Nell’ipotesi di licenziamento collettivo, quando la ristrutturazione aziendale riguarda soltanto un’unità produttiva, la comparazione dei lavoratori per individuare quelli da avviare alla mobilità può avvenire nell’ambito della singola unità produttiva, non nell’intera azienda.
Nota a Cass. 7 ottobre 2021, n 27311
Paolo Pizzuti
“In caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o a uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale” (v. Cass. n. 10590/2005).
È quanto ribadisce la Corte di Cassazione (7 ottobre 2021, n. 27311, conf. ad App. Roma n. 2016/2019), precisando che nella suddetta ipotesi il datore di lavoro, allo scopo di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei licenziamenti programmati, è tenuto ad indicare, nella comunicazione ex art. 4, co. 3, L. n. 223/1991, sia le ragioni alla base della limitazione dei licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui egli non ritiene di ovviare ad alcuni licenziamenti con il trasferimento ad unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta (v. Cass. n. 22178/2018 e n. 22655/2012).
Nella fattispecie, inoltre, la Corte territoriale, esaminando l’Accordo del 30 maggio 2016, aveva rilevato che “la previsione della possibilità di gestire eventuali esuberi che dovessero residuare al termine di sei mesi del contratto di solidarietà attraverso il ricorso all’integrazione salariale (prevista dall’art. 44, co. 7, D.LGS. n. 148/2015)” contenuta in una clausola dell’accordo siglato con i sindacati, “non vincolasse ad alcun impegno specifico la società, ma si limitasse a contemplare solo una “possibilità” di gestire gli esuberi, osservando, su tale premessa, come “il tenore letterale dell’accordo” fosse “incompatibile con la definitività della moratoria”. In altri termini, nella fattispecie non si poteva configurare una “obbligazione” assunta dalla società con la sottoscrizione dell’accordo in questione relativa ad “un esplicito impegno”, concordato dalle parti, “a non ricorrere al licenziamento collettivo per la gestione degli esuberi, dovendo ricorrere, invece, a misure conservative dei rapporti di lavoro con l’utilizzo degli ammortizzatori sociali”, con i conseguenti effetti di illegittimità del recesso e suo annullamento.