Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2021, n. 33632

Pubblico impiego contrattualizzato, Dimisioni, Impugnazione
– Stato di incapacità naturale all’atto di presentazione delle dimissioni

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza n.
760 del 2017, pronunciando sull’impugnazione proposta da M.E., nei confronti
dell’Università del Salento, avverso la decisione emessa tra le parti dal
Tribunale di Lecce, ha rigettato l’appello.

2. Il lavoratore aveva agito in giudizio per la
condanna dell’Amministrazione alla immediata reintegra nelle funzioni di
Direttore generale, nonché, in ogni caso, al risarcimento nella misura di euro
600.000,00, oltre accessori di legge, o nell’entità ritenuta di giustizia. Il
Tribunale rigettava la domanda.

3. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre il lavoratore prospettando cinque motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso l’Università del
Salento.

5. Il ricorrente ha depositato memoria in prossimità
dell’udienza.

6. Il Procuratore generale ha deposito conclusioni,
scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

 

Ragioni delle decisioni

 

1. Occorre premettere che, come ricapitolato nella
sentenza di appello, il lavoratore aveva agito in giudizio per la condanna
dell’Amministrazione alla immediata reintegra nelle funzioni di Direttore
generale, nonché, in ogni caso, al risarcimento nella misura di euro
600.000,00, oltre accessori di legge, o nell’entità ritenuta di giustizia.

Deduceva di aver stipulato un contratto di lavoro
con l’Università del Salento per lo svolgimento delle funzioni amministrative
di Direttore generale nel periodo 1 ° luglio 2012-30 giugno 2016, rinnovabile
per ulteriori quattro anni.

Il 20 ottobre 2012 la Gazzetta del Mezzogiorno,
nella cronaca di Lecce, pubblicava un articolo intitolato “Lusinghe e forti
pressioni. Così ti gestisco l’Università di Leccè”, nel quale si riportava il
contenuto di presunte registrazioni effettuate da un sindacalista.

Nello stesso giorno il rettore dell’Università
prendeva contatti con il lavoratore a mezzo telefono, comunicandogli che per
effetto dei suddetti articoli lo avrebbe sospeso dalle funzioni, chiedendogli
contestualmente di dimettersi. Il mattino del 22 ottobre 2012 gli veniva
comunicato il D.R. n. 1233 del 22 ottobre 2012 di sospensione cautelativa dal
servizio. Il 23 ottobre 2012 il Consiglio di amministrazione dell’Ateneo
adottava la delibera n. 180 che prolungava fino ad eventuali dimissioni il
periodo di sospensione cautelare, invitando il lavoratore a rassegnare le
dimissioni entro il 31 ottobre 2012. In data 24 ottobre 2012, il lavoratore,
sconvolto per quanto stava accadendo rassegnava le dimissioni dall’incarico con
effetto dal Io novembre 2012, unitamente ad un messaggio di saluto alla
comunità accademica. Recuperato il controllo delle proprie facoltà cognitive,
il lavoratore consegnava al rettore la nota in data 30 ottobre 2012 di revoca
delle dimissioni, poi inviata con raccomandata il 10 novembre 2012 e ricevuta
in Ateneo il 13 novembre 2012. In data 31 ottobre 2012 il lavoratore riceveva
telegramma nel quale gli si comunicava che con D.R. n. 1256 del 30 ottobre 2012
le dimissioni erano state accettate e che il rapporto era da considerarsi
risolto con effetto dal Io novembre 2012.

Con raccomandata del 22 novembre 2012 il lavoratore
riferiva che le dimissioni erano state coartate e comunque erano state revocate
sin dal 30 dicembre (recte: ottobre) 2012. Con la stessa nota chiedeva di
essere reintegrato nelle funzioni di Direttore generale.

Quindi il lavoratore con il ricorso introduttivo del
giudizio aveva prospettato l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione
evidenziando: l’illegittimità del provvedimento di sospensione, in contrasto
con gli artt. 10 e 11 del CCNL di settore, con l’art. 97 Cost., e con la legge
n. 241 del 1990, e senza la contestuale attivazione di procedimento
disciplinare: egli non era stato destinatario di misure restrittive della
libertà personale, non aveva ricevuto comunicazione di avvio di procedimento
disciplinare, non aveva potuto far valere le proprie ragioni, le dimissioni
erano frutto di uno stato di incapacità naturale. Tanto comportava
l’inefficacia delle dimissioni ai sensi degli artt. 428 e 1425 cod. civ., che
peraltro erano state revocate prima che fosse completato l’iter di
accettazione. L’Amministrazione aveva tenuto un atteggiamento vessatorio e
discriminatorio.

Il Tribunale aveva respinto la domanda.

2. Nel rigettare l’appello del lavoratore il giudice
di secondo grado ha affermato, in particolare, quanto segue.

Le dimissioni costituiscono negozio unilaterale
recettizio che determinano la fine del rapporto di lavoro allorché vengono a
conoscenza del datore di lavoro, sicché non occorre l’accettazione di
quest’ultimo.

Non è compatibile con il regime del pubblico impiego
contrattualizzato l’art. 124 del dPR n. 3 del 1957.

L’atto di dimissioni può essere impugnato dal
lavoratore in quanto compiuto in stato di incapacità di intendere o volere
(art. 1425 cod. civ.), e negli altri casi previsti dagli artt. 1427 e 1439 cod.
civ., dettati per i contratti e applicabili agli atti unilaterali.

Nella specie, il lavoratore non aveva formulato
apposita domanda di annullamento delle dimissioni, ma non aveva neppure
allegato situazioni abnormi, tali da far scemare la capacità di intendere e di
volere al momento della sottoscrizione dell’atto di dimissioni.

L’impugnazione del lavoratore nella parte in cui
pretendeva un sindacato in ordine alla motivazione della sentenza del Tribunale
circa lo stato di incapacità naturale all’atto di presentazione delle
dimissioni, andava circoscritta ai fatti costitutivi della pretesa fatta valere
con il ricorso introduttivo.

Premesso che l’incapacità naturale va verificata al
momento del compimento dell’atto che si assume pregiudizievole, la Corte
d’Appello ripercorreva le vicende di causa. Come di seguito riportato.

In data 20 ottobre 2012 sulla Gazzetta del
Mezzogiorno veniva pubblicato un articolo che faceva riferimento al contenuto
di presunte registrazioni di conversazioni tra un sindacalista e il dirigente
appellante, dove, tra l’altro, veniva riportato: “Tu adesso, in questo
weekend, domani e venerdì, tra sabato e domenica dopo che ti fai i bagni a mare
dici “ma che (…) me ne frega a me di rimanere sempre controcorrente, fammi
seguire il consiglio del mio Direttore. Mi mandi questa lettera. Dicendo tu
senza creare… questi casini. Mi ripugna doverti sollevare per altri fatti,
inventarmi altre strategie, fare destrutturazioni è defatigante. Invece con una
soluzione del genere tu mi dai questo piacere, immediatamente tu entri, cambi
di libro…” D.P. lo interrompe ” Dal libro nero al libro bianco”. “Si
vieni sotto la mia protezione e comincia ad avere un periodo tranquillità, ti
occupi delle cose che ti piacciono, ti faccio completare gli studi, ti mando in
giro a fare formazione”.

La Corte d’Appello rilevava che la gravità del
contenuto del suddetto articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno
inducevano l’Università del Salento. con nota del 22 ottobre 2012 n. 1233, per
il tramite del rettore a sospendere il Direttore generale.

Il Consiglio di Amministrazione, con atto n. 180 del
23 ottobre 2012, deliberava: 1) di prolungare fino ad eventuali dimissioni il
periodo di sospensione, invitandolo a rassegnare le proprie dimissioni entro il
31 ottobre 2012 ed in tal modo evitando l’attivazione delle procedure di
risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 10 del contratto stesso; 2) nel
caso di mancata presentazione delle dimissioni e comunque non oltre il 1°
novembre 2012, di dare mandato al rettore di avviare le procedure volte alla
risoluzione del contratto per gravi irregolarità nell’adempimento dei compiti
affidatigli dallo Statuto di Ateneo ai sensi dell’art. 10 del suddetto
contratto.

Con nota del 24 ottobre 2012 il M. comunicava: ‘‘Con
la presente rassegno le dimissioni volontarie dall’incarico di direttore
generale dell’Università del Salento con decorrenza dal primo novembre 2012. In
pari data riprenderò servizio nel mio ruolo dirigenziale presso l’Università
degli Studi di Bari Aldo Moro. In allegato le invio un messaggio di saluto alla
Comunità accademica di cui prego la signoria vostra di autorizzare ampia
diffusione in data odierna”.

La Corte d’Appello ha affermato che la circostanza
secondo cui il lavoratore si fosse dimesso nel timore della risoluzione del
contratto adopera dall’Università non poteva comportare l’annullamento
dell’atto, dovendosi in ogni caso accertare se il diritto di recesso era stato
esercitato in uno stato di diminuite capacità intellettive e volitive o fosse
frutto di una opzione cosciente e ponderata fra le dimissioni e la risoluzione
prospettata.

Nella fattispecie gli elementi allegati non erano
idonei a dimostrare la diminuzione delle sue facoltà intellettive e volitive.

La documentazione e i fatti come sopra descritti
evidenziavano che la sospensione cautelare ad opera del Rettore aveva avuto
durata brevissima, un giorno, ed era stata ratificata il giorno successivo dal
Consiglio di amministrazione.

Il deliberato di quest’ultimo prevedeva una
procedura di raffreddamento (sette giorni) integrante uno spatium deliberandi
che permetteva al lavoratore, superato il turbamento iniziale, di riflettere
sulle sue scelte professionali e di decidere in modo ponderato se optare per un
altro incarico, cosa di fatto avvenuta, senza ricevere alcun nocumento di
immagine e della posizione dirigenziale che sarebbe rimasta indenne dalla
vicenda, o affrontare il procedimento disciplinare in esito incerto.

La documentazione evidenziava altresì l’intento di
rispettare l’onorabilità del lavoratore fino a quel momento oggetto solo di
articoli di stampa che per come riportati sopra e per come strutturati erano in
sé palesemente idonei a gettare discredito sull’andamento e la gestione
apparentemente anomala con le controparti sindacali.

Lo stato di incapacità naturale che era stato
dedotto nell’atto introduttivo andava escluso proprio in ragione della
procedura di raffreddamento descritta Ed anche perché era rimasto indimostrato,
in difetto di prova vertente su ulteriori e necessarie circostanze di fatto da
documentare.

Andava poi evidenziato che ogni questione sulla
coercizione delle dimissioni era esclusa dal comportamento suddetto
dell’Università e restava assorbita dalle dimissioni liberamente rassegnate con
contestuale assunzione di altro incarico.

La lettera di dimissioni e l’allegato messaggio di
saluto nella loro compiutezza sintattica, espositiva e contenutistica,
escludevano la sussistenza di uno stato di incapacità naturale o di costruzione
del lavoratore al momento della loro sottoscrizione.

La Corte d’Appello ha messo in evidenza che il
messaggio alla Comunità accademica riportava: “accolgo l’invito del Consiglio
di amministrazione a rimettere le dimissioni per spirito di responsabilità nei
confronti dell’Università del Salento … Purtroppo il clamore l’aggressione
gratuita alla mia persona impongono questa decisione a segno di tutela
dell’Istituzione che sta subendo un vero e proprio atto di sciacallaggio
mediatico… Ho voluto scegliere l’alternativa più utile al bene dell’Università
pur non avendo alcun obbligo…”.

Il giudice di secondo grado rileva che per la
realizzazione di un parziale annullamento delle facoltà mentali sarebbe stato
necessario il riscontro di qualche altro elemento, qualche indizio specifico
legato a reazione abnormi e realmente inspiegabili, nel caso di specie non
allegate ne dimostrate. Non erano ravvisabili effetti coercitivi o intimidatori
nell’invito a rassegnare le dimissioni né l’appellante aveva allegato la
sussistenza di una situazione psicopatologica tale da poter compromettere anche
in via transitoria le sue capacità di intendere e di volere.

Quanto alla prova per interpello del nuovo rettore,
e a quella testimoniale reiterata in appello, non potevano risultare utili
perché ciascuna articolata su circostanze documentate su fatti, non a diretta
conoscenza del nuovo rettore e su capitoli non rilevanti ai fini del decidere,
come l’avere il rettore reiterato pubblicamente che il M. gli aveva comunicato
la volontà di ritirare le dimissioni. Neppure poteva assumere rilievo la revoca
delle dimissioni da parte dell’appellante, atteso l’effetto immediato della
risoluzione del rapporto nel momento in cui le dimissioni vengono a conoscenza
il datore di lavoro.

Quanto alla prospettata illegittimità della
sospensione cautelare, le relative doglianza non erano fondate, in quanto la
stessa si caratterizza per la sua strumentalità rispetto al procedimento
disciplinare e a quello penale, avendo lo scopo di consentire la tutela di
interessi pubblici messi a rischio della gravità dei fatti oggetti di
accertamento anche in termini di addebitabilità al dipendente. La Corte
costituzionale aveva confermato che la sospensione si collocava con in una fase
antecedente all’accertamento della responsabilità disciplinare. Conseguenza dell’impossibilità
di qualificare la sospensione cautelare come sanzione disciplinare era dunque
l’inapplicabilità dei principi che governano quest’ultima anche sotto l’aspetto
procedimentale.

3. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi
di ricorso.

Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (art. 360, n.3, cod. proc. civ.), in relazione
all’art. 124 del dPR n. 3 del 1957 e all’art. 15 delle disp. prel. cod. civ.,
con riferimento all’art. 71 del d.lgs. n. 165 del 2001, ed agli allegati A e B
del medesimo d.lgs. Ulteriori violazione e falsa applicazione di norme di
diritto (art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione agli artt.
1321,1326,1328 e 1372, ss., cod. civ.).

Il ricorrente rileva che le dimissioni erano state
revocate prima che fosse completato l’iter amministrativo di accettazione,
istituto quest’ultimo a cui dava rilievo la giurisprudenza amministrativa,
circostanza di cui dovrebbero essere investite le Sezioni Unite, e che assumeva
rilievo nel caso di dimissioni indotte.

La Corte d’Appello erroneamente aveva ritenuto
abrogato l’art. 124 del dPR n. 3 del 1957. diretto a contemperare interessi
pubblici e privati.

Inoltre, atteso il preavviso da riconoscere
all’Università, in base al contratto, le dimissioni non potevano operare ex sé,
ma solo a seguito di accettazione, che tuttavia si era perfezionata dopo la
revoca delle stesse.

4. Il motivo non è fondato.

I rapporti di lavoro dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche in regime di lavoro pubblico contrattualizzato, quale
è il rapporto di lavoro in esame, sono disciplinati ai sensi dell’art. 2, comma
2, del d.lgs. n. 165 del 2001 (ma in precedenza art. 2, comma 2, del d.lgs. n.
29 del 1993), dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice
civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte
salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono
disposizioni a carattere imperativo.

Non trova quindi applicazione nella specie l’art.
124 del dPR n. 3 del 1957, che la Corte d’Appello correttamente ha ritenuto
incompatibile con la privatizzazione del rapporto di impiego.

Tale disposizione persiste con riguardo ai rapporti
di lavoro pubblico non privatizzato, rispetto ai quali sussiste la giurisdizione
del giudice amministrativo e assume peculiare rilievo la giurisprudenza
amministrativa.

Giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite (si
v., ex multis, Cass., S.U., n. 7000 del 2005) ha affermato che l’art. 63, comma
4 del d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 (art. 6 del d.lgs. n. 29 del 1993, come
sostituito prima dall’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1993 e poi dall’art. 29 del
d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall’art. 18 del d.lgs. n.
387 del 1998) prevede che restano devolute al giudice amministrativo, in sede
di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di
cui all’art. 3, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi.
I rapporti di lavoro di cui all’art. 3 sono quelli del personale in regime di
diritto pubblico, che rimane disciplinato dai rispettivi ordinamenti.

Tanto premesso, si rileva che, come statuito da
questa Corte (Cass., n. 57 del 2009; Cass., n. 5413 del 2013), a seguito
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, essendo il cd. rapporto di
pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle
leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in
quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del
lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a
determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui vengano a
conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di
quest’ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci,
di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione.

L’amministrazione, dunque, non può rigettare
l’istanza del dipendente di dimissioni, ma si deve limitare ad accertare che
non esistano impedimenti legali alla risoluzione del rapporto.

È stato, altresì, affermato (v., Cass., n. 3267 del
2009) che, proprio in ragione dell’effetto immediato di tali dimissioni, la
successiva revoca è inidonea ad eliminare l’effetto risolutivo già prodottosi,
restando peraltro salva la possibilità, per le parti, in applicazione del
principio generale di libertà negoziale, di porre nel nulla le dimissioni con
la conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso, e con
l’onere, in tal caso, di fornire la dimostrazione del raggiungimento del
contrario accordo, a carico del lavoratore.

Le dimissioni del lavoratore costituiscono un
negozio unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto
di lavoro dal momento in cui l’atto venga a conoscenza del datore di lavoro e
indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle (Cass., n. 9575
del 2011). Ne consegue che, una volta risolto il rapporto, per la sua
ricostituzione è necessario che le parti stipulino un nuovo contratto di
lavoro, non essendo sufficiente ad eliminare l’effetto risolutivo che si è
prodotto la revoca delle dimissioni da parte del lavoratore, neppure se la
revoca sia manifestata in costanza di preavviso.

Con la recente sentenza n. 14993 del 2021, questa
Corte, oltre a ribadire i principi sopra enunciati (è richiamata Cass., n. 3267
del 2009), ha poi affermato che le disposizioni della legge n. 92 del 2012, ed
in particolare quelle relative alla procedura di convalida delle dimissioni ivi
prevista, non si applicano automaticamente al pubblico impiego ma necessitano
di uno specifico intervento legislativo di armonizzazione allo stato non
intervenuto.

Quanto al preavviso, va osservato che il mancato
rispetto dello stesso, di cui non vi è doglianza da parte dell’Amministrazione,
può trovare compensazione in una misura indennitaria (Cass., n. 23018 del
2014).

5.  Con il
secondo motivo di ricorso è prospettata: A) la nullità della sentenza (art.
360, n.4, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 99, 112, 276, 277 e 345,
cod. proc. civ, nonché all’art. 2907 cod. civ.). Violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (art. 360, n.3. cod. proc. civ., in relazione
agli artt. 99, 112, 276, 277 e 345, cod. proc. civ., nonché all’art. 2907 cod.
civ.) Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di
discussione tra le parti (360, n. 5, cod. proc. civ.); B) Violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione
agli artt. 3 e 97, Cost., nonché agli artt. 428 e 1425, cod. civ., applicabili
agli atti unilaterali ai sensi dell’art. 1324, cod. civ.).

Assume il ricorrente, riportando tra l’altro alcuni
stralci del ricorso di primo e secondo grado, che la Corte non avrebbe
considerato quegli elementi di fatto e di diritto addotti nei propri scritti
difensivi, che andavano al di là di quanto virgolettato in sentenza e non si
sarebbe pronunciata su una domanda – annullamento per incapacità naturale-
ritualmente proposta in giudizio.

In proposito rappresenta il lavoratore, nello
svolgimento del motivo, che vi era uno stato di prostrazione psicologica ben
visibile da parte dell’università e atteggiamenti intimidatori da parte del
datore di lavoro che manifestando la volontà di risolvere il rapporto aveva
lasciato al lavoratore la sola alternativa delle dimissioni per evitare il
licenziamento, che avrebbe avuto effetti disastrosi per il proprio futuro
lavorativo. Vi era inoltre un atteggiamento vessatorio e discriminatorio
dell’Amministrazione nei confronti del ricorrente che si evidenziava sia comunicati
stampa adottati prima che il diretto interessato fosse ascoltato sia dal
diverso trattamento riservato ai sindacalisti.

6. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non
fondato.

Occorre rilevare che la Corte d’Appello, come si
evince dalla motivazione sopra riportata, pur affermando che non vi sarebbe
stata la proposizione di azione di annullamento delle dimissioni, svolge il
sindacato sulla sentenza del Tribunale circa la sussistenza dello stato di
incapacità naturale in ragione dei fatti costitutivi della pretesa fatta valere
con il ricorso introduttivo, ed esamina la questione devoluta se le dimissioni
erano state eterodeterminate dal comportamento coercitivo della parte
datoriale.

Come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 1070
del 2016) l’annullamento delle dimissioni del lavoratore perché presentate in
stato di incapacità naturale presuppone non solo la sussistenza di un quadro
psichico connotato da aspetti patologici, ma anche l’incidenza causale tra
l’alterazione mentale e le ragioni soggettive che hanno spinto il lavoratore al
recesso.

Si è altresì precisato che (Cass., 30126 del 2018)
ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di
volere ex art. 428 c.c., costituente causa di annullamento del negozio, non
occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo
sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una
volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione
del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per
compiere.

Il relativo accertamento deve essere particolarmente
rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia al posto di lavoro –
bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicché occorre verificare che da parte
del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina
volontà di porre fine al rapporto (Cass., n. 17997 del 2011).

La valutazione in ordine alla gravità della
diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è
censurabile in cassazione se adeguatamente motivata, dovendo l’eventuale vizio
della motivazione emergere, in ogni caso, direttamente dalla sentenza e non dal
riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass., n. 515
del 2004).

In proposito va rilevato che è applicabile alla
fattispecie l’art. 360. n. 5, cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge
7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’ 11.8.2012), di
conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede
di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte
(Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del
recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si
afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ., ha la
finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di
motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e,
quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di
cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris,
se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi,
rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge
costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in
sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere
dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta
mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze
istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della
propria tesi.

Nella specie la Corte d’Appello ha fatto corretta
applicazione dei suddetti principi, ritenendo con motivazione che ripercorre i
fatti di causa ed esamina le risultanze istruttorie, che non si fosse in
presenza di incapacità naturale e che non vi era stata coercizione, in
particolare tenendo conto del periodo di raffreddamento e del saluto
indirizzato dal lavoratore alla Comunità accademica.

Il giudice di secondo grado non ha ammesso i mezzi
istruttorii in ragione di una argomentata valutazione circa la mancanza di
rilevanza degli stessi, non adeguatamente contestata in ragione della
giurisprudenza di legittimità sopra richiamata sul vizio ex art. 360, n. 5.
cod. proc. civ.

Dunque, le censure di violazione di legge non sono
fondate, atteso che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione di
principi sopra richiamati, mentre le ulteriori doglianze con cui il ricorrente
illustra la propria ricostruzione delle vicende per cui è causa, chiedendo una
rivalutazione delle risultanze probatorie e dell’accertamento svolto dalla
Corte d’Appello, nonché si duole della mancata ammissione di prove, sono
inammissibili.

7. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata la
violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n. 3, cod. proc.
civ., in relazione agli artt. 156 e 329, cod. proc. civ., e ai principi in
materia di acquiescenza). Ulteriore violazione e falsa applicazione di norme di
diritto (art. 360, n. 3, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 27, comma 2,
97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 6, comma 2,
CEDU, nonché agli artt. da 1 a 3 e 7 ssg., della legge n. 241 del 1990, agli
artt. 1175, 1362, ssg., 1374 e 1375, cod. civ., e agli artt. 3 e 4 della legge
n. 97 del 2001). Violazione e falsa applicazione di norme di contratti
collettivi e accordi nazionali di lavoro (art. 360, n.3, cod. proc. civ., in
relazione agli artt. 10 e 11 CCNL relativo all’Area VII Università, 20062009,
biennio economico 2006-2007). Omesso esame circa un fatto decisivo per il
giudizio (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.).

Il ricorrente censura la statuizione con la quale la
Corte d’Appello ha affermato la non fondatezza della dedotta illegittimità della
sospensione cautelare anche ai fini risarcitori. Rileva che la Corte d’Appello
mentre ha affermato la strumentalità della sospensione rispetto al procedimento
disciplinare, ha statuito che la stessa non costituisce sanzione disciplinare.

Non vi era stata acquiescenza alla sospensione, come
affermato dalla sentenza di primo grado la cui motivazione era richiamata dalla
Corte d’Appello, e comunque non avevano trovato applicazione gli artt. 10 e 11
CCNL che regolavano la sospensione cautelare nel corso del procedimento
disciplinare e penale.

Inoltre, le modalità con cui la sospensione era
stata adottata mostravano un dispregio delle regole dQÌVagere amministrativo,
art. 97 Cost., e legge n. 241 del 1990.

8. Il motivo è inammissibile per difetto di
rilevanza.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare
(fra le più recenti Cass., nn. 9304 del 2017, 10137 del 2018, 20708 del 2018)
ove l’amministrazione, valutati i contrapposti interessi in gioco, opti per la
sospensione facoltativa dal servizio in via cautelativa, in difetto di una
diversa espressa previsione di legge o di contratto, opera il principio
generale secondo cui «quando la mancata prestazione dipenda dall’iniziativa del
datore di lavoro grava su quest’ultimo soggetto l’alea conseguente all’accertamento
della ragione che ha giustificato la sospensione» ( Corte Cost. n. 168/1973).

Quando nella sede propria degli accertamenti
definitivi emerga che la sospensione non era giustificata, in tutto o in parte,
non può essere addebitabile al dipendente l’interruzione del rapporto di
servizio ed il mancato adempimento della prestazione dovuta a tenore dell’art.
1218 cod. civ.

Pertanto il lavoratore ha diritto alla
corresponsione della retribuzione non percepita nel periodo della sospensione.

Nella specie, la Corte d’Appello, con riferimento
alla sospensione cautelare dal servizio, ha affermato che l’appellante nulla
aveva allegato, né aveva formulato domanda riguardo alla eventuale privazione
della retribuzione nel periodo della misura provvisoriamente disposta fino alle
dimissioni.

Tale statuizione che costituisce la ratio decidendi
della statuizione di rigetto del motivo di appello relativo alla illegittimità
della sospensione cautelare, che non ha costituito oggetto di specifica
contestazione, fa corretta applicazione dei suddetti principi, non ravvisando
nella sostanza la rilevanza della censura in mancanza della domanda di
restitutio in integrum, che come affermato da questa Corte, attiene alla
retribuzione che non sia stata corrisposta nel periodo di sospensione.

Va infine rilevato che (Cass. n. 19425 del 2013, n.
19626 del 2015), nel pubblico impiego contrattualizzato la pubblica
amministrazione, nella sua qualità di datore di lavoro esercita poteri
privatistici: gli atti di gestione del rapporto devono pertanto essere valutati
secondo gli stessi parametri che si utilizzano per il datore di lavoro privato
e non è applicabile in materia alcuna disposizione della legge 7 agosto 1990,
n. 241.

9. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la
nullità della sentenza (art. 360, n. 4, cod. proc. civ., in relazione agli
artt. 99, 112, 276, 277 e 345, cod. proc. civ., nonché dell’art. 2907, cod.
civ.). Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, n.3,
co. proc. civ., in relazione agli artt. 2697, cod. civ., 112,115, 116, 117,
228, ssg., 244 ssg., 420 e 421, cod. proc. civ.)

Il ricorrente denuncia la sentenza per mancanza di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato e comunque perché sarebbe illegittima
per non aver ammesso i mezzi istruttori richiesti nel corso del giudizio. Il
ricorrente, quindi, riporta quanto dedotto nel ricorso di appello sulle prove
(pagg. 55-61 del ricorso per cassazione) e deduce che nella sentenza non sono
state esplicitate la ragioni per le quali non si è dato seguito al motivo di
appello, omettendo di pronunciare in merito.

10. Il motivo è inammissibile.

Occorre considerare che la violazione del principio
della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112
cod. proc. civ., sussiste quando il giudice attribuisca, o neghi, ad alcuno dei
contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno
virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e
situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un
titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della
domanda; tale violazione, invece, non ricorre quando il giudice non
interferisca nel potere dispositivo delle parti e non alteri nessuno degli
elementi obiettivi di identificazione dell’azione (Cass., n. 906 del 2018, n.
9255 del 2021).

Nella specie, il ricorrente pur deducendo il vizio
di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non lo illustra in ragione
di principi sopra richiamati, limitandosi a riprodurre il contenuto delle
pagine 12-15 del ricorso in appello, deducendo che non si era dato corso al
motivo di gravame in ragione delle rationes decidendi della sentenza di
appello, e incentrando la censura sulla mancata ammissione di mezzi istruttori,
senza confrontarsi, con adeguata contestazione, con la statuizione con cui la
Corte d’Appello ha preso in considerazione le istanze istruttorie, e non vi ha
dato ingresso atteso che erano articolata su circostanze documentate, su fatti
non a diretta conoscenza del nuovo rettore, su capitoli non rilevanti al fine
del decidere.

Va, altresì, rilevato che, come già affermato da
questa Corte, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e
singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle
parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, cod.
proc. civ., che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in
diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per
implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non
espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con
l’iter” argomentativo seguito, come peraltro espone nella specie il ricorrente
nel motivo (pag. 61 del ricorso per cassazione). Ne consegue che il vizio di
omessa pronuncia – configurabile allorché risulti completamente omesso il
provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto –
non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la
decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne
comporti il rigetto (Cass., n. 12652 del 2020).

11. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta
l’illegittimità derivata. Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto
(art. 360, n.3, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 1218 e 2043 ss. cod.
civ.).

Il ricorrente censura la statuizione con cui la
Corte d’Appello, in ragione degli errores in procedendo e in iudicando
denunciati con i precedenti motivi di ricorso, non ha riconosciuto al lavoratore
il risarcimento del danno.

12. Al rigetto o inammissibilità dei motivi di
ricorso che precedono segue il rigetto del presente motivo di ricorso.

13. Il ricorso deve essere rigettato.

14. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

15. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 11.000,00 per compensi
professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e
accessori di legge.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 -quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2021, n. 33632
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