Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 ottobre 2021, n. 27791

Lavoro, Compenso per lo studio del progetto di franchising,
Risarcimento da perdita della attività di parrucchiere, danno biologico ed
esistenziale

 

Rilevato che

 

E. P. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale
civile ordinario di Roma la s.n.c. G. ed esponeva di essere stato da detta
società incaricato di coordinare un’iniziativa volta allo sviluppo di una
attività di franchising internazionale mediante la quale promuovere e commercializzare
i prodotti della medesima società G.;

deduceva altresì di aver ceduto una avviata attività
di parrucchiere che svolgeva in Roma, per far fronte all’impegno assunto nei
confronti della convenuta la quale, dal canto suo, era invece venuta meno a
tutte le obbligazioni assunte nei suoi confronti; alla stregua di tali
premesse, chiedeva condannarsi la s.n.c. G. al pagamento della somma di euro
150.000,00 a titolo di compenso per lo studio del progetto di franchising
nonché per risarcimento da perdita della attività di parrucchiere, danno
biologico ed esistenziale;

la convenuta, costituitasi in giudizio, resisteva
alle domande di cui chiedeva la reiezione, instando per la rimessione della
causa alla sezione lavoro, alla quale veniva assegnata dal Presidente del
Tribunale. Il giudice adito rigettava il ricorso con pronuncia che veniva
confermata dalla Corte distrettuale, la quale perveniva a tale convincimento,
in estrema sintesi, sul rilievo della inammissibilità della doglianza attinente
al mutamento del rito, per non esser stato prospettato alcun nocumento al
diritto di difesa collegato alla scelta del rito stesso, e della mancata
definizione di un quadro probatorio che confortasse la tesi attorea relativa
alla intercorrenza fra le parti di un rapporto di collaborazione così intenso e
vincolante come quello prospettato in atto introduttivo, da indurre altresì a
cedere l’avviata attività gestita in Roma e da dimostrare la fondatezza della
quantificazione del compenso rivendicato;

avverso tale decisione E. P. interpone ricorso per
cassazione affidato a quattro motivi ai quali oppone difese la F. Immobiliare
s.r.l. già G. s.n.c., illustrato da memoria;

il Procuratore Generale ha rassegnato le proprie
conclusioni ai sensi dell’art.23 comma 8 bis d.l. 28/10/2020 conv. in legge
18/12/2020 n.176;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt.409 e 426 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma
primo n.3 c.p.c.; si stigmatizza la statuizione con la quale la Corte distrettuale
aveva dichiarato inammissibile la doglianza relativa al mutamento di rito; si
osserva che, diversamente da quanto argomentato dai giudici del merito, il
nocumento arrecato alla difesa del ricorrente dal cambiamento del rito,
risiedeva nel fatto che era “stata ammessa la testimonianza di I.I.M. la
quale risulta essere coniuge dello G. e per di più socio e legale
rappresentante della società in nome collettivo titolare dell’impresa
appellata”; se fosse stato adottato il rito ordinario, tale testimonianza
avrebbe dovuto esser dichiarata inammissibile ai sensi dell’art.247 c.p.c.
stante la sussistenza di un interesse diretto del testimone all’esito del
giudizio;

2. il motivo presenta plurimi profili di
inammissibilità;

secondo il consolidato orientamento espresso da
questa Corte, invero, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure
espressamente e tassativamente previste dall’art.360, comma 1, cod. proc. civ.,
deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata
ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite,
pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione
numerica di una delle predette ipotesi; ne deriva che, ove il ricorrente
lamenti l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile una
domanda in violazione delle preclusioni processuali, non è indispensabile che
faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n.4
del comma 1 dell’art.360 cod. proc. civ., con riguardo alla norma processuale
violata, purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della
decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare
inammissibile il gravame allorché si riferisca esclusivamente alla
insufficienza e contraddittorietà della motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5,
c.p.c. o alla ipotesi di violazione di legge (vedi ex plurimis, Cass.
29/11/2016 n.24247, Cass. S.U. 24/7/2013 n.17931);

nello specifico manca alcuna istanza di declaratoria
di nullità del procedimento e della sentenza sicchè, in difetto di ogni
argomentazione in tal senso, la censura non si sottrae ad un giudizio di
inammissibilità;

3. si aggiunga, poi, che la situazione di incapacità
testimoniale – peraltro, non correttamente sviluppata, in questa sede, con
riferimento all’art.247 c.p.c. essendo venuto meno il divieto di testimoniare
previsto da detta disposizione per effetto della sentenza della Corte Cost. n.
248 del 1974 – neanche risulta tempestivamente sollevata nel giudizio di
merito;

va infatti rammentato che l’incapacità a
testimoniare derivante dalla esistenza, in un soggetto, della qualità di parte,
anche virtuale, e di testimone, deve essere eccepita dalla parte interessata al
momento dell’espletamento del mezzo di prova o nella prima difesa successiva,
altrimenti la nullità dell’assunzione resta definitivamente sanata per
acquiescenza (ai sensi dell’art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.);
pertanto, deve ritenersi inammissibile, in quanto concernente una questione per
la prima volta dedotta in sede di legittimità, il motivo di ricorso per
cassazione con il quale ci si dolga che non sia stata ritenuta  l’incapacità testimoniale di un teste,
allorché la sentenza impugnata non tratti di tale questione e il ricorrente non
deduca – come verificatosi nella specie – di avere tempestivamente eccepito la
nullità della deposizione indicando tempi e modi con i quali abbia sollevato la
questione, e di averla riproposta con l’atto d’appello (vedi Cass.19/3/2004
n.5550, Cass. 30/10/2009 n.23054);

la censura, in definitiva, non si confronta
validamente con gli approdi ai quali è pervenuto il giudice del gravame, il
quale ha mostrato di conoscere e condividere i principi affermati in sede di
legittimità, alla stregua dei quali la questione del cambiamento di rito, da
quello speciale del lavoro a quello ordinario o viceversa, non spiega effetti
invalidanti sulla sentenza, che non è né inesistente né nulla, e la relativa
doglianza, che può essere dedotta come motivo di impugnazione, è inammissibile
per difetto di interesse qualora non si indichi uno specifico pregiudizio
processuale che dalla mancata adozione del diverso rito sia concretamente
derivato, in quanto l’esattezza del rito non deve essere considerata fine a se
stessa, ma può essere invocata solo per riparare una precisa ed apprezzabile
lesione che, in conseguenza del rito seguito, sia stata subita sul piano
pratico processuale (vedi sul punto, Cass. 18/7/2008 n.19942, Cass. 27/1/2015
n.1448, Cass. 22/3/2018 . n.7199);

lesione che non appare configurabile nello
specifico, giacchè l’applicabilità della disciplina in tema di ammissibilità
della testimonianza prescinde dalla tipologia di rito applicabile;

per giurisprudenza costante di questa Corte, invero,
in materia di prova testimoniale, non sussiste con riguardo alle deposizioni
rese dai parenti o dal coniuge di una delle parti, alcun principio di
necessaria inattendibilità connessa al vincolo di parentela o coniugale,
siccome privo di riscontri nell’attuale ordinamento, considerato che, venuto
meno il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 cod. proc. civ.,
l’attendibilità del teste legato dai uno dei predetti vincoli non può essere
esclusa aprioristicamente, in difetto di ulteriori elementi in base ai quali il
giudice del merito reputi inficiarne la credibilità, per la sola circostanza
dell’esistenza dei detti vincoli con le parti (vedi Cass. sez. lav. n.557 del
18/1/1993, Cass. sez.3 n.1109 del 20/1/2006, Cass. sez.3 n. 25358 del
15/12/2015);

in tale prospettiva, ed in considerazione della mancanza
di decisività delle argomentazioni poste a fondamento della critica che non
prospetta una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del
contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della
parte, il motivo va disatteso;

4. il secondo motivo prospetta omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti
ai sensi dell’art.360 comma primo n.5 c.p.c.;

ci si duole che la Corte di merito non abbia preso
in considerazione la circostanza, emersa dal compendio probatorio acquisito,
relativa alla costituzione della G. Franchising e, quindi, alla ultimazione
dell’incarico affidatogli; tale circostanza assumeva valore decisivo perché
atta a dimostrare che l’attività svolta dal ricorrente, aveva conseguito lo
scopo dell’accordo intercorso con il G. volto ad avviare una società allo scopo
di “lanciare il franchising”;

5. il motivo è inammissibile;

anche prima della riformulazione dell’art.360 c.1
n.5 ex d. Igs. n.40/2006, costituiva consolidato insegnamento essere sempre
vietato invocare in  sede di legittimità
un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso
dalla parte, perché non ha la corte di cassazione il potere di riesaminare e
valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori
attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v.
Cass. 17/11/2005, n. 23286, Cass. 18/5/2006, n. 11670, Cass. sez. un.,
21/12/2009, n. 26825, Cass. 16/12/2011, n. 27197);

pertanto non può essere invocata una lettura delle
risultanze probatorie difforme da quella operata dalla corte territoriale,
essendo la valutazione di esse – al pari della scelta di quelle, tra esse,
ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di
fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a
fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di
prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale
a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non
impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del
proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere
ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione
difensiva (per tutte: Cass. 20/4/2012, n. 6260);

nel sistema l’intervento di modifica dell’art.360
c.p.c., n.5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta
un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di
legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto; con esso si è invero
avuta (vedi Cass. Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053) la riduzione al minimo
costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità,
per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che
si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene
all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e
prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con
esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione
apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella
motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;

in questo contesto, il nuovo testo dell’art.360
c.p.c., n.5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne
l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza
risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che
se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

tanto comporta (vedi Cass. Sez. Un., 22/9/2014 n.
19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di
omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia
stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non
abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

ne consegue che la ricostruzione del fatto operata
dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove
la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del
tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro
manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure
obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un
fatto  storico, principale o  secondario, ove quest’ultimo sia stato
comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di
tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto
storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti;

al riguardo, la Corte distrettuale ha avuto modo di
osservare che le deposizioni testimoniali raccolte, non consentivano di
ritenere raggiunta la prova adeguata e soddisfacente, “non tanto che non
vi fosse stata una effettiva collaborazione fra le parti, quanto in che
termini, con che vincoli e con quale effettiva intensità tale collaborazione si
sia svolta”, soggiungendo che non vi era alcuna prova che detta
collaborazione avesse comportato “l’assoluta necessità in capo
all’appellante, di cedere l’avviato negozio di via P.”…; in definitiva,
la Corte ha concluso che anche dopo l’espletamento dell’istruttoria in grado di
appello, il P. non era stato in grado di provare (al di là di una generica
collaborazione con la società appellata), che quest’ultima gli avesse affidato
uno specifico mandato per lo svolgimento, nel proprio esclusivo interesse,
delle attività  preparatorie del lancio
di un’attività di franchising internazionale;

la statuizione esula dai ristretti ambiti di
sindacato in sede di legittimità, sanciti dal novellato testo di cui
all’art.360 c.1 n.5 c.p.c., onde resiste alla censura all’esame;

6. ragioni di coerenza argomentativa inducono ad
esaminare con priorità il quarto motivo di ricorso, con il quale si denuncia la
violazione e falsa applicazione degli artt.112 e 113 c.p.c. in relazione
all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.;

si lamenta che il giudice del gravame abbia fondato
la propria decisione su fatti costitutivi diversi da quelli dedotti dalle
parti, omettendo di pronunciarsi sulle eccezioni formulate e non correttamente
governando il materiale probatorio acquisito, per aver valorizzato la
deposizione della teste M. (socio e legale rappresentante della s.n.c. G.) resa
su di una circostanza peraltro neanche indicata nel capitolato di prova
ammessa;

7. anche questo motivo non si sottrae ad un giudizio
di inammissibilità;

esso, non solo)offre di un difetto di specificità in
violazione dei dettami di cui all’art.366 comma 1 n.6 c.p.c., non riportando il
tenore della deposizione della teste indicata neanche nelle sue parti salienti,
ma, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di
legge, degrada in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una
rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez.
Un., 17/12/2019 n. 33373, Cass. S.0 27/12/2019 n. 34476); in breve, la
complessiva censura traligna dal modello legale di denuncia di un vizio
riconducibile all’art.360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una
diversa ricostruzione del merito degli accadimenti, non consentita nella
presente sede di legittimità;

8. con il terzo motivo è denunciata violazione e
falsa applicazione dell’art.423 c.p.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3
c.p.c.; si critica la statuizione con la quale il giudice del gravame ha
confermato la reiezione delle domande attoree per mancata dimostrazione del
quantum debeatur sul rilievo che in ogni caso era stata richiesta una
determinazione dell’importo in via equitativa, sicchè il giudicante avrebbe
dovuto provvedere facendo uso dei poteri a lui ascritti;

9. al di la di ogni pur assorbente considerazione in
ordine al difetto di specificità della censura, che non reca indicazione del
tenore degli atti processuali sui quali è fondata, la stessa deve ritenersi
inammissibile in base alle considerazioni di seguito esposte;

secondo l’insegnamento di questa Corte, quando una
decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed
autonome “rationes decidendi” ognuna delle quali sufficiente, da
sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è
indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite
“rationes”, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate; ne
consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una
delle riferite  argomentazioni, a
sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di
interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero
risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della
sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio
ritenuta corretta (vedi Cass. 24/5/2006 n.12372, Cass. 21/6/2017 n.15350);

nello specifico i giudici di seconda istanza hanno
fondato il loro argomentare su un duplice ordine di considerazioni: a) la
mancanza di prova in ordine al conferimento da parte della società convenuta,
di uno specifico mandato per lo svolgimento di una attività preparatoria del
lancio della attività di franchising internazionale; b) la mancanza di prova
del danno che si assumeva risentito da parte attrice; la circostanza che, in
base alle considerazioni innanzi esposte, siano state disattese le doglianze
con le quali il ricorrente ha confutato la statuizione inerente alla mancanza
di prova in ordine ai termini entro i quali la collaborazione si era
articolata, rende irrilevante l’esame degli altri profili atteso che in nessun
caso potrebbe derivarne l’annullamento della sentenza impugnata, risultando
comunque consolidata l’autonoma motivazione oggetto della censura dichiarata
inammissibile;

10. in definitiva, alla stregua delle sinora esposte
considerazioni, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;

le spese seguono la soccombenza, liquidate come da
dispositivo;

trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro
200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso articolo 13, ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 ottobre 2021, n. 27791
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