Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 novembre 2021, n. 37590
Rapporto di lavoro, Violazione del patto di non concorrenza,
Accertamento, Pagamento della penale
Fatti di causa
1.1. La Corte di appello di Brescia ha confermato la
sentenza del Tribunale di Bergamo che aveva ritenuto valido ed efficace il
patto di non concorrenza stipulato dalla F. s.p.a e M.L. e ne aveva accertato
la violazione da parte del L. il quale, dimessosi dalla F. s.p.a. in data
31.12.2008 e con decorrenza dal 1.1.2009, era stato assunto da una società
concorrente che operava nel medesimo settore dei manti sintetici.
1.2. La Corte territoriale ha ritenuto che la
società, alla quale era stata opposta dal L. la violazione dell’art. 1383 cod.
civ. – nell’aderire all’eccezione di incompetenza sollevata sempre dal L., per
essere competente il giudice del lavoro sulla domanda di accertamento
dell’avvenuta violazione del patto di non concorrenza – ben poteva all’atto
della riassunzione del giudizio, così come in concreto aveva fatto, chiedere
l’adempimento del patto di non concorrenza e la condanna del lavoratore al
pagamento della penale.
1.3. Con riguardo poi alla denunciata errata
interpretazione della clausola n. 7 del patto di non concorrenza – che
prevedeva che il patto fosse nullo qualora a seguito di compravendita di azioni
societarie il capitale sociale subisse variazioni in misura superiore al 51% –
la Corte territoriale ha posto in rilievo che non era stata censurata
l’affermazione del primo giudice che aveva ritenuto che tale clausola avesse
una ratio diversa da quella dell’art. 13 del c.c.n.I. dei dirigenti industria,
che consente al dirigente di dimettersi senza preavviso e con riconoscimento
parziale dell’indennità sostitutiva del medesimo in caso di trasferimento della
proprietà della società, ed evidenzia che ci si era doluti piuttosto della
mancata considerazione di alcuni documenti dai quali a dire del ricorrente si
sarebbe evinto che la variazione del capitale verificatasi era proprio quella
prevista dalla clausola contrattuale. In tale prospettiva la Corte di merito ha
dunque accertato che al contrario tali documenti (doc. n. 4: comunicazione del
presidente del c.d.a. della F. del 25.10.2007 della conclusione di un accordo
di cessione del 100% del Gruppo alla S.H. s.p.a.; doc. n. 5: stampa del sito
internet di quest’ultima società) non erano idonei a dimostrare che si era
realizzata la specifica condizione cui la clausola del patto di non concorrenza
associava la nullità dello stesso osservando che, peraltro, anche dopo tale
evento le parti avevano continuato a darvi applicazione ed evidenziando che la
comunicazione dell’acquisto contenuta nel sito internet della Holding non era
di per sé significativa trattandosi di una comunicazione di carattere
commerciale.
1.4. In definitiva il giudice di appello, per tali
motivi, ha escluso che della clausola contrattuale potesse darsi
l’interpretazione estensiva sollecitata non essendosi realizzata con la
cessione del 100% della società la condizione risolutiva del patto di non concorrenza.
1.5. Con riguardo poi alla richiesta di riduzione
della penale il giudice di appello ha evidenziato che le ragioni in base alle
quali il giudice di primo grado aveva escluso che la penale fissata fosse
eccessiva non erano state specificatamente impugnate ed inoltre ha osservato
che era onere della parte che allegava la sproporzione provare la mancanza di
ragioni che giustificassero tale allegata sproporzione.
2. Per la cassazione della sentenza ricorre M.L. ed
articola sette motivi ai quali resiste con controricorso la F. s.p.a.. Il
Collegio, ritenuti insussistenti i presupposti per la decisione della
controversia in camera di consiglio ha rinviato per la fissazione dell’udienza
pubblica. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte ai sensi
dell’art. 23 comma 8 bis del d.l. 28 ottobre 2020 n. 137 convertito con
modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176, chiedendo il rigetto del
ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod.
proc. civ..
Ragioni della decisione
3. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la
violazione e falsa applicazione degli artt. 183 comma 6, 38 comma 2 e 50 cod.
proc.civ.. Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe
erroneamente ritenuto che, per effetto dell’adesione da parte della società
all’eccezione d’incompetenza per materia formulata dal lavoratore, non fossero
maturate le preclusioni previste dall’art. 186 comma 6 cod.proc.civ. senza
considerare che la scelta di aderire all’indicata competenza – alla quale era
conseguito il trasferimento della controversia davanti al giudice del lavoro –
era intervenuta successivamente alla prima udienza ( nel corso della quale tale
eccezione era stata contrastata) e solo a seguito dell’assegnazione del termine
per il deposito delle memorie anche con riguardo all’eccezione di incompetenza
formulata. Sostiene allora il ricorrente che tardivamente, solo in sede di
riassunzione, la società aveva insistito per la vigenza del patto di non
concorrenza, allegando documentazione oramai inammissibile. Sottolinea infatti
che la persistenza del patto era stata tempestivamente contestata dal
lavoratore sin dalla sua memoria di costituzione e che perciò in sede di
memorie la società avrebbe dovuto replicare a tale eccezione e documentarne la
fondatezza.
4. Il motivo non può essere accolto.
4.1. Per quanto vada ribadito che a seguito di
tempestiva riassunzione della causa, successivamente alla declaratoria di
incompetenza, davanti al giudice dichiarato competente il processo continua mantenendo
una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e
processuali di quello svoltosi davanti al giudice incompetente atteso che la
riassunzione non comporta l’instaurazione di un nuovo processo ma costituisce
la prosecuzione di quello originario (cfr. tra le altre Cass. 10/07/2008 n.
19030 , 28/02/2007 n. 4775 e più recentemente Cass. 09/04/2019 n. 9915 e
01/03/2021 n. 5542) tuttavia va rilevato che la censura riguarda
specificatamente il tema delle preclusioni maturate a seguito della tardiva
difesa sulla dedotta nullità del patto di non concorrenza ed in particolare
investe la produzione di documenti ritenuti significativi per dimostrare
l’inesistenza dei presupposti per ritenere nullo il patto in applicazione della
clausola contrattuale che tuttavia sono stati ritenuti irrilevanti dalla Corte
di appello sicché sotto tale profilo la doglianza è inammissibile.
4.2. Inoltre la censura trascura di contrastare
l’affermazione del giudice di appello che ha ritenuto insussistente una
incompatibilità tra le domande di adempimento del patto di non concorrenza e
restituzione del corrispettivo con quella di pagamento della penale
evidenziando che al momento della riassunzione il patto era già scaduto. Resta
ferma per tale aspetto la sentenza impugnata.
5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 1362 commi 1 e 2 cod. civ., 1456 comma 2 cod. civ. e 276
comma 5 cod. proc. civ. per avere erroneamente interpretato l’art. 7 del Patto
di non concorrenza e per avere, con motivazione carente e contraddittoria,
attribuito rilievo solo al tenore letterale della clausola senza indagare la
comune intenzione delle parti. Osserva il ricorrente che era stato allegato che
il patto si era risolto, con efficacia ex nunc, per effetto della variazione
societaria dell’assetto proprietario conseguente alla cessione del 100% delle
azioni ad altra società (S.H.). La Corte di merito, al pari del Tribunale,
invece, ha ritenuto irrilevanti i documenti nn. 4 e 5 del L. per dimostrare l’esistenza
della cessione e così facendo aveva erroneamente interpretato il patto che
intendeva valorizzare la effettiva proprietà e l’esistenza di un change of
control per ritenere liberato dal patto il lavoratore, senza che la protratta
esecuzione possa essere valutata per confermarne la persistenza.
6. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata
ancora una volta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e
1366 cod. civ. e si evidenzia che nell’interpretare l’art. 7 del patto di non
concorrenza la Corte di merito avrebbe trascurato di accertare qual’ era stata
la comune intenzione delle parti nel redigerlo. Inoltre il giudice di appello
avrebbe mancato di verificare se l’interpretazione letterale corrispondesse
anche a quella funzionale e secondo buona fede. Sostiene che se si fosse
proceduto a tale verifica sarebbe emerso che la nullità del patto era
strettamente connessa al rapporto intuitu personae esistente con la datrice di
lavoro, tanto che ne era prevista la nullità sia nel caso di licenziamento
intimato dalla datrice di lavoro sia nel caso in cui ne muti la consistenza
sociale in maniera rilevante, ed invece la Corte di merito aveva del tutto
ignorato tali prospettazioni nel procedere alla sua interpretazione. Evidenzia
che inoltre la Corte di appello avrebbe trascurato anche di interpretare la
disposizione secondo buona fede atteso che quella adottata, che porta quale
conseguenza la non applicazione della clausola nel caso di passaggio di
controllo da una società ad un’altra, si risolve nella sostanza in una frode al
contratto.
7. Il quarto motivo ha ad oggetto la violazione
degli artt.1368, 1369 c.c. e la violazione dell’art. 276 comma 5 c.p.c. per
contraddittorietà e difetto di motivazione nell’interpretazione del patto come
disciplinato dall’art. 7.
Sostiene che la clausola sarebbe ambigua, polisensa
e dubbia o oscura sicché avrebbe dovuto essere interpretata, come era stato
esplicitamente sollecitato, anche a mezzo di quanto disposto dall’art. 13 del
c.cn.I. dei dirigenti di aziende industriali del quale condivideva la ratio.
Deduce che il ragionamento seguito dalla Corte di appello contiene un vizio
logico autonomamente denunciabile ex art. 276 comma 5 c.p.c.
8. Il quinto motivo ha ad oggetto la violazione e
falsa applicazione dell’art. 1370 c.c. e reclama che la clausola, nel dubbio
circa la sua corretta interpretazione, avrebbe dovuto essere intesa nel senso
più favorevole alla parte che non l’aveva predisposta.
9. Con il sesto motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 1371 c.c. e si deduce che nell’interpretare la clausola
che prevede la nullità sopravvenuta del patto di non concorrenza la Corte di
merito le avrebbe attribuito il significato più gravoso per l’obbligato senza
prevedere alcun equo contemperamento atteso che non era stato dato ingresso ad
una riduzione ad equità della penale, sebbene fosse stata espressamente
richiesta.
10. Le censure, da trattare congiuntamente poiché
investono sotto vari profili l’interpretazione data dalla Corte territoriale
alla clausola contrattuale che detta una ipotesi di nullità del patto di non
concorrenza stipulato tra le parti, non possono essere accolte per le ragioni
che di seguito si espongono.
9.1. Ritiene infatti il Collegio che
nell’interpretare la clausola contrattuale che disciplinava tra le parti il
patto di non concorrenza la Corte di appello non sia incorsa in alcuna delle
violazioni denunciate.
9.2. Il giudice di secondo grado ha preso in esame
la disposizione, ne ha ritenuto non equivoco significato ed ha sottolineato che
dalla stessa si evinceva con chiarezza quale era la ragione alla quale le parti
avevano inteso ricollegare il venir meno del patto concordato: un mutamento
della proprietà azionaria nei limiti indicati dalla disposizione (variazione
superiore al 51% del capitale sociale). Né la Corte si è sottratta dal
procedere ad un esame sistematico della disposizione contrattuale che ha
analizzato anche tenendo conto della previsione contenuta nella disciplina
collettiva dei dirigenti delle aziende industriali che regola la facoltà di
recesso anche senza preavviso e con diritto a conseguire parte della relativa
indennità per il dirigente la cui azienda sia interessata da fusione, scorporo
oppure da una concentrazione societaria (art. 13 c.c.n.I.) della quale ha posto
in rilievo la differente ratio. Ha escluso che in fatto il ricorrente avesse
offerto la prova, che su di lui gravava, dell’esistenza delle condizioni perché
venisse accertata la nullità del patto. Inoltre, nell’interpretare la clausola,
la Corte di merito non ha trascurato di considerare il comportamento tenuto
dalle parti anche successivamente al pacifico passaggio del controllo
societario da una Holding ad un’altra ed ha constatato che le parti, per oltre
un anno, avevano continuato a dare attuazione al patto corrispondendo, e
percependo, il relativo corrispettivo. In sostanza il ricorrente più che
denunciare un vizio di interpretazione si limita a proporre una diversa lettura
della clausola contrattuale all’esito di una più favorevole ricostruzione dei fatti
che tuttavia non è consentita davanti al giudice di legittimità. L’accertamento
della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si
traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito ed il ricorrente
per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di
interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve
fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante
specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse
contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali
considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali
assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni
illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella
mera contrapposizione dell’ interpretazione del ricorrente e quella accolta
nella sentenza impugnata (cfr. Cass. 09/04/2021 n. 9461, 10/02/2015 n. 2465).
9.3. Per quanto riguarda la denunciata mancata
utilizzazione dei criteri sussidiari e integrativi va ricordato che ad essi è
possibile fare ricorso laddove, e non è questo il caso, il senso della clausola
contrattuale sia rimasto oscuro o ambiguo nonostante l’utilizzo dei principali
criteri ermeneutici (letterale, logico e sistematico). In applicazione del
principio della conservazione degli effetti utili del contratto, previsto
dall’art. 1367 c.c. vi si può ricorrere qualora le espressioni contenute nel
contratto siano ritenute inidonee a consentire una inequivoca interpretazione
ed in tal caso si deve accertare se le contrapposte versioni delle parti siano
corredate da buona fede, valutandone il comportamento complessivo, tenendo
conto anche degli effetti, con il limite comune agli altri criteri sussidiari,
secondo cui la conservazione del contratto non può mai comportare una
interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il
giudice dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto o
della clausola (cfr. Cass. 23/07/2018 n. 19493).
9.4. In definitiva va ribadito che ai fini della
ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento
è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate,
con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi,
quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle
espressioni adoperate e sia talmente chiara da escludere la ricerca di una
volontà diversa. Il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va
verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, considerando le singole
clausole in correlazione tra loro, a norma dell’ art. 1363 c.c. (cfr. Cass.
28/08/2007 n. 18180). Quanto al coordinamento tra i vari criteri interpretativi
di cui all’art. 1362 c.c. e ss. va ribadito che i canoni legali sono governati
da un principio di gerarchia, tale che i canoni strettamente interpretativi
prevalgono su quelli c.d. integrativi e ne escludono la concreta operatività
quando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la
comune intenzione delle parti stipulanti. Nell’ambito dei canoni strettamente
interpretativi, assume un ruolo fondamentale quello fondato sul significato
letterale delle parole (cfr. Cass. 11/03/2014 n. 5595) tenendo sempre conto del
fatto che l’interpretazione del contratto, consistendo in un’operazione di
accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in un’indagine di fatto
riservata al giudice di merito, il cui accertamento è censurabile in cassazione
soltanto per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole
ermeneutiche con la conseguenza che non può trovare ingresso in sede di
legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal
giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una
diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già dallo stesso esaminati
(cfr. Cass. 27/03/2007 n. 7500 e 30/04/2010 n. 10554). Si sottrae al sindacato
di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto
pure se non sia l’unica possibile, o la migliore in astratto, a condizione che
ne risulti una di quelle possibili e plausibili. Quando di una clausola
contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla
parte che aveva proposto quella poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in
sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (cfr. Cass.
20/11/2009 n. 24539, 18/11/2013 n. 25861,04/03/2014 n. 5016) (cfr. Cass.
23/06/2014 n. 14206).
9.6. La Corte territoriale ha fatto corretta
applicazione di tali principi sicché le censure devono essere rigettate.
10. L’ultimo motivo di ricorso – con il quale si
denuncia la violazione degli artt.112 e 277 c.p.c. e la nullità della sentenza
per avere la Corte di appello utilizzato solo un criterio interpretativo
sebbene fosse stata sollecitata l’utilizzazione anche degli altri – è, come i
precedenti di cui condivide nella sostanza le argomentazioni, infondato essendosi
già chiarite le ragioni per le quali la Corte territoriale non è incorsa nelle
violazioni delle regole di interpretazione denunciate nel valorizzare accanto
all’interpretazione letterale della clausola contrattuale la condotta tenuta
dalle parti successivamente alla modifica del controllo del gruppo societario.
Non è ravvisabile perciò il denunciato vizio di omessa pronuncia risultando
invece la questione implicitamente disattesa dal complessivo ragionamento del
giudice di appello.
11. In conclusione, per le ragioni esposte, il
ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
in dispositivo. Inoltre, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115
del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13
comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 5.000,00 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli
accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali perii
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13
comma 1 bis del citato d. P.R., se dovuto.