Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 novembre 2021, n. 36234
Licenziamento, Mancato rientro dalla malattia senza
comunicazione, Cessione di azienda, Operatività dell’art. 2112 c.c.
Rilevato che
1. La Corte di appello di L’Aquila confermava –
respingendo il reclamo principale della società S. s.p.a., oggi M.
Distribuzione s.p.a., e quello incidentale della lavoratrice – la sentenza di
primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità dei licenziamenti intimati a
V. D.D. il 15 giugno ed il 17 giugno 2015 da P.A. s.r.I., originaria datrice di
lavoro, e dichiarato la prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze
della società reclamante a far data dal 9/6/2015, ai sensi dell’art. 2112 c.c.,
condannando quest’ultima a risarcire il danno subito dalla lavoratrice nella
misura dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a
quello dell’effettiva reintegra nel posto di lavoro, oltre accessori e
regolarizzazione della posizione assistenziale e previdenziale.
2.La ricorrente aveva dedotto che nel novembre 2014
aveva iniziato a lavorare presso il supermercato S., all’interno del Centro
Commerciale P. A. di M., ed era stata assunta dalla P. A. s.r.l. come commessa
di negozio addetta al reparto salumeria; che il 9 giugno 2015 P. A. s.r.l.
aveva stipulato con S. s.p.a. un contratto di affitto di azienda con opzione di
acquisto avente decorrenza 10 giugno 2015, relativamente all’attività di
vendita nel supermercato in cui lavorava la dipendente; che il 3 giugno 2015
era stata assente per malattia fino all’11/6/2015; che il 12 giugno 2015 si era
presentata al lavoro e aveva trovato il negozio chiuso per ristrutturazione;
che, con lettera 15 giugno 2015, P. A. s.r.l. aveva comunicato il licenziamento
con decorrenza 12 giugno, motivato in ragione del mancato rientro dalla
malattia senza comunicazione, oltre che dal protrarsi dell’assenza per oltre
tre giorni; che il 17 giugno V. D.D. si era recata nuovamente presso il
supermercato, nel frattempo riaperto dalla società cessionaria, dove le era
stato impedito di riprendere a lavorare perché non annoverata tra i dipendenti
del nuovo gestore, sicché il 22 giugno scriveva alla S. s.p.a. per offrire
nuovamente la prestazione lavorativa; che con lettera 4 agosto, inviata ad
entrambe le società, la dipendente aveva impugnato il licenziamento.
3. La Corte territoriale rilevava preliminarmente
l’intervenuto passaggio in giudicato, per difetto di impugnazione da parte
della società intimante, della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva
sancito l’inefficacia e la nullità del licenziamento intimato alla D.D. da P.
A. s.r.l. (perché adottato da soggetto non legittimato, non più datore di
lavoro al momento dell’intimazione, stante l’operatività della cessione di
azienda; perché in violazione dell’art. 7 c. 2 St. Lav., in quanto non
preceduto dalla contestazione di addebito nonostante la natura disciplinare;
per insussistenza del fatto dedotto nella sua materialità, avendo la prova
testimoniale confermato che la lavoratrice aveva trovato chiuso il luogo di
lavoro).
4. Essendo il licenziamento intimato da P. A. s.r.l.
il presupposto cui erano correlate le domande della lavoratrice di accertamento
della prosecuzione del rapporto in capo a S. s.p.a., di condanna alla
reintegrazione nei confronti di quest’ultima società e di risarcimento dei
danni nei confronti di entrambe, la Corte escludeva la fondatezza del motivo di
reclamo attinente all’inapplicabilità nel processo del c.d. rito Fornero;
respingeva la censura della società attinente alla presunta pronuncia ultra
petita con riguardo alla statuita illegittimità del licenziamento intimato da
S. s.p.a. il 17 giugno, aderiva alla qualificazione del licenziamento come
orale operata dal giudice di primo grado, rispetto al quale riteneva non
ravvisabile un onere di impugnativa ai sensi dell’art. 32 c. 4 lett. c I. 183/2010.
5. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per
cassazione S. s.p.a. sulla base di nove motivi, illustrati con memoria.
6. Ha resistito V. D.D. con controricorso.
7. P. A.
s.r.l. non ha svolto attività difensiva.
Considerato che
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2103
c.c., osservando che dalle prove in atti risultava che, prima della cessione di
ramo di azienda, era stata comunicata alla lavoratrice l’assegnazione ad altra
struttura organizzativa rispetto al supermercato S., sicchè ella non poteva
considerarsi addetta al ramo di azienda al momento della cessione.
1.2. Deduce con il secondo motivo violazione e falsa
applicazione dell’art. 1 c. 47 ss. L. 92/2012 per erronea applicazione del rito
Fornero, osservando che la D.D. aveva chiesto in primo luogo e come domanda
principale l’accertamento della prosecuzione del rapporto di lavoro con S.
s.p.a. ex art. 2112 c.c. e che tale domanda era necessariamente autonoma, per
avere diversa causa petendi rispetto a quella di licenziamento, evidenziando la
distinzione cronologica e logica tra le due azioni.
1.3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. nonchè dell’art. 18 I. n.
300/70, osservando che era dato pacifico che l’affitto del ramo di azienda
fosse antecedente rispetto al licenziamento, il quale era tamquam non esset per
S. s.p.a., sicchè la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere applicabile il
solo art. 2112 c.c. e non l’art. 18 S.L., mentre, invertendone l’ordine di
applicazione, lì ha di fatto violati entrambi: violato l’art. 18 S.L.,
applicandolo ad un’ipotesi di cessione di ramo d’azienda, violato l’art. 2112
c.c. non applicandolo direttamente e in via principale alla fattispecie.
1.4. Con il quarto motivo si denuncia violazione
dell’art. 112 c.p.c. per avere la sentenza attribuito ai fatti una
qualificazione erronea nell’interpretare le domande: la lavoratrice non aveva
addotto un licenziamento orale, ma aveva allegato la circostanza che “le
veniva impedito di tornare a lavorare in quanto non annoverata tra i dipendenti
del nuovo gestore” al solo fine di dimostrare la messa in mora di S. s.p.a.
per il pagamento delle retribuzioni perdute.
1.5. La ricorrente deduce ancora violazione e falsa
applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., per avere la sentenza gravata basato
il preteso licenziamento orale su elementi di fatto in alcun modo risultanti
dagli atti di giudizio.
1.6. Con il sesto motivo deduce violazione degli
art. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 32 I. n. 183/2010: sulla premessa che l’art.
31 I. 183/2010 postula la necessità di impugnare autonomamente il trasferimento
di azienda rispetto al licenziamento, assume che l’impugnativa del
trasferimento sarebbe stata proposta con lettera 22/6/2015 ed imputa alla
sentenza di avere negato il carattere impugnatorio di detta missiva,
erroneamente ritenendo che la lettera del 3/6/2015 fosse al tempo stesso impugnativa
di trasferimento e del licenziamento.
1.7. Con il settimo motivo la ricorrente rileva, sul
presupposto che l’art. 32 I. 183/2010 postula la necessità di impugnare
autonomamente il trasferimento di azienda, che la Corte avrebbe mancato di
pronunciare la decadenza per mancata osservanza del termine di 180 giorni
(ricorso del 29/1/2016), essendo erroneamente qualificate le lettere di
12/6/2015 e del 22/6/2015 come missive con cui il lavoratore avrebbe posto la
prestazione lavorativa a disposizione di entrambe le società con la prima e
della cessionaria con la seconda.
1.8. Con l’ottavo motivo si deduce che non era stato
esaminato il fatto, pure allegato e comprovato mediante produzione della
relativa documentazione (LUL), che la società contava di meno di quindici
dipendenti.
1.9. Con il nono motivo si deduce violazione e falsa
applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., avendo la Corte territoriale omesso
di valutare la predetta documentazione attinente al numero dei dipendenti.
2.1. Il primo motivo è inammissibile. Esso poggia su
una premessa errata, poichè la Corte, sulla scorta del compiuto accertamento in
fatto, ha acclarato che la società cessionaria non gestiva all’interno del
centro commerciale altri punti vendita di generi alimentari casalinghi oltre
quello cui era addetto la lavoratrice, così escludendo che il presunto cambio
di mansioni comunicato dalla cedente potesse qualificarsi come trasferimento
della medesima a diversa unità produttiva. Ne discende che la censura, pur
formulata sub specie violazione di legge, tende in realtà a una inammissibile
rivalutazione dei fatti e delle prove non consentita in sede di legittimità
(Cass. n. 8758 del 04/04/2017, SU 34476 del 27/12/2019).
2.2. Quanto al secondo motivo, la censura contrasta
con la qualificazione della domanda da parte del Giudice di merito, il quale
aveva dato rilievo a tal riguardo alla chiesta reintegrazione, ritenendo
corretta l’applicazione nel giudizio del rito c.d. Fornero. Va premesso che
l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano
un tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito (ex multis
Cass. 30684 del 21/12/2017, Cass. n. 7322 del 14/03/2019), da compiersi
mediante indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle
domande sottoposte alla sua cognizione, sulla scorta non già del tenore
meramente letterale degli atti, ma del reale contenuto della pretesa fatta
valere in giudizio. Ciò che più rileva, tuttavia, è che la ricorrente neppure
evidenzia che il rito applicato le abbia in qualche modo arrecato pregiudizio
sotto il profilo dell’esplicazione del diritto di difesa (ex multis Cass. n.
23682 del 10/10/2017), sicchè ogni eventuale errore attinente al rito adottato
resta priva di rilevanza.
2.3. In ordine al terzo motivo, risulta del tutto
coerente la sequenza logica della sentenza impugnata: l’avvenuta cessione di
azienda è tenuta in considerazione ai fini della valutazione circa
l’illegittimità del licenziamento intimato da P. A. s.r.I., soggetto che al
momento della intimazione non rivestiva più la qualità di datore di lavoro,
mentre la stessa cessione costituisce presupposto per la ritenuta prosecuzione
del rapporto nei confronti della cessionaria e, va tenuto in considerazione,
quindi, per l’intervenuto licenziamento orale.
2.4. Il quarto motivo è inammissibile poichè la
ricorrente non allega e trascrive, nè documenta adeguatamente i termini in cui
la domanda è stata formulata, così da poter cogliere la dedotta estraneità
della decisione rispetto alla pretesa fatta valere, dovendosi inoltre ribadire,
a fondamento del giudizio di inammissibilità della censura, quanto già rilevato
sub 2.2. con riferimento ai poteri di qualificazione della domanda riservati al
Giudice del merito.
2.5. Allo stesso modo si rivela inammissibile il
quinto motivo, sia per le ragioni già evidenzate con riferimento alla censura
che precede, sia perchè con esso si propone un non consentito apprezzamento
delle prove raccolte nel giudizio di merito.
2.6. Possono essere trattate congiuntamente le
censure di cui ai motivi sub 6 e sub 7, stante l’intima connessione. Al
riguardo si osserva che sul punto relativo alla ritenuta confluenza in un’unica
missiva di due manifestazioni di volontà si palesa l’evidente illogicità della
censura, ben potendo un unico atto contenere due manifestazioni di volontà
differenti. Quanto all’interpretazione del contenuto delle missive, poi, va
rilevato che la stessa è rimessa, come questione di fatto, al sindacato del
Giudice del merito. In ogni caso occorre osservare che i due motivi di ricorso
sono infondati sulla base del rilievo che l’impugnativa stragiudiziale deve
ritenersi necessaria solo con riferimento al licenziamento e correttamente è
stata effettuata nei confronti della
datrice di lavoro originaria, mentre non era necessaria in relazione ad una
azione di richiesta di applicazione (e non di impugnazione) dell’operatività
dell’art. 2112 c.c. La lavoratrice, infatti, non si è opposta al trasferimento,
anzi ha fatto istanza per il riconoscimento dell’operatività del medesimo,
rispetto alla quale era funzionale la messa a disposizione della propria
prestazione nei confronti del novo datore di lavoro (cfr. Cass. n. 28750 del
07/11/2019).
6.7. Gli ultimi due motivi di ricorso sono
inammissibili poiché entrambi non denunciano l’omesso esame di un fatto storico
nei termini precisati da S.U. 8053/2014, ma mirano piuttosto,
inammissibilmente, a una valutazione degli elementi istruttori difforme da
quella proposta dal giudice di merito peraltro in una ipotesi di doppia decisione
conforme in fatto.
6.8. Il ricorso, conclusivamente, deve essere
rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 5.200,00, di cui € 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma del comma
1- bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.