Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 novembre 2021, n. 36353
Licenziamento disciplinare, Svolgimento non autorizzato di
attività di lavoro autonomo e di prestazione d’opera a favore di terzi,
Proporzionalità della sanzione irrogata, Accertamento
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Catania, riformando la
sentenza del Tribunale della stessa sede, ha rigettato l’impugnativa del
licenziamento disciplinare irrogato dall’Agenzia delle Entrate nei riguardi di
M.S., per lo svolgimento non autorizzato di attività di lavoro autonomo e di
prestazione d’opera a favore di terzi.
La Corte territoriale riteneva che a fondare
l’annullamento del recesso datoriale non potesse essere il fatto che la
sanzione fosse stata applicata dal Direttore della Direzione Regionale delle
Entrate, quale organo incompetente perché non individuato come Ufficio per i
Procedimenti Disciplinari (di seguito, UPD) ai sensi dell’art. 55-bis, co. 4, d. lgs. 165/2001
e ciò in quanto tale ragione di invalidità non era stata fatta valere
nell’ambito del ricorso introduttivo del giudizio, ma solo con le note
difensive finali di primo grado, mentre il processo di impugnazione del
licenziamento era da ritenere limitato alle censure dedotte originariamente dal
lavoratore non integrabili, neanche per le questioni di nullità, dalla
rilevazione d’ufficio degli eventuali vizi e quindi, necessariamente, neppure
sulla base della tardiva eccezione propositiva del profilo di nullità, qui
attinente – appunto – alla competenza dell’organo da cui era stata applicata la
sanzione.
La Corte rigettava, invece, nel merito le ulteriori
censure in ordine alla carenza di pubblicità o conoscibilità delle regole
disciplinari o di quelle sull’incompatibilità, riconoscendo la fondatezza
dell’addebito e la proporzionalità della sanzione irrogata.
2. M.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla
base di un unico motivo, sub specie di violazione dell’art. 55-bis, co. 4, d. lgs. 165/2001,
nonché degli artt. 1418 e 1421 c.c.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con
controricorso.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, già
parte nel processo in appello e nei cui confronti il ricorso per cassazione è
stato parimenti notificato è rimasto intimato.
Ragioni della decisione
1. L’unico articolato motivo di ricorso sostiene,
secondo le due direttrici normative in esso indicate in rubrica e sopra
riepilogate, che la sentenza impugnata, nel ritenere che la questione sulla
competenza dell’organo che aveva irrogato la sanzione non potesse essere
esaminata perché non introdotta originariamente con l’impugnativa giudiziale
del licenziamento, avrebbe violato l’art. 1421 c.c.,
secondo cui le nullità dei negozi (e degli atti unilaterali, ex art. 1324 c.c.) sono rilevabili d’ufficio e,
quindi, possono essere oggetto di sollecitazione anche tardiva, finalizzata appunto
a tale rilevazione, ad opera della parte a ciò interessata, il tutto in
connessione con l’art. 55-bis d.
lgs. 165/2001 secondo cui il licenziamento deve essere irrogato dall’UPD,
quale non era il Direttore della Direzione Regionale.
2. Il motivo è infondato, nei termini che si vanno
ad esporre.
3. Questa S.C. ha già reiteratamente affermato che
«il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla
specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in
appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati
“ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione
del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione,
che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero
subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le
eccezioni in senso stretto» (Cass., S.U., 7 maggio
2013, n. 10531 e, poi, Cass. 31 ottobre 2018, n. 27998).
In tale affermazione è peraltro indirettamente
individuato anche il perimetro entro cui la rilevazione d’ufficio è consentita.
Lo svincolo rispetto alle preclusioni è infatti
condizionato all’emersione, dal materiale processuale già esistente, di fatti
che siano idonei ad integrare il profilo a rilievo officioso, dovendosi
affermare che il potere-dovere di rilevazione officiosa di un’eccezione in
senso lato si misura sull’ambito dei fatti legalmente acquisiti al processo nel
momento in cui tale rilievo deve avere corso.
La rilevabilità d’ufficio manifesta, infatti, la
possibilità che il giudice (o la parte, sollecitando la corrispondente
questione) attribuisca significatività giuridica ad una circostanza che, pur
acquisita al processo (attraverso affermazioni pregresse di parte, produzioni o
qualunque incombente istruttorio legalmente svolto), non sia stata
giuridicamente valorizzata dalle parti (espressamente o comunque in modo
inequivoco) entro i termini preclusivi che caratterizzano le attività destinate
a individuare i fatti costitutivi o le eccezioni rispetto all’oggetto del
contendere.
Il potere-dovere officioso di rilevare il
significato giuridico di un certo fatto, pur se non valorizzato dalle parti,
nel che consiste il proprium della “rilevazione” d’ufficio – anche rispetto
alla proposizione di un’eccezione ad opera della parte – non va invece
sovrapposto all’introduzione nel processo di una circostanza che già non gli
appartenesse, né con la proposizione di ipotesi o di percorsi di indagine
finalizzati ad addivenire, da un fatto del processo, all’acquisizione al
dibattito di un altro fatto, costitutivo o tale da integrare eccezione, ancora
ad esso estraneo.
Il giudice, ed in particolare quello del lavoro,
hanno il poteredovere di dare corso alle piste probatorie finalizzate a
verificare se siano dimostrabili certi fatti decisivi ma si deve pur sempre
trattare di fatti già acquisiti al processo (Cass.
15 maggio 2018, n. 11845; Cass. 13 febbraio 2006, n. 3047) e non di fatti
di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) soltanto
ipotizzi la verificazione e ne esplori l’esistenza o i connotati.
È del resto consolidata la massima per cui il
rilievo officioso delle eccezioni può aversi se ed in quanto il contenuto
fattuale di esse già emerga dagli atti (v. sulla scia di Cass., S.U., 10531/2013 cit., tra le molte, Cass.
22 ottobre 2015, n. 21524, Cass. 30 settembre 2016, n. 19567; Cass. 5 agosto
2021, n. 22371), il che si specifica ulteriormente nel senso che, al di là
della prova dei fatti che fondano l’eccezione, è la loro stessa esistenza o
inesistenza a dover già essere interna al processo almeno come allegazione di
parte o emergenza da un qualche dato istruttorio.
4. Venendo all’oggetto della presente causa, l’art. 55-bis, nella versione ratione
temporis applicabile, prevede che le sanzioni di minore gravità siano di
competenza del responsabile della «struttura in cui il dipendente lavora, anche
in posizione di comando o di fuori ruolo» (co. 2), mentre vi è competenza
dell’ufficio per i procedimenti disciplinari che «ciascuna amministrazione,
secondo il proprio ordinamento, individua» quando il responsabile della
struttura ove è prestato il servizio «non ha qualifica dirigenziale», oppure e
«comunque per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi», tra cui il
licenziamento che qui viene in evidenza.
La ratio, sostanzialmente confermata anche dalle
modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017,
è quella di sottrarre la competenza per tali sanzioni a chi sia direttamente
preposto, presso la struttura ove è prestato il servizio, al lavoratore
interessato, al fine di assicurare terzietà istituzionale all’organo che
procede al rilievo ed alla decisione disciplinare.
Ciò è reso evidente dal riferimento, finalizzato ad
escludere la competenza, non a qualsiasi superiore del dipendente, ma al
responsabile della «struttura in cui il dipendente lavora»; così come anche dal
fatto che, nel caso in cui si tratti di sanzioni minori, ma l’ufficio di
servizio sia privo di un superiore con qualifica dirigenziale, la norma
attribuisce prevalenza al principio di terzietà attraverso l’esclusione della
possibilità che ad irrogare le misura possa essere un qualsiasi addetto
genericamente munito di un potere direttivo nei confronti dell’interessato.
In ciò, e solo in ciò, come precisato dalla
giurisprudenza di questa S.C., sta altresì il fondamento della regola di
competenza (Cass. 4 novembre 2016, n. 22487) e dell’invalidità che dalla sua
violazione può scaturire, come si è ulteriormente precisato allorquando si è
affermato che «l’art. 55-bis,
laddove stabilisce che ciascuna amministrazione individua l’UPD, costituisce
norma imperativa solo nella parte in cui impone all’ente il rispetto della
garanzia di terzietà dell’ufficio, ma non anche quanto alle regole
procedimentali interne, derivanti dalle scelte organizzative delle diverse
amministrazioni, che regolano la costituzione ed il funzionamento dell’UPD»
(Cass. 10 luglio 2020, n. 14811), sul parimenti precisato presupposto che in
altri termini il legislatore «persegue unicamente l’obiettivo di garantire, per
le sanzioni più gravi, che tutte le fasi del procedimento vengano condotte da
un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed al capo struttura», sicché «non ha
ritenuto di dovere imporre ulteriori vincoli alle amministrazioni ed anzi,
attraverso il richiamo all’ordinamento proprio di ciascuna, ha inteso
sottolineare la necessità di procedere alla individuazione, coniugando il
rispetto della finalità sopra indicata con le esigenze organizzative di ciascun
ente» rilevandosi altresì che «non a caso non sono state dettate prescrizioni
in merito alla composizione collegiale o personale dell’ufficio né sono stati
imposti requisiti per i soggetti chiamati a comporre l’ufficio medesimo>>
(Cass. 5 marzo 2017, n. 5317).
5. Nel caso di specie, al momento in cui il
ricorrente ha sollevato l’eccezione in punto di competenza, i fatti che
risultavano in causa, secondo quanto esposto con il ricorso per cassazione,
erano che il lavoratore era stato sanzionato per un illecito commesso
allorquando egli era in servizio presso l’Ufficio di Catania dell’Agenzia delle
Entrate, con qualifica di assistente e che il procedimento disciplinare nei
suoi confronti era stato istruito e condotto dal Direttore della Direzione
Regionale delle Entrate di Palermo.
È quindi evidente che, a procedere, non era il
superiore presso l’Ufficio di Catania, ove lo S. prestava servizio in posizione
di assistenza e quindi certamente non di vertice dell’ufficio, sicché la
violazione di competenza dell’avere proceduto disciplinarmente il preposto
all’ufficio specifico non sussisteva.
Rispetto al fatto, invece, che quel Direttore fosse
o meno costituito in ufficio per i procedimenti disciplinari nulla poteva
essere detto, perché tale aspetto, già sotto il profilo fattuale, non risultava
in alcun modo, né positivo né negativo, acquisito al dibattito processuale.
Le circostanze relative ad esso erano necessarie ad
integrare l’eccezione, e a fortiori il rilievo officioso di una nullità,
altrimenti inafferrabile, a fronte di un procedimento che palesemente non
proveniva dall’immediato addetto con poteri prevalenti presso la sede di
servizio.
Quindi non poteva essere il giudice ad aprire
l’esplorazione su un tema di fatto (ossia l’organizzazione interna dell’ente e
le modalità attraverso le quali era stato adempiuto l’obbligo di previa
individuazione dell’UPD) che, in quel frangente, tutt’al più costituiva
un’ipotesi, traducendosi altrimenti l’attività processuale non nella
“rilevazione” di una possibile nullità, ma nell’avvio di un percorso di
indagine rispetto all’acquisizione di circostanze ancora estranee al materiale
di causa.
La proposizione tardiva della corrispondente
eccezione ad opera della parte, al fine di sollecitare l’asserito potere di
rilevabilità officiosa della nullità, ha dunque aggiunto circostanze al
giudizio ed eccede, pertanto, i limiti di operatività processuale dell’art. 1421 c.c.
Tutto ciò a prescindere dal rilievo giuridico che
potesse poi avere l’assetto di fatto esistente, nel senso dell’eventuale
insussistenza della previa individuazione dell’UPD o nella sua individuazione
in organo diverso da quel Direttore o quant’altro, osservandosi – peraltro –
che questa S.C. già si è espressa nel senso della legittimità d’una eventuale
identificazione dell’Ufficio dei procedimenti disciplinari con il Direttore
regionale, in armonia con la vigente disciplina regolamentare dell’ente e con
l’esigenza di evitare che la cognizione disciplinare avvenga nell’ambito dell’ufficio
di appartenenza del lavoratore (Cass. 29 luglio 2019, n. 20417).
5.1 Non vi è quindi necessità di affrontare il
controverso tema della rilevabilità officiosa delle nullità non dedotte dalla
parte nell’ambito del processo di licenziamento, su cui v. le posizioni
espresse, per un verso, da Cass. 28 agosto 2015, n. 17286 e altre successive
conformi e, per altro verso, da Cass. 24 marzo
2017, n. 7687 e altre successive conformi sulla scia di un diverso
posizionamento giuridico rispetto all’arresto di Cass., S.U., 12 dicembre 2014,
n. 26242.
Infatti, nel caso di specie, mancavano comunque i
presupposti fattuali e processuali perché una tale rilevazione avesse
ritualmente corso.
6. Così corretta ex art.
384, ultimo comma, cod. proc. civ. la motivazione della sentenza impugnata,
il ricorso per cassazione va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
7. Può altresì essere formulato il seguente
principio: <<La rilevazione d’ufficio di una nullità sostanziale può
avere corso esclusivamente se basata su fatti ritualmente introdotti o comunque
acquisiti in causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di
vista temporale, il loro ingresso nel processo, non potendosi essa fondare su fatti
di cui il giudice (o la parte, tardivamente rispetto ai propri oneri) soltanto
astrattamente possa ipotizzare la verificazione e che per essere introdotti
presuppongano l’esercizio di un potere di allegazione ormai precluso in rito».
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a
debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.