Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 ottobre 2021, n. 29910

Licenziamento collettivo, Comunicazione di avvio della
procedura, Delimitazione della platea dei licenziandi, Ragioni
tecnico-produttive che non consentono di estendere l’ambito della comparazione
al personale con mansioni omogenee impiegato presso le altre unità

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 1083/2019, pubblicata il 6 marzo
2019, la Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado, con
la quale il Tribunale della medesima sede, decidendo in sede di opposizione,
aveva respinto – come già all’esito della fase sommaria del giudizio – le
domande proposte da R.L., M.C., A.P.C., S.P. ed E.R. per ottenere la
declaratoria di illegittimità del licenziamento loro intimato da A. C. S.p.A.
il 30/12/2016, unitamente agli altri lavoratori già addetti alle Divisioni 1 e
2 della unità produttiva di Roma, a seguito di procedura ex art. 4 ss. I. 23
luglio 1991, n. 223 avviata con lettera del 5/10/2016.

2. La Corte di appello, a sostegno della propria
decisione: – ha escluso che la datrice di lavoro si fosse obbligata a non
procedere ai licenziamenti per un periodo di sei mesi in virtù dell’Accordo
concluso in data 30/5/2016, che, nel revocare una prima procedura di
licenziamento collettivo, aveva previsto, con decorrenza 1/6/2016, il ricorso
al contratto di solidarietà, rilevando come la società non avesse assunto alcun
impegno specifico in tal senso; – ha ritenuto che la comunicazione di avvio
della procedura contenesse tutti gli elementi richiesti dall’art. 4 I. cit.,
anche riguardo alla dimensione degli esuberi dichiarati, e che tale conclusione
non trovasse ostacolo nella circostanza che la società, nelle lettere di
licenziamento, come anche nella predetta comunicazione, aveva manifestato la
propria disponibilità a valutare eventuali richieste di trasferimento ad altre
unità produttive sul territorio nazionale, per un numero limitato di posizioni
(75), non risultando che le organizzazioni sindacali avessero mai preso in
considerazione, nel corso dei numerosi incontri successivi, la soluzione dei
trasferimenti al fine di limitare gli effetti sul piano occupazionale del
programma di riorganizzazione e di ridimensionamento dell’impresa; – ha escluso
la sussistenza di un comportamento ritorsivo o discriminatorio nei confronti
dei dipendenti dell’unità produttiva di Roma, poiché le RSU della stessa,
rifiutando, in esito all’incontro in sede ministeriale del 21/12/2016, la
prosecuzione del confronto con il 
contestuale ricorso agli ammortizzatori sociali (a differenza delle RSU
dell’unità produttiva di Napoli), avevano accettato che la società procedesse
alla gestione degli esuberi dichiarati mediante applicazione, per l’unità
produttiva di Roma, dei criteri di scelta legali; – ha considerato legittima la
delimitazione della platea dei licenziandi ai lavoratori addetti all’unità
produttiva di Roma, avuto riguardo all’ambito del progetto di ristrutturazione
aziendale e alla compiuta e analitica indicazione, nella comunicazione di avvio
della procedura, delle ragioni tecnico-produttive che non consentivano di
estendere l’ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee
impiegato presso le  altre unità.

3. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per
cassazione i lavoratori con sette motivi, cui ha resistito la società con
controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la
violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. sul rilievo che
la Corte di appello di Roma aveva omesso di pronunciarsi sulla illegittimità
del licenziamento perché intimato all’esito di una procedura avviata prima
della scadenza del semestre di moratoria al cui rispetto la società si era
impegnata in occasione della stipula del contratto di solidarietà.

2. Con il secondo e con il terzo motivo i ricorrenti
censurano la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale erroneamente
ritenuto che, con l’art. 6 dell’Accordo in data 30 maggio 2016, le parti
avessero concordato semplicemente una mera facoltà, e non un obbligo, per il
datore di lavoro, di utilizzare in alternativa ai licenziamenti uno strumento
di integrazione salariale: deducono in particolare, con il secondo motivo, la
violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp.
att. cod. proc. civ., essendo la Corte giunta alle proprie conclusioni sulla
base di una motivazione laconica, limitata ad un richiamo acritico di altri
provvedimenti e, pertanto, inidonea a consentire l’individuazione degli
argomenti posti a sostegno delle stesse conclusioni; con il terzo, la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 cod. civ.,
nonché dell’art. 1375 cod. civ., avendo offerto un’interpretazione dell’Accordo
contraria ai principi di correttezza e buona fede e comunque ai parametri
interpretativi dei testi negoziali di natura sindacale.

3. Con il quarto motivo viene dedotta la violazione
e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 I. 23 luglio 1991, n. 223, nonché
dell’art. 1375 cod. civ., per avere la Corte di appello ritenuto che la società
avesse correttamente adempiuto l’obbligo informativo previsto dalla procedura,
nonostante che la disponibilità ad attenuare gli effetti degli esuberi mediante
la ricollocazione di 75 lavoratori fosse stata omessa nella comunicazione di
avvio e prospettata soltanto nelle successive lettere di recesso.

4. Con il quinto, deducendo violazione e falsa
applicazione dell’art. 5 I. n. 223/1991, degli artt. 24 e 25 d.lgs. n.
148/2015, degli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 216/2003 e degli artt. 1343, 1344 e 1345
in combinato disposto con l’art. 1375 cod. civ., i ricorrenti censurano la
sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso un intento ritorsivo o
discriminatorio nella decisione della società di procedere ai licenziamenti dei
lavoratori addetti all’unità produttiva di Roma, senza valutare se il rifiuto
del datore di lavoro di ricorrere alla Cassa Integrazione Guadagni, pur in
presenza delle condizioni per accedervi, fosse giustificato ovvero rispondente
a correttezza e buona fede, altrimenti determinandosi un oggettivo effetto di
discriminazione, in sede di cessazione del rapporto, nei confronti dei
lavoratori di Roma, destinatari di un trattamento diverso rispetto ai colleghi
di Napoli e riconducibile esclusivamente ad un dissenso che era espressione
della libertà sindacale.

5. Con il sesto motivo, deducendo violazione e falsa
applicazione degli artt. 4, 5 e 24 I. n. 223/1991, i ricorrenti censurano la
sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la scelta datoriale
di limitare il bacino di comparazione del personale alle sole Divisioni 1 e 2
dell’unità produttiva di Roma, con ciò violando la previsione normativa,
secondo la quale l’ambito di selezione degli esuberi di una procedura di
licenziamento collettivo deve inderogabilmente riguardare posizioni
professionali omogenee impiegate nell’intero complesso aziendale.

6. Con il settimo viene denunciata dai ricorrenti
violazione e falsa applicazione dell’art. 5 I. n. 223/1991, degli artt. 115 e
116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., nonché nullità della sentenza
per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., per avere la Corte di appello
trascurato di verificare se all’onere di allegazione, nella comunicazione di
avvio, delle ragioni tecnico-produttive ed organizzative, che avrebbero
giustificato la riduzione della platea dei licenziandi, fosse seguita anche la
prova della reale sussistenza di tali ragioni, il cui onere era a carico del
datore di lavoro.

7. Il primo motivo è infondato.

7.1. La Corte territoriale, esaminando l’Accordo del
30 maggio 2016, ha rilevato come la previsione della possibilità di gestire
eventuali esuberi, che dovessero residuare al termine di sei mesi del contratto
di solidarietà, attraverso il ricorso all’integrazione salariale prevista
dall’art. 44, comma 7, del d.lgs. n. 148/2015, contenuta nella clausola di cui
all’art. 6, non vincolasse ad alcun impegno specifico la società, ma si
limitasse a contemplare “la mera possibilità di ridurre il numero degli
esuberi”, al verificarsi di determinate condizioni (cfr. sentenza, par.
8).

7.2. Ciò premesso, è da ritenere che la Corte,
sottolineando come l’Accordo in questione non vincolasse il datore di lavoro
“ad alcun impegno specifico”, si sia pronunciata anche sul profilo
che i ricorrenti, con il motivo in esame, reputano omesso e cioè sull’obbligo,
per la società, di astenersi dal procedere a licenziamenti collettivi nel
periodo semestrale di vigenza della solidarietà.

8. Il secondo e il terzo motivo, da esaminarsi
congiuntamente per connessione, risultano inammissibili.

8.1. Essi, infatti, non si confrontano con il
complessivo supporto argomentativo della sentenza, là dove il giudice di
appello, nell’escludere che l’Accordo del 30 maggio 2016 prevedesse alcun
obbligo o impegno specifico a carico della società, ha richiamato propri
precedenti conformi, in aggiunta a proprie considerazioni.

8.2. Come già osservato da questa Corte, la sentenza
di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso
ufficio, in quanto il riferimento ai “precedenti conformi” contenuto
nell’art. 118 dísp. att. cod. proc. civ. non deve ritenersi limitato ai
precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi
per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici
o per la risoluzione di identiche questioni, nell’ambito di un più ampio
disegno dì riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione
del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicché la parte
che intenda impugnarla ha l’onere di compiere una precisa analisi anche delle
argomentazioni che vi sono inserite mediante l’operazione inclusiva del
precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello
di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato
alla fattispecie in discussione (Cass. n. 17640/2016).

9. Il quarto motivo è inammissibile.

9.1. E’ stato invero ripetutamente affermato che la
comunicazione, di cui ai commi 2 e 3 I. 23 luglio 1991, n. 223, ha sia la finalità
di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per
la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo decisionale
seguito dal datore di lavoro per l’individuazione dei lavoratori potenzialmente
destinati ad essere estromessi dall’azienda; e che la verifica di adeguatezza,
a tali fini, della comunicazione di avvio della procedura costituisce oggetto
di valutazione devoluta al giudice di merito, non censurabile in sede di
legittimità se assistita da congrua motivazione (Cass. n. 15479/2007, fra le
molte conformi).

9.2. Nella specie, la Corte di appello ha posto in
rilievo come nella comunicazione del 5 ottobre 2016 (punto 5) la società avesse
espressamente dichiarato la propria disponibilità a valutare nel corso dell’esame
congiunto l’adozione di tutte le misure organizzative che consentissero di
fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della programmata riduzione del
personale e come, fra queste misure, vi fossero anche “i trasferimenti, se  compatibili con le esigenze aziendali”,
in tal modo indicando la sussistenza di posizioni lavorative libere presso le
altre unità produttive non coinvolte dalla procedura: posizioni, e relative
possibilità di trasferimento, che non furono mai, nel corso del confronto, prese
in esame dalle organizzazioni sindacali, secondo quanto accertato dalla stessa
Corte di appello con apprezzamento di fatto non censurato dai ricorrenti (cfr.
sentenza, pp. 22- 23)

10. Il quinto motivo risulta egualmente
inammissibile.

10.1. Esso, infatti, non si misura con l’ampio e
articolato percorso motivazionale, che ha condotto la Corte ad escludere ogni
intento discriminatorio e punitivo dei lavoratori della sede di Roma (cfr.
sentenza impugnata, pp. 9-11), in particolare con la considerazione dei
licenziamenti intimati a questi ultimi quale effetto del rifiuto delle RSU
della unità produttiva di Roma di proseguire il confronto, a differenza delle
RSU dell’unità di Napoli, e del completamento della procedura disciplinata
dalla I. n. 223/1991.

11. Il sesto e il settimo motivo, che possono essere
esaminati congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.

11.1. Al riguardo si ritiene di dover dare
continuità all’orientamento, per il quale, ove il progetto di ristrutturazione
si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva, le esigenze di cui
all’art. 5, c. 1, della I. n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale,
possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei
lavoratori da licenziare, purché il datore indichi nella comunicazione ex art.
4, comma 3, I. n. 223 cit. sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai
dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non
ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al
fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva
necessità dei programmati licenziamenti (Cass. n. 22178/2018; conforme, fra le
molte, Cass. n. 4678/2015, ove ulteriori riferimenti giurisprudenziali).

11.2. Nella specie, la Corte di merito ha accertato,
all’esito di una puntuale ricognizione, come la comunicazione di avvio della
procedura descrivesse “in maniera completa ed esaustiva gli elementi di
cui all’art. 4 della I. 223/1991” (par. 7), risultando così idonea a
permettere un utile e trasparente confronto con le organizzazioni sindacali,
posto che la società vi aveva indicato le ragioni tecnico-produttive a
giustificazione della scelta di circoscrivere il progetto di ristrutturazione e
ridimensionamento aziendale alle unità produttive di Roma e Napoli e altresì
indicato le ragioni che non consentivano di estendere l’ambito della
comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le unità
produttive non toccate dal progetto (par. 6).

11.3. La questione specificamente sollevata con il
settimo motivo non risulta proposta nelle fasi del giudizio di primo grado e
neppure, con l’indispensabile chiarezza, in sede di reclamo, secondo quanto è
dato desumere dall’illustrazione della censura (cfr. ricorso, pp. 38-39).

11.4. Resta peraltro fermo il principio di diritto,
per il quale, in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di
personale, la I. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale,
completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di
messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo
consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel
precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa
imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex
ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di
informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di
trasferimenti di azienda. Sicché i residui spazi di controllo devoluti al
giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della
riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi
compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato
ridimensionamento e singoli provvedimenti di recesso), con la conseguenza che
non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le
quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai
citati artt. 4 e 5, né fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di
controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine
di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire
l’autorità giudiziaria di un’indagine 
sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o
trasformazione dell’attività produttiva (cfr. da ultimo, fra le molte conformi,
Cass. n. 30550/2018).

12. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

13. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.

14. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dell’art. 13 D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

respinge il ricorso; condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 ottobre 2021, n. 29910
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