I proventi derivanti da carried interest, alle condizioni previste dall’art. 60 del D.L. n. 50/2017, generano redditi di natura finanziaria (di capitale o diversi) e non redditi di lavoro dipendente.
Anche ove non siano rispettate tali condizioni, non è comunque esclusa la possibilità di considerare le remunerazioni di tali strumenti quali redditi di natura finanziaria.
Nota a AdE Risposte 11 ottobre 2021, nn. 696 e 698, 14 ottobre 2021, n. 705 e 15 ottobre 2021, n. 710
Francesco Palladino
L’Agenzia delle entrate, con le Risposte in oggetto, ha fornito taluni chiarimenti sul trattamento fiscale da riservare ai proventi derivanti dalle azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati (c.d. Carried Interest), percepiti da coloro che intrattengono un rapporto di lavoro dipendente o assimilato con società, enti o società di gestione dei fondi d’investimento.
Gli strumenti in questione sono quelli che comportano una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quelli degli altri investitori. Tale maggior rendimento è denominato “carried interest” e rappresenta una forma di incentivo riconosciuto, al realizzarsi di determinati risultati, ai soggetti maggiormente esposti al rischio derivante dall’investimento.
Questi strumenti ponevano un problema circa l’esatta qualificazione reddituale da dare ai proventi da loro ritraibili. Considerato, infatti, il duplice ruolo rivestito dai loro titolari in seno alle società, vale a dire amministratore o dipendente per effetto dell’esistenza di un rapporto di lavoro (e quindi possibili titolari di un reddito di lavoro dipendente o assimilato) e azionista/quotista per effetto della titolarità di tali strumenti (e quindi possibili titolari di reddito di natura finanziaria), era in dubbio se, alla luce del principio di omnicomprensività del reddito da lavoro dipendente ex art. 51 TUIR, dovesse prevalere la qualificazione dei connessi proventi come redditi di lavoro, piuttosto che come redditi (di capitale o diversi) di natura finanziaria.
L’art. 60 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50 ha risolto la situazione prevedendo che detti proventi siano “in ogni caso” ricondotti nel novero dei redditi di natura finanziaria e siano, dunque, qualificati come di capitale (se si tratta dei proventi derivanti dall’incasso di cedole) o diversi (se si tratta dei proventi derivanti dalla loro negoziazione) e non già come redditi di lavoro dipendente. Occorre tuttavia il rispetto di talune condizioni:
a) tutti i dipendenti e gli amministratori titolare dei titoli devono assumere un impegno di investimento complessivo che deve comportare un esborso effettivo pari ad almeno l’1% dell’investimento complessivo effettuato dall’OICR o del patrimonio netto (capitale sociale più riserve) nel caso di società od enti;
b) i proventi dei titoli che assicurano diritti patrimoniali rafforzati devono maturare solo dopo che tutti i quotisti dell’OICR o i soci della società hanno percepito un ammontare pari al capitale investito e un rendimento minimo previsto nel regolamento dell’OICR o nello statuto della società (c.d. hurdle rate), ovvero, in caso di cambio di controllo (o di gestione), gli altri quotisti o soci devono aver realizzato, con la cessione, un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito ed al suddetto rendimento minimo;
c) i titoli con diritti patrimoniali rafforzati devono essere detenuti dai dipendenti e dagli amministratori (o dai loro eredi) per un periodo non inferiore a 5 anni o, qualora precedente, al cambio del controllo della società o del gestore per l’OICR.
Con riferimento al requisito sub a), l’Agenzia delle entrate, con le Risposte n. 696, 698 e 710, ha chiarito che la carenza del requisito minimo dell’investimento non esclude aprioristicamente la natura finanziaria dei proventi da carried interest (in senso conforme si vedano le Risposte n. 435 e 565 del 2020 nonché le Risposte n. 472 e 482 del 2019). Anche in assenza di tale requisito, ma fermo il rispetto di quelli ulteriori (ovverosia la postergazione del riconoscimento del carried rispetto all’hurdle rate e un periodo minimo di investimento), i rendimenti di titoli con diritti patrimoniali rafforzati possono, dunque, essere inquadrati tra i redditi di natura finanziaria. Occorre, pertanto, che:
- l’ammontare degli importi investiti dai manager, pur non raggiungendo l’1% del capitale del fondo, risulti in ogni caso significativo in valore assoluto;
- l’assunzione del rischio derivante dall’investimento non sia esclusa dalla presenza di clausole di leavership, ovverosia dalla presenza di clausole che disciplinano le conseguenze economiche derivanti dalla cessazione dell’attività lavorativa;
- possa essere attribuito un diritto a beneficiare del carried interest anche a soggetti non legati alla società da rapporti di lavoro dipendente o di amministrazione (ciò, in particolare, costituisce un elemento atto ad escludere un collegamento tra detenzione di quote e prestazione lavorativa e al contempo a garantire l’allineamento di interessi e rischi tra i manager e gli altri investitori).
Con riferimento al requisito dell’investimento minimo, la Risposta n. 696/2021 chiarisce altresì che occorre considerare, come espressamente previsto dalla norma, anche l’ammontare sottoscritto in azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati, se i relativi sottoscrittori sono già titolari di diritti patrimoniali rafforzati. In altri termini, l’ammontare sottoscritto in azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati rileva, ai fini del computo del limite dell’1% dell’investimento complessivo, solo per coloro che sono anche titolari di diritti patrimoniali rafforzati. Ne consegue che, ai fini del computo dell’investimento minimo, non rilevano gli investimenti effettuati da dipendenti e amministratori che siano sottoscrittori di sole azioni ordinarie.
In assenza dell’investimento minimo, ma in presenza degli ulteriori requisiti della postergazione del riconoscimento del carried rispetto all’hurdle rate e del periodo minimo di investimento, secondo la Risposta n. 698/2021, i redditi degli strumenti finanziaria detenuti dai manager si qualificano come redditi di capitale qualora venga attribuito, così come nella specie, un diritto a beneficiare del carried interest anche a soggetti diversi dai dipendenti o amministratori della società (in senso conforme la Risposta n. 710/2021 ove ha “[assunto] particolare rilevo la circostanza che [gli strumenti finanziari] siano stat[i] sottoscritt[i] anche da investitori diversi dai manager, vale a dire dalla SGR nonché da ex manager”). Una simile situazione consente, per l’Agenzia, di escludere un collegamento tra detenzione di quote e prestazione lavorativa, tale per cui risulta garantito l’allineamento di interessi tra investitori e management e la correlata esposizione al rischio di perdita del capitale investito che contraddistingue l’investimento del management. Muovendo da queste considerazioni, l’Agenzia delle entrate ha, quindi, ritenuto che i redditi derivanti dagli strumenti finanziari oggetto d’interpello dovessero qualificarsi come redditi di natura finanziaria.
L’istante della Risposta n. 705/2021, società emittente titoli con diritti patrimoniali rafforzati, domandava, invece, all’Amministrazione finanziaria se l’operazione di conversione degli strumenti finanziari partecipativi (“SFP”) in azioni ordinarie, alla luce di quanto previsto dal proprio Regolamento SFP, si potesse qualificare come una corresponsione in natura di un reddito di capitale, comportando il conseguente obbligo di sostituzione d’imposta a carico della stessa. L’istante interrogava altresì l’Ufficio in ordine al trattamento fiscale da riservare alla successiva cessione delle suddette azioni ordinarie.
L’Agenzia delle entrate, in replica ai suddetti quesiti, ha ritenuto che la conversione degli SPF in azioni ordinarie rappresenti un evento realizzativo che si qualifica, ai fini fiscali, come reddito di capitale ai sensi dell’art. 44, co. 1, lett. e) del TUIR. Ne consegue che la società emittente, in occasione della suddetta conversione, è tenuta ad operare la ritenuta del 26%, prevista dall’art. 27, co. 1, DPR n. 600/1973, sul provento imponibile risultante pari alla differenza tra il valore normale delle azioni ricevute e il costo o il valore di sottoscrizione degli SFP. Secondo l’Ufficio, inoltre, la successiva cessione delle azioni ordinarie, ricevute in sede di conversione, si qualifica come reddito diverso ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. c) e c-bis) del TUIR.