Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 novembre 2021, n. 31065

Licenziamento, Permessi 104, Certificato medico attestante
la situazione di fatto non veritiera, Interpretazione del contratto collettivo

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 858 depositata l’8/9/2017 la
Corte di appello di Firenze, confermando la pronuncia del Tribunale della
medesima sede, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato, in
data 4/2/2016 ad A.C. da P.I. s.p.a. per abuso dei permessi retribuiti e in
forza dell’art. 54, VI comma, lett. c) del c.c.n.I. del settore postale e, ai
sensi dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, ha ordinato la
reintegra della stessa nel posto di lavoro e condannato la società datrice di
lavoro al pagamento del risarcimento del danno dalla data del licenziamento al
ripristino del rapporto di lavoro commisurato all’ultima retribuzione globale
di fatto.

2. La Corte territoriale – rilevato che
pacificamente risultava che la lavoratrice aveva usufruito di tre giorni di
permesso retribuito giustificati dalla necessità di assistere il marito
gravemente ammalato (come da certificato del proprio medico curante del
26/11/2015), la cui malattia non era stata poi documentata (ed anzi smentita
dalla circostanza che il suddetto marito, anch’egli dipendente postale, nei
giorni dal 26 al 28/11/2015 si trovava in ferie) – ha osservato che non poteva
ritenersi integrata la disposizione negoziale invocata dall’azienda (art. 54,
comma VI) mancando il requisito, ivi previsto, del “forte pregiudizio”
da intendersi di squisito carattere patrimoniale, che, del pari, l’art. 80
della medesima fonte collettiva integrava una previsione del tutto generale di
mera ricognizione delle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, e che, infine, la fattispecie poteva sussumersi nella previsione
di sanzione conservativa (sospensione dal servizio e dalla retribuzione fino a
quattro giorni) dell’art. 54, comma III, lett. b) che punisce la
“simulazione di malattia o di altri impedimenti ad assolvere agli obblighi
di servizio”, trattandosi della rappresentazione, da parte della C., di
una situazione falsa e simulata e cioè “la grave infermità” del
marito.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso P.I. s.pa. sulla base di due motivi; la parte intimata ha resistito con
tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 cod.civ., 52, 53, 54 e 80 del
c.c.n.I. per il personale dipendente di P.I. (in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente
interpretato la contrattazione collettiva, rappresentando l’art. 54, comma VI,
c.c.n.I. un mero indice esemplificativo (e non esaustivo) di ipotesi di
risoluzione per giusta causa del rapporto di lavoro, da integrarsi con la
previsione dell’art. 80 lett. e) che richiama, per la legittima risoluzione
unilaterale del rapporto, la sussistenza di una giusta causa ai sensi dell’art.
2119 cod.civ. ovvero di un giustificato motivo ai sensi delle vigenti
disposizioni di legge. La Corte territoriale, inoltre, ha errato
nell’individuazione del fatto materiale addebitato (consistente nella condotta
della lavoratrice e nella sua qualificabilità come inadempimento) aggiungendo
l’elemento del “forte pregiudizio” estraneo al concetto di
“sussistenza del fatto contestato” di cui all’art. 18, comma 4, legge
n. 300 del 1970, in relazione al quale è determinante l’intrinseca illiceità
della condotta del dipendente e non i suoi effetti; detta illiceità è
agevolmente percepibile dall’art. 34 del c.c.n.I. applicato che prevede la
fruizione di tre giorni di permesso retribuiti all’anno “in caso di
decesso o di documentata grave infermità del coniuge”; inoltre, la Corte
territoriale ha errato nell’escludere la sussistenza di un grave pregiudizio
all’azienda, consistente nell’indebita percezione della retribuzione per le
giornate di permesso illegittimamente ottenute (essendo irrilevante il recupero
dell’importo effettuato dalla società, che non elimina l’inadempimento
contrattuale di tale gravità da integrare il reato di uso di atto falso, avendo
indotto il proprio medico curante ad attestare una situazione del tutto non
corrispondente alla realtà).

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 18 della legge n. 300 del 1970 e 54
del c.c.n.I. di settore (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato che la condotta posta
in essere dalla dipendente non consisteva in una mera simulazione di malattia
bensì in una condotta più complessa in base alla quale la lavoratrice, per
beneficiare di tre giorni di permesso retribuiti (quindi per ottenere una
giustificazione per le proprie assenze) ha prodotto un certificato medico
attestante la situazione di fatto non veritiera, peraltro palesemente
sconfessata dal fatto che il coniuge “gravemente infermo” era
dipendente di P. collocato in ferie e, dunque, non poteva sussumersi nell’art.
54, comma III, che non può essere interpretata mediante analogia.

3. I due motivi di ricorso, che possono essere
trattati congiuntamente considerata la stretta connessione, non sono fondati.

3.1. Secondo il consolidato orientamento di questa
Corte che ha analizzato funditus i rapporti tra licenziamento e previsioni
disciplinari della contrattazione collettiva (Cass. n. 12365 del 2019; nello
stesso senso v. Cass. nn. 14247, 14248, 14500, 14604, 19578, 21628 31839 tutte
del 2019), le previsioni della contrattazione collettiva che graduano le
sanzioni disciplinari non vincolano il giudice di merito, essendo quella della
giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale (ex plurimis, Cass.
n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011).

Tuttavia “la scala valoriale ivi recepita deve
costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di
contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del
2018; Cass. n. 28492 dei 2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019;
Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì
che la legge n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che “nel
valutare le motivazioni P. a base del licenziamento, il giudice tiene conto
delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei
contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la
natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella legge n. 183
del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016).

Il principio generale subisce eccezione ove la
previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente
rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato
dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta
espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto,
ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può
estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di
licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in
particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353
del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si
accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di
maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi
attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento,
come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia
collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass.
n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n.
11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

3.2. In ordine, poi, ai criteri di interpretazione
di un contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in
considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni
dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg.. Coerentemente è stato da gran tempo
escluso il ricorso all’applicazione analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n.
5726 del 1985; Cass. n. 6524 del 1988), “atteso che anche nel contratto
collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro
originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso
all’analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex
art. 12 preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di
legge” (in termini, Cass., n. 30420 del 2017).

Con riferimento all’interpretazione estensiva, essa
è, in linea generale, consentita ai sensi dell’art. 1365 c.c., per estendere un
patto relativo ad un caso ad un altro caso non espressamente contemplato dalle
parti. In proposito è stato di recente precisato (Cass. n. 9560 del 2017) che
la norma da ultimo citata consente l’interpretazione estensiva di clausole
contrattuali solo ove risulti l'”inadeguatezza per difetto”
dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà,
inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione. In
tale ipotesi, l’interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute
dalle parti stesse con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati e
verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi
non contemplate nell’esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale
operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima
norma. E’ evidente che la suddetta verifica deve essere eseguita
dall’interprete con particolare severità in un contesto, come quello in esame,
nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che
preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente.
Ne consegue che in siffatta ipotesi l’interpretazione non può estendersi oltre
i casi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma
interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con
l’introduzione di nuove eccezioni (cfr., in materia di rapporto
regola-eccezione e della necessità di stretta interpretazione di queste ultime
e dell’esclusione di qualunque integrazione di tipo analogico o estensivo,
Cass. S. U. n. 24772 del 2008 in materia di mandato senza rappresentanza; Cass.
n. 13875 del 2010 in tema di patrocinio a spese dello Stato; Cass. n. 8379 del
2018 in materia di forma dei contratti collettivi; Cass. n. 20188 del 2017, che
rinvia altresì a Cass. n. 9205 del 1999, in materia di successione e di diritto
d’autore).

Pertanto solo ove il fatto contestato e accertato
sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante
per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile
con sanzione conservativa, il licenziamento sarà illegittimo (ed anche
meritevole della tutela reintegratoria prevista dell’art. 18, comma 4,
novellato dalla L. n. 92 del 2012).

4. Tanto premesso in diritto è conforme ai principi
richiamati l’operato della Corte territoriale che ha considerato la
tipizzazione della giusta causa fornita dal CCNL quale parametro di riferimento
per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 cod.civ. per
giungere a ritenere ingiustificata la sanzione espulsiva posto che la
previsione negoziale (art. 54, comma VI, lett. c) CCNL) ricollega detta
sanzione alla violazione dolosa di leggi, regolamenti, doveri di ufficio ove
possano arrecare o abbiano arrecato “forte pregiudizio” alla società
o a terzi. Ebbene, secondo accertamento di fatto insindacabile in questa sede,
la Corte territoriale ha ritenuto non ricorrente questo requisito (seppur
ricorrente un “evidente disvalore sociale”) non avendo, la società,
dimostrato di aver subito alcun tipo di pregiudizio patrimoniale.

Esclusa la ricorrenza di una giustificazione della
sanzione espulsiva, la Corte territoriale ha correttamente svolto, al fine di
individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o
meno di una delle due condizioni previste dal comma 4 dell’art. 18 della legge
n. 300 del 1970 (al fine di accedere alla tutela reintegratoria): esaminando,
invero, l’art. 54, comma III, lett. b) del CCNL applicabile al rapporto e che
prevede una sanzione conservativa per “la simulazione di malattia o di
altri impedimenti ad assolvere agli obblighi di servizio”, la Corte ha
ritenuto integrata la fattispecie posto che con tale formulazione così ampia e
generica le parti sociali hanno inteso ricomprendere una vasta gamma di
comportamenti e di mezzi fraudolenti con i quali l’interessato rappresenti una
falsa realtà per eludere i controlli o trarre in errore taluno, senza occuparsi
di delineare i mezzi con cui la simulazione viene realizzata né – con riguardo
al caso di specie – la colpa del medico o il suo sottrarsi al dovere di verifica.
L’ipotesi in esame è riconducibile alla previsione negoziale posto che è stato
accertato che la C. rappresentò una situazione falsa e simulata, cioè la grave
infermità del marito, e il medico di base (pur consapevole di certificare
qualcosa che non aveva né visto né verificato) certificò un fatto di cui non
poteva avere alcuna conoscenza diretta.

Trattasi di argomentazione plausibile, commisurata a
tutte le circostanze del caso concreto che compete al giudice del merito
apprezzare e che è sottratta al controllo di legittimità, per cui la diversa
opinione della parte soccombente non è idonea a determinare la cassazione della
sentenza impugnata.

5. Alla luce delle considerazioni esposte, il
ricorso va respinto, con spese liquidate secondo soccombenza come da
dispositivo.

6. Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1
quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro
200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 novembre 2021, n. 31065
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