Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 novembre 2021, n. 32947
Rapporto di lavoro, Trattamento di fine servizio,
Riliquidazione, Individuazione della base imponibile
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 26.2.2015, la Corte
d’appello dell’Aquila ha rigettato, per quanto rileva in questa sede, l’appello
proposto dall’INPS nei confronti della pronuncia di primo grado che aveva
dichiarato il diritto di A.L.C. alla riliquidazione del trattamento di fine
servizio ex art. 4, d.P.R. n. 1032/1973.
La Corte, in particolare, ha ritenuto l’infondatezza
dell’eccezione di prescrizione del diritto sollevata dall’INPS e, nel merito,
ha confermato la pronuncia di prime cure sia per ciò che atteneva
all’individuazione della base imponibile su cui calcolare gli interessi
composti relativi periodo intercorso tra la prima liquidazione (avvenuta a
seguito di dimissioni rassegnate il 1°.9.1986) e la seconda (successiva alla
riammissione a sua domanda e al collocamento in quiescenza per raggiunti limiti
d’età), sia per ciò che concerneva l’esclusione dalla medesima delle somme
oggetto di ritenute fiscali e previdenziali, siccome mai percepite dal
lavoratore.
Avverso tal statuizioni ha proposto ricorso per
cassazione l’INPS, deducendo due motivi di censura. M.R.L.C., erede di A.L.C.,
ha resistito con controricorso, successivamente illustrato con memoria, mentre
A.L.C., anch’ella erede di A.L.C., è rimasta intimata.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni
scritte.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, l’INPS denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 20, d.P.R. n. 1032/1973, per avere la Corte di
merito ritenuto l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione del diritto alla
riliquidazione del TFS: ad avviso di parte ricorrente, infatti, l’art. 4,
d.P.R. n. 1032/1973, attribuirebbe all’impiegato pubblico che sia cessato dal
servizio e sia stato successivamente riassunto un diritto alla differenza tra
quanto corrispostogli in occasione della prima liquidazione e quanto
complessivamente dovutogli in occasione della definitiva cessazione dal
servizio, restando conseguentemente escluso che la seconda liquidazione possa
costituire occasione utile per rimettere in discussione quanto in precedenza
corrispostogli, di talché, recando l’ultimo ordinativo di pagamento del TFS
relativo al primo periodo lavorativo la data del 15.12.1995, non avrebbe potuto
il dante causa dell’odierna controricorrente chiederne la riliquidazione in
occasione della liquidazione finale del TFS del 21.10.2008, essendosi nelle
more il diritto prescritto per decorso del termine quinquennale di cui all’art.
20, d.P.R. n. 1032/1973, cit.-
Con il secondo motivo, l’INPS lamenta violazione e
falsa applicazione degli artt. 4, d.P.R. n. 1032/1973, e 13, I. n. 1139/1957,
per avere i giudici di merito ritenuto che nessuna contestazione fosse stata
mossa alla consulenza tecnica disposta in prime cure in ordine alle modalità di
calcolo della base imponibile utile per il computo degli interessi composti da
portare in detrazione sul complessivo dovuto e, altresì, per aver ritenuto che
il recupero degli interessi legali sulle somme corrisposte in occasione della
prima liquidazione della buonuscita dovesse avvenire al netto e non al lordo
delle ritenute di legge di tipo fiscale e previdenziale.
Ciò premesso, il primo motivo è inammissibile.
Nel rigettare l’eccezione di prescrizione proposta
dall’INPS, i giudici di merito, dopo aver argomentato in ordine alla
consistenza del diritto alla riliquidazione di cui all’art. 4, d.P.R. n.
1032/1973, e aver spiegato che, concernendo quest’ultima entrambi i periodi di
servizio, nessuna prescrizione poteva dirsi maturata con riguardo alla
liquidazione relativa al primo periodo, hanno affermato che «l’eccezione appare
infondata per una ulteriore autonoma ragione, in considerazione della
circostanza che, anche a voler assumere quale dies a quo la data della
(contestata) liquidazione del 15.12.1995 (come opina l’INPS), non potrebbe non
rilevarsi come alla scadenza del successivo
quinquennio (15.12.2000) L.C.A. avesse già ripreso servizio, con la
conseguenza che non avrebbe potuto utilmente esercitare il diritto alla
riliquidazione del TFS (ed eventualmente contestarne l’ammontare) se non al
momento della cessazione del nuovo periodo lavorativo (come in effetti è avvenuto)»
(cfr. pag. 3 della sentenza impugnata).
Ora, è noto che la sentenza del giudice di merito,
che dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione esamini ed accolga
anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in
cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di
contraddittorietà della motivazione, che sussiste nel diverso caso di contrasto
di argomenti confluenti nella stessa rado decidendi, né contiene, quanto alla
causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum, insuscettibile
di trasformarsi nel giudicato, ma dà luogo, piuttosto, ad una pronuncia basata
su due distinte rationes decidendi, ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere
la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle
entrambe a pena d’inammissibilità del gravame (così, da ult., Cass. n. 17182
del 2020). E poiché, viceversa, nessuna censura ha mosso l’INPS nei confronti
della seconda delle rationes decidendi della statuizione impugnata con il primo
motivo di ricorso, la censura si rivela inammissibile: e non già per carenza
d’interesse, come pure si è da questa Corte spesso affermato (v. in tal senso
tra le più recenti Cass. n. 18741 del 2017, sulla scorta di Cass. S.U. n. 16602
del 2005), quanto piuttosto per essersi formato il giudicato interno in ordine
alla ratio decidendi non censurata (così, da ult., Cass. n. 13880 del 2020,
dando sul punto continuità a Cass. nn. 14740 del 2005 e 2970 del 1981).
Il secondo motivo, invece, è infondato.
Sul punto, va premesso che i giudici territoriali
hanno ritenuto che la consulenza tecnica disposta in prime cure (e la sentenza
che le sue conclusioni aveva recepito) non fosse stata contestata non già nella
sua interezza, ma limitatamente alla parte in cui il consulente (e di
conseguenza il giudice) aveva ritenuto «non dimostrata l’effettiva riscossione
del mandato di pagamento n. 551 del 15.12.1995 (relativo all’inserimento
dell’indennità integrativa speciale nella base di calcolo dell’indennità di
buonuscita), con conseguente formazione del giudicato interno sul punto» (così
la sentenza impugnata, pag. 3). E rispetto a tale specifica affermazione,
risultano affatto estranei i rilievi contenuti alle pagg. 5-6 del ricorso per
cassazione, dal momento che il tenore dell’atto di appello ivi pedissequamente
trascritto non induce ad alcuna diversa conclusione in ordine alla mancata
impugnazione del capo di sentenza che ha accertato la mancata riscossione del
mandato di pagamento n. 551 cit.- Ciò posto, parimenti infondata è la doglianza
concernente il meccanismo di computo degli interessi.
Al riguardo, va ricordato che l’art. 4, comma 1°,
d.P.R. n. 1032/1973, stabilisce che «Al dipendente statale, che abbia
conseguito il diritto all’indennità di buonuscita e venga riassunto, spetta la
riliquidazione dell’indennità per il complessivo servizio prestato, purché il
nuovo servizio sia durato almeno due anni continuativi. La riliquidazione viene
effettuata sull’ultima base contributiva. Dal nuovo importo viene detratto
quello dell’indennità già conferita e dei relativi interessi composti al saggio
annuo del 4,25 per cento per il periodo, computato in anni interi per difetto,
intercorrente tra la prima attribuzione e quella definitiva».
Ora, ad avviso dell’INPS, il computo degli interessi
legali sulla prima liquidazione dell’indennità dovrebbe avvenire assumendo
quale base di calcolo l’indennità corrisposta al lordo delle ritenute fiscali e
previdenziali: e ciò perché in tal senso deporrebbero sia l’art. 13, I. n.
1139/1957, sia l’art. 10, comma 1, lett. d-bis), T.U. n. 917/1986, che consente
al contribuente di portare in detrazione «le somme restituite al soggetto
erogatore, se assoggettate a tassazione in anni precedenti» o, in alternativa,
di richiedere il rimborso dell’imposta non dedotta.
Detto che tale ultima norma risulta manifestamente
inapplicabile ratione temporis al caso di specie, stabilendo l’art. 1, comma 174, I. n. 147/2013, che essa
si applica «a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2013», e
che nessuna indicazione nel senso voluto dall’INPS può ricavarsi dal testo
dell’art. 13, comma 1°, I. n. 1139/1957, che contiene una previsione pressoché
identica a quella del posteriore art. 4, d.P.R. n. 1032/1973, che sopra si è
ricordata, deve invece rilevarsi come la giurisprudenza di questa Corte abbia
ormai consolidato il principio secondo cui il datore di lavoro non può
pretendere di ripetere somme al lordo delle ritenute fiscali, allorché le
stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (così, da
ult., Cass. n. 13530 del 2019); e un’elementare applicazione del canone di
interpretazione analogica (art. 12 prel. c.c.) suggerisce che altrettanto debba
dirsi per il caso che qui è in discussione, non apparendo ragionevole che gli
interessi composti, che il pubblico dipendente è tenuto a pagare sull’importo
«dell’indennità già conferita», ex art. 4, d.P.R. n. 1032/1973, debbano essere
calcolati su somme che egli non ha in alcun modo percepito, essendo state
oggetto di ritenuta per ragioni fiscali e previdenziali: come correttamente
rilevato dai giudici territoriali, si tratta infatti di interessi
corrispettivi, la cui detrazione al saggio del 4,25% annuo si giustifica in
relazione al vantaggio che il dipendente ha conseguito per aver goduto dell’indennità
nel periodo intercorrente tra la prima liquidazione e quella definitiva, e non
possono quindi essere computati su importi che, in quanto oggetto di ritenute,
egli non ha mai avuto nella propria disponibilità.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del
giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da
dispositivo.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte
controricorrente, che si liquidano in € 3.200,00, di cui € 3.000,00 per
compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13.