Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 novembre 2021, n. 36733

Cessione d’azienda, Licenziamento illegittimo imposto dalla
cedente, Reintegra nel posto di lavoro, Prosecuzione del rapporto di lavoro
con la cessionaria, Applicazione dell’operatività dell’art. 2112 c.c., Risarcimento danni a carico della
cessionaria

 

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di L’Aquila confermava –
respingendo il reclamo della società SMA s.p.a., oggi M.D. s.p.a. – la sentenza
di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato
a G.E.P. il 15 giugno 2015 da P.A. s.r.l., originaria datrice di lavoro, e
dichiarato la prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze della società
reclamante a far data dal 9/6/2015, ai sensi dell’art.
2112 c.c., condannando quest’ultima a risarcire il danno subito dalla
lavoratrice nella misura dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno
del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra nel posto di lavoro, oltre
accessori e regolarizzazione della posizione assistenziale e previdenziale.

2. La ricorrente aveva dedotto che nel novembre 2014
aveva iniziato a lavorare presso il supermercato S., all’interno del Centro
Commerciale P.A. di Montesilvano, ed era stata assunta dalla P.A. s.r.l.; che
il 9 giugno 2015 P.A. s.r.l. aveva stipulato con SMA s.p.a. un contratto di
affitto di azienda con opzione di acquisto avente decorrenza 10 giugno 2015,
relativamente all’attività di vendita nel supermercato in cui lavorava la
dipendente; che era stata assente per malattia dal 29 maggio 2015 al 12 giugno
2015; che il 12 giugno 2015 si era presentata al lavoro e aveva trovato il
negozio chiuso per ristrutturazione; che, con lettera 15 giugno 2015, P.A.
s.r.l. aveva comunicato il licenziamento con decorrenza 12 giugno 2015,
motivato in ragione del mancato rientro dalla malattia senza comunicazione,
oltre che dal protrarsi dell’assenza per oltre tre giorni; che il 17 giugno la
lavoratrice si era recata nuovamente presso il supermercato, nel frattempo
riaperto dalla società cessionaria, dove le era stato impedito di riprendere a
lavorare perché non annoverata tra i dipendenti del nuovo gestore, sicché il 22
giugno aveva scritto alla SMA s.p.a. per offrire nuovamente la prestazione
lavorativa; che con lettera 4 agosto, inviata ad entrambe le società, la
dipendente aveva impugnato il licenziamento.

3. La Corte territoriale respingeva il motivo
d’appello concernente la presunta violazione dell’art.
112 c.p.c., formulato sul rilievo che la ricorrente non aveva mai addotto
un licenziamento orale da parte di SMA s.p.a., avendo ella svolto tutte le
contestazioni relative al licenziamento esclusivamente nei confronti di P.A.
s.r.l. Rilevava che il giudice, come era in suo potere, aveva qualificato sotto
il profilo giuridico il fatto indicato dalla parte, osservando come il rifiuto
del datore di lavoro di ricevere la prestazione del lavoratore equivaleva a
licenziamento orale, tanto più che le domande erano state svolte nei confronti
di entrambe le società, con richiesta di reintegra nel posto di lavoro nei
confronti di SMA s.p.a. e di risarcimento dei danni nei confronti delle società
in solido. La Corte escludeva la fondatezza del motivo di reclamo attinente
all’inapplicabilità nel processo del c.d. rito Fornero; respingeva la censura
attinente alla violazione dell’art.
32 I. 183/2010, applicabile anche alla cessione di azienda, poiché la
ricorrente non aveva contestato la cessione ma aveva chiesto la prosecuzione
del rapporto con la cessionaria.

4. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per
cassazione SMA s.p.a. sulla base di sette motivi, illustrati con memoria.

6. Ha resistito G.E.P. con controricorso.

7. P.A. s.r.l. non ha svolto attività difensiva.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce
violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la
sentenza attribuito ai fatti una qualificazione erronea nell’interpretare le
domande: la lavoratrice non aveva addotto un licenziamento orale, ma aveva
allegato la circostanza che “le veniva impedito di tornare a lavorare in
quanto non annoverata tra i dipendenti del nuovo gestore” al solo fine di
dimostrare la messa in mora di SMA s.p.a. per il pagamento delle retribuzioni
perdute e costituiva inammissibile domanda nuova la prospettazione nel corso
del giudizio di primo grado e a maggior ragione in sede di impugnazione, di un
profilo di illegittimità del licenziamento non tempestivamente dedotto.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce ancora
violazione e falsa applicazione degli art. 115
e 116 c.p.c., e dell’art.
2697 c.c. per avere la sentenza gravata basato il preteso licenziamento
orale su elementi di fatto in alcun modo risultanti dagli atti di giudizio.

3. Deduce con il terzo motivo violazione e falsa
applicazione dell’art. 1 c. 47 ss.
L. 92/2012 per erronea applicazione del rito Fornero, osservando che la
lavoratrice aveva chiesto in primo luogo e come domanda principale
l’accertamento della prosecuzione del rapporto di lavoro con SMA s.p.a. ex art. 2112 c.c. e che tale domanda era
necessariamente autonoma, avendo diversa causa petendi, rispetto a quella di
licenziamento, evidenziando la distinzione cronologica e logica tra le due
azioni.

4. Con il quarto motivo lamenta violazione e falsa
applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c. e dell’art.
2103 c.c., osservando che dalle prove in atti risultava che, prima della
cessione di ramo di azienda, era stata comunicata alla lavoratrice
l’assegnazione ad altra struttura organizzativa rispetto al supermercato S.,
sicché ella non poteva considerarsi addetta al ramo di azienda al momento della
cessione.

5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c.,
nonché dell’art. 18 I. n.
300/70, osservando che era dato pacifico che l’affitto del ramo di azienda
fosse antecedente rispetto al licenziamento, il quale era tamquam non esset per
SMA s.p.a., sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere applicabile il
solo art. 2112 c.c. e non l’art. 18 S.L., mentre,
invertendone l’ordine di applicazione, li ha di fatto violati entrambi: violato
l’art. 18 S.L., applicandolo a un’ipotesi di cessione di ramo d’azienda,
violato l’art. 2112 c.c. non applicandolo
direttamente e in via principale alla fattispecie.

6. Con il sesto motivo deduce violazione degli art. 115 e 116 c.p.c.
e dell’art. 32 I. n. 183/2010:
sulla premessa che l’art. 32 I.
183/2010 postula la necessità di impugnare autonomamente il trasferimento
di azienda rispetto al licenziamento, assume che l’impugnativa del trasferimento
sarebbe stata proposta con lettera 22/6/2015 ed imputa alla sentenza di avere
negato il carattere impugnatorio di detta missiva, erroneamente ritenendo che
la lettera del 3/6/2015 fosse al tempo stesso impugnativa di trasferimento e
del licenziamento.

7. Con il settimo motivo la ricorrente rileva, sul
presupposto che l’art. 32 I.
183/2010 postula la necessità di impugnare autonomamente il trasferimento
di azienda, che la Corte avrebbe omesso di pronunciare la decadenza per mancata
osservanza del termine di 180 giorni (ricorso del 29/1/2016), essendo
erroneamente qualificate le lettere di 12/6/2015 e del 22/6/2015 come missive
con cui il lavoratore avrebbe posto la prestazione lavorativa a disposizione di
entrambe le società con la prima e della cessionaria con la seconda.

8. Il primo motivo è inammissibile poiché la
ricorrente non allega e trascrive, né documenta adeguatamente i termini in cui
la domanda è stata formulata, così da poter cogliere la dedotta estraneità
della decisione rispetto alla pretesa fatta valere. Si deve, inoltre, rilevare,
a fondamento del giudizio di inammissibilità della censura, che
l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano
un tipico accertamento di fatto riservato al giudice del merito (ex multis
Cass. 30684 del 21/12/2017, Cass. n. 7322 del 14/03/2019), da compiersi
mediante indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata
delle domande sottoposte alla sua cognizione, sulla scorta non già del tenore
meramente letterale degli atti, ma del reale contenuto della pretesa fatta
valere in giudizio.

9. Allo stesso modo si rivela inammissibile il
secondo motivo, sia per le ragioni già evidenziate con riferimento alla censura
che precede, sia perché con esso si propone un non consentito apprezzamento
delle prove raccolte nel giudizio di merito.

10. In ordine al terzo motivo si osserva, oltre al
contrasto con la qualificazione operata dal Giudice del merito di cui sub 1,
che la ricorrente neppure evidenzia che il rito applicato le abbia in qualche
modo arrecato pregiudizio sotto il profilo dell’esplicazione del diritto di
difesa (ex multis Cass. n. 23682 del 10/10/2017), sicché ogni eventuale errore
attinente al rito adottato resta priva di rilevanza.

11. Il quarto motivo è inammissibile. Esso poggia su
una premessa errata, poiché la Corte, sulla scorta del compiuto accertamento in
fatto, ha acclarato che la società cessionaria non gestiva all’interno del
centro commerciale altri punti vendita di generi alimentari o casalinghi oltre
quello cui era addetto la lavoratrice, così escludendo che il presunto cambio
di mansioni comunicato dalla cedente potesse qualificarsi come trasferimento
della medesima a diversa unità produttiva. Ne discende che la censura, pur
formulata sub specie violazione di legge, tende in realtà a una inammissibile
rivalutazione dei fatti e delle prove non consentita in sede di legittimità
(Cass. n. 8758 del 04/04/2017, SU 34476 del 27/12/2019).

12. In ordine al quinto motivo, risulta del tutto
coerente la sequenza logica della sentenza impugnata: l’avvenuta cessione di
azienda è tenuta in considerazione ai fini della valutazione circa
l’illegittimità del licenziamento intimato da P.A. s.r.l., soggetto che al
momento della intimazione non rivestiva più la qualità di datore di lavoro,
mentre la stessa cessione costituisce presupposto per la ritenuta prosecuzione
del rapporto nei confronti della cessionaria e, va tenuta in considerazione,
quindi, per l’intervenuto licenziamento orale.

13. Possono essere trattate congiuntamente le
censure di cui ai motivi sub 6 e sub 7, stante l’intima connessione. Al
riguardo si osserva che sul punto relativo alla ritenuta confluenza in un’unica
missiva di due manifestazioni di volontà si palesa l’evidente illogicità della
censura, ben potendo un unico atto contenere due manifestazioni di volontà
differenti. Quanto all’interpretazione del contenuto delle missive, poi, va
rilevato che la stessa è rimessa, come questione di fatto, al sindacato del
Giudice del merito. In ogni caso occorre osservare che i due motivi di ricorso
sono infondati sulla base del rilievo che l’impugnativa stragiudiziale deve
ritenersi necessaria solo con riferimento al licenziamento e correttamente è
stata effettuata nei confronti della datrice di lavoro originaria, mentre non
era necessaria in relazione ad una azione di richiesta di applicazione (e non
di impugnazione) dell’operatività dell’art. 2112 c.c.
La lavoratrice, infatti, non si è opposta al trasferimento, anzi ha fatto
istanza per il riconoscimento dell’operatività del medesimo, rispetto alla
quale era funzionale la messa a disposizione della propria prestazione nei
confronti del novo datore di lavoro (cfr. Cass. n.
28750 del 07/11/2019).

14. Il ricorso, conclusivamente, deve essere
rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità, liquidate in complessivi € 5.200,00, di cui € 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma del comma
1- bis dello stesso art. 13.

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