dal giudice di prima istanza in ordine alla
natura retributiva degli emolumenti considerati, con pronuncia che non risponde
alla nozione della mera apparenza della motivazione nella interpretazione resa
dalla giurisprudenza di legittimità, perché connotata da un percorso
motivazionale esaustivo e coerente, con il quale si è fornita al ricorrente una
risposta appagante in ordine alle censure svolte, mediante l’argomentato
richiamo alle statuizioni oggetto della pronuncia di primo grado;
in tale prospettiva, priva di pregio si palesa anche
la doglianza espressa con l’ultimo motivo di ricorso mediante il quale, sotto
l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, si
degrada in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una
rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez.
Un., 17/12/2019, n. 33373); la complessiva censura traligna dal modello legale
di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360
cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione
del merito degli accadimenti,senza neppure confrontarsi con la ratio decidendi;
alla luce delle sinora esposte argomentazioni, il ricorso principale va,
pertanto, respinto;
11. con il ricorso incidentale si denuncia omesso
esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art.360
comma primo n.5 c.p.c. (primo motivo), violazione e falsa applicazione
degli artt.29 e 35 c.c.n.l. dirigenti
Confservizi e 132 c.p.c. in relazione
all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.; si stigmatizza la statuizione con la quale la
Corte distrettuale ha determinato l’entità dell’indennità supplementare sotto
il profilo della intima contraddittorietà; ci si duole, infatti, che la Corte
di merito, dopo aver rimarcato che l’agire della parte datoriale, nella fase
risolutiva del rapporto, non si era conformato ai canoni generali di
correttezza e buona fede, aveva poi, in sede di quantificazione della
indennità, trascurato ogni riferimento proprio ai parametri suddetti, in
violazione dei canoni sanciti dalla disposizione contrattual-collettiva (art.29
c.13) che richiamava quale paradigma, gli elementi che caratterizzano il caso
concreto; in particolare, quanto al requisito della anzianità di servizio, si
evidenzia che di detto elemento, richiamato al fine di definire la continuità
del rapporto inter partes sin dal novembre 2004 (conseguente al diniego di
riconoscimento della novazione del rapporto nel 2007), il giudice di seconda
istanza si- sia avvalso per contenere l’entità della indennità di fonte
collettiva a lui spettante;
12. i motivi, da trattarsi congiuntamente per
connessione, sono privi di pregio;
secondo il costante orientamento espresso dalla
giurisprudenza di legittimità, il giudizio sulla misura dell’indennità
supplementare spettante in base alla contrattazione collettiva in caso di licenziamento
non giustificato di dirigenti è rimesso alla valutazione discrezionale del
giudice di merito e non è censurabile se non per vizio di motivazione (vedi ex
aliis Cass. 16/3/2015 n.5175, Cass. 17/1/1998 n. 389); osserva il Collegio che
nella specie la Corte di merito ha determinato l’indennità nella misura
(superiore a quella minima), di quattordici mensilità basata sia sulla
anzianità di servizio, con particolare riferimento alla anzianità maturata a
far tempo dalla stipula del contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia
dalla circostanza incontestata, che egli avesse prontamente reperito una nuova
occupazione presso la T. s.p.a. di Firenze, rimarcando come ciò denotasse la
mancata effettiva compromissione dell’immagine professionale del cittadino in
ambito territoriale; tale decisione, congruamente motivata, resiste alla
censura del G.,
non patendo alcun vizio di intrinseca
contraddittorietà quanto al riferimento del parametro della anzianità, tale da
ridondare in termini di inammissibilità del giudizio espresso; il criterio
descritto, quale paradigma di riferimento per la liquidazione della indennità
considerata, pur considerando parzialmente il periodo di lavoro prestato alle dipendenze
A. s.p.a., riferito al contratto a tempo indeterminato stipulato fra le parti,
si combina con quello del pronto reperimento di nuova collocazione lavorativa,
refluendo in un apprezzamento congruo, che esula dagli angusti limiti di
sindacato introdotti dal novellato comma primo n.5 dell’art.360 c.p.c. nella interpretazione resa dalle
Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. 7/4/2014 n.8054);
nell’ottica descritta la critica si limita a
sollecitare una non consentita revisione del ragionamento decisorio,
inammissibile in questa sede; entrambi i ricorsi devono, pertanto, essere
rigettati;
in ragione della soccombenza reciproca, le spese
vanno compensate tra le parti;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002
– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
principale ed il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale ed il ricorso
incidentale.
Compensa fra le parti le spese del presente
giudizio.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002
– della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
principale ed il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.