Quando l’assenza per malattia pregiudica la guarigione o la sua tempestività si configura un illecito disciplinare sanzionabile con un licenziamento in tronco anche durante il periodo di comporto.
Nota a Cass. 1 ottobre 2021, n. 26709
Flavia Durval
Il lavoratore assente per malattia che svolga un’attività tale da far ritenere che lo stato di malattia sia stato fraudolentemente simulato, ovvero un’attività che, tenendo conto della patologia lamentata dal lavoratore e sulla base delle mansioni dal medesimo svolte, rischi di ritardare la guarigione e il rientro in servizio, pone in essere un comportamento che, contrastando con i doveri generali di correttezza e buona fede e con gli obblighi contrattuali specifici di diligenza e fedeltà, legittima il licenziamento per giusta causa anche durante il periodo di comporto.
Questa, l’affermazione della Corte di Cassazione 1 ottobre 2021, n. 26709, relativamente ad una vicenda in cui la società datrice di lavoro aveva contestato specificamente al dipendente di aver svolto, sin dai primi giorni di congedo, una serie di attività faticose ed intense, idonee a prolungare il periodo di malattia (in senso conforme, Cass. n. 3655/2019, in q. sito con nota di P. VELARDI; Cass. n. 10416/2017 e Cass. n. 21253/2012).
La Corte precisa inoltre che l’art.5, Stat. Lav., sul divieto di accertamenti del datore di lavoro circa la infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla possibilità di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non osta a che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore e, in genere, degli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate dal datore di lavoro “anche valorizzando ogni circostanza di fatto – pur non risultante da un accertamento sanitario – atta a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l’assenza, quale in particolare lo svolgimento da parte del lavoratore di un’altra attività lavorativa; analogamente è stata ritenuta la deducibilità dello svolgimento dell’attività lavorativa durante l’assenza per malattia quale illecito disciplinare sotto il profilo dell’eventuale violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare la guarigione o la sua tempestività” (v. già Cass. n. 11355/1995 e n. 1974/1994).
I paradigmi normativi di riferimento integrati dal licenziamento per giusta causa, chiariscono i giudici, sono tutt’affatto differenti da quelli che presidiano il licenziamento per superamento del periodo di comporto.
Come noto, infatti, le regole previste, per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, dall’art. 2110 c. c. (che prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali – di cui alle L. n. 604/1966, L. n. 300/1970 e L. n. 108/1990 – che su quella degli artt. 1256 e 1464 c.c.) “si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso”. Tali regole sono finalizzate a contemperare “gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore – in parte e per un tempo la cui concreta determinazione è rimessa gradatamente alla legge, ai contratti collettivi, agli usi, all’equità – il rischio della malattia del dipendente” ( v. Cass. n.1404/2012).
In questo quadro, il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente di legittimità del recesso, non essendo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, ne’ della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse. Diviene pertanto irrilevante ogni valutazione sulla condotta delle parti. E, dal momento che l’assenza rappresenta una mera conseguenza necessitata della malattia, non ha nemmeno rilievo, ai fini della legittimità del recesso, una indagine sulle cause della assenza stessa, che “nella logica dell’istituto devono ricondursi allo stato patologico del lavoratore, incompatibile con la prestazione lavorativa” (v. Cass. n. 19679/2005).