Le dimissioni, quale negozio unilaterale recettizio cui consegue la fine del rapporto di lavoro allorché vengano a conoscenza del datore di lavoro, possono essere annullate solo qualora il lavoratore provi l’esistenza di situazioni abnormi, tali da far scemare la sua capacità di intendere e di volere al momento della sottoscrizione dell’atto di dimissioni.

Nota a Cass. 11 novembre 2021, n. 33632

Gennaro Ilias Vigliotti

A seguito della c.d. privatizzazione del pubblico impiego (v. D.LGS. n. 29 del 1993, e successive modifiche ed integrazioni), “le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui vengano a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione. L’amministrazione, dunque, non può rigettare l’istanza del dipendente di dimissioni, ma si deve limitare ad accertare che non esistano impedimenti legali alla risoluzione del rapporto”.

Inoltre, “in ragione dell’effetto immediato di tali dimissioni, la successiva revoca è inidonea ad eliminare l’effetto risolutivo già prodottosi, restando peraltro salva la possibilità, per le parti, in applicazione del principio generale di libertà negoziale, di porre nel nulla le dimissioni con la conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso, e con l’onere, in tal caso, di fornire la dimostrazione del raggiungimento del contrario accordo, a carico del lavoratore”.

Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (11 novembre 2021, n. 33632, conf. ad App. Lecce n. 760/2017; v. anche Cass. n. 3267/2009), la quale ha precisato che, dal momento che le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio (e dunque idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui l’atto venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle: v. Cass. n. 9575/2011), una volta risolto il rapporto, è necessario, per la sua ricostituzione, che le parti stipulino un nuovo contratto di lavoro. La revoca delle dimissioni da parte del lavoratore, neppure se la revoca sia manifestata in costanza di preavviso, non è infatti sufficiente ad eliminare l’effetto risolutivo che si è prodotto.

Quanto al motivo di ricorso secondo cui  il lavoratore era in uno stato di prostrazione psicologica ben visibile da parte dell’Università e che vi erano stati atteggiamenti intimidatori, vessatori e discriminatori da parte del datore di lavoro che, manifestando la volontà di risolvere il rapporto, aveva lasciato al lavoratore (direttore generale) la sola alternativa delle dimissioni per evitare il licenziamento, con effetti disastrosi per il proprio futuro lavorativo, la Corte, allo scopo di valutare se le dimissioni erano state eterodeterminate dal comportamento coercitivo della parte datoriale, ha chiarito che:

– l’annullamento delle dimissioni del lavoratore, sul presupposto che esse siano state presentate in stato di incapacità naturale, presuppone, oltre alla sussistenza di un quadro psichico connotato da aspetti patologici, “l’incidenza causale tra l’alterazione mentale e le ragioni soggettive che hanno spinto il lavoratore al recesso” (così, anche Cass., n. 1070/2016);

– ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere ex art. 428 c.c. (costituente causa di annullamento del negozio), “non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere” (Cass. n. 30126/2018, in q. sito con nota di M.N. BETTINI);

– l’accertamento di tale stato, riservato al giudice di merito, “deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia al posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicché occorre verificare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto” (Cass. n. 17997/2011);

– la decisione del giudice di merito va confermata non essendosi in presenza di incapacità naturale e mancando la coercizione, “in particolare tenendo conto del periodo di raffreddamento e del saluto indirizzato dal lavoratore alla Comunità accademica”.

Si riportano stralci della vicenda oggetto della decisione annotata.

Il 20 ottobre 2012 la Gazzetta del Mezzogiorno, nella cronaca di Lecce, pubblicava un articolo intitolato “Lusinghe e forti pressioni. Così ti gestisco l’Università di Leccè”, nel quale si riportava il contenuto di presunte registrazioni effettuate da un sindacalista.

Nello stesso giorno il rettore dell’Università prendeva contatti con il lavoratore a mezzo telefono, comunicandogli che per effetto dei suddetti articoli lo avrebbe sospeso dalle funzioni, chiedendogli contestualmente di dimettersi. Il mattino del 22 ottobre 2012 gli veniva comunicato il D.R. n. 1233 del 22 ottobre 2012 di sospensione cautelativa dal servizio. Il 23 ottobre 2012 il Consiglio di amministrazione dell’Ateneo adottava la delibera n. 180 che prolungava fino ad eventuali dimissioni il periodo di sospensione cautelare, invitando il lavoratore a rassegnare le dimissioni entro il 31 ottobre 2012. In data 24 ottobre 2012, il lavoratore, sconvolto per quanto stava accadendo rassegnava le dimissioni dall’incarico con effetto dal Io novembre 2012, unitamente ad un messaggio di saluto alla comunità accademica. Recuperato il controllo delle proprie facoltà cognitive, il lavoratore consegnava al rettore la nota in data 30 ottobre 2012 di revoca delle dimissioni, poi inviata con raccomandata il 10 novembre 2012 e ricevuta in Ateneo il 13 novembre 2012. In data 31 ottobre 2012 il lavoratore riceveva telegramma nel quale gli si comunicava che con D.R. n. 1256 del 30 ottobre 2012 le dimissioni erano state accettate e che il rapporto era da considerarsi risolto con effetto dal 10 novembre 2012…

Il lavoratore con il ricorso introduttivo del giudizio aveva prospettato l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione evidenziando: l’illegittimità del provvedimento di sospensione, in contrasto con gli artt. 10 e 11 del CCNL di settore, con l’art. 97 Cost., e con la legge n. 241 del 1990, e senza la contestuale attivazione di procedimento disciplinare: egli non era stato destinatario di misure restrittive della libertà personale, non aveva ricevuto comunicazione di avvio di procedimento disciplinare, non aveva potuto far valere le proprie ragioni, le dimissioni erano frutto di uno stato di incapacità naturale. Tanto comportava l’inefficacia delle dimissioni ai sensi degli artt. 428 e 1425 cod. civ., che peraltro erano state revocate prima che fosse completato l’iter di accettazione. L’Amministrazione aveva tenuto un atteggiamento vessatorio e discriminatorio.

In data 20 ottobre 2012 sulla Gazzetta del Mezzogiorno veniva pubblicato un articolo che faceva riferimento al contenuto di presunte registrazioni di conversazioni tra un sindacalista e il dirigente appellante, dove, tra l’altro, veniva riportato: “Tu adesso, in questo weekend, domani e venerdì, tra sabato e domenica dopo che ti fai i bagni a mare dici “ma che (…) me ne frega a me di rimanere sempre controcorrente, fammi seguire il consiglio del mio Direttore. Mi mandi questa lettera. Dicendo tu senza creare… questi casini. Mi ripugna doverti sollevare per altri fatti, inventarmi altre strategie, fare destrutturazioni è defatigante. Invece con una soluzione del genere tu mi dai questo piacere, immediatamente tu entri, cambi di libro…” D.P. lo interrompe ” Dal libro nero al libro bianco”. “Si vieni sotto la mia protezione e comincia ad avere un periodo tranquillità, ti occupi delle cose che ti piacciono, ti faccio completare gli studi, ti mando in giro a fare formazione”.

La Corte d’Appello rilevava che la gravità del contenuto del suddetto articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno inducevano l’Università del Salento. con nota del 22 ottobre 2012, n. 1233, per il tramite del rettore a sospendere il Direttore generale.

Il Consiglio di Amministrazione, con atto n. 180 del 23 ottobre 2012, deliberava: 1) di prolungare fino ad eventuali dimissioni il periodo di sospensione, invitandolo a rassegnare le proprie dimissioni entro il 31 ottobre 2012 ed in tal modo evitando l’attivazione delle procedure di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 10 del contratto stesso; 2) nel caso di mancata presentazione delle dimissioni e comunque non oltre il 1° novembre 2012, di dare mandato al rettore di avviare le procedure volte alla risoluzione del contratto per gravi irregolarità nell’adempimento dei compiti affidatigli dallo Statuto di Ateneo ai sensi dell’art. 10 del suddetto contratto.

Con nota del 24 ottobre 2012 il M. comunicava: ‘‘Con la presente rassegno le dimissioni volontarie dall’incarico di direttore generale dell’Università del Salento con decorrenza dal primo novembre 2012. In pari data riprenderò servizio nel mio ruolo dirigenziale presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. In allegato le invio un messaggio di saluto alla Comunità accademica di cui prego la signoria vostra di autorizzare ampia diffusione in data odierna”.

La Corte d’Appello ha affermato che la circostanza secondo cui il lavoratore si fosse dimesso nel timore della risoluzione del contratto adopera dall’Università non poteva comportare l’annullamento dell’atto, dovendosi in ogni caso accertare se il diritto di recesso era stato esercitato in uno stato di diminuite capacità intellettive e volitive o fosse frutto di una opzione cosciente e ponderata fra le dimissioni e la risoluzione prospettata.

Nella fattispecie gli elementi allegati non erano idonei a dimostrare la diminuzione delle sue facoltà intellettive e volitive.

La documentazione e i fatti come sopra descritti evidenziavano che la sospensione cautelare ad opera del Rettore aveva avuto durata brevissima, un giorno, ed era stata ratificata il giorno successivo dal Consiglio di amministrazione.

Il deliberato di quest’ultimo prevedeva una procedura di raffreddamento (sette giorni) integrante uno spatium deliberandi che permetteva al lavoratore, superato il turbamento iniziale, di riflettere sulle sue scelte professionali e di decidere in modo ponderato se optare per un altro incarico, cosa di fatto avvenuta, senza ricevere alcun nocumento di immagine e della posizione dirigenziale che sarebbe rimasta indenne dalla vicenda, o affrontare il procedimento disciplinare in esito incerto.

La documentazione evidenziava altresì l’intento di rispettare l’onorabilità del lavoratore fino a quel momento oggetto solo di articoli di stampa che per come riportati sopra e per come strutturati erano in sé palesemente idonei a gettare discredito sull’andamento e la gestione apparentemente anomala con le controparti sindacali.

Lo stato di incapacità naturale che era stato dedotto nell’atto introduttivo andava escluso proprio in ragione della procedura di raffreddamento descritta Ed anche perché era rimasto indimostrato, in difetto di prova vertente su ulteriori e necessarie circostanze di fatto da documentare.

Andava poi evidenziato che ogni questione sulla coercizione delle dimissioni era esclusa dal comportamento suddetto dell’Università e restava assorbita dalle dimissioni liberamente rassegnate con contestuale assunzione di altro incarico.

La lettera di dimissioni e l’allegato messaggio di saluto nella loro compiutezza sintattica, espositiva e contenutistica, escludevano la sussistenza di uno stato di incapacità naturale o di costruzione del lavoratore al momento della loro sottoscrizione.

La Corte d’Appello ha messo in evidenza che il messaggio alla Comunità accademica riportava: “accolgo l’invito del Consiglio di amministrazione a rimettere le dimissioni per spirito di responsabilità nei confronti dell’Università del Salento … Purtroppo il clamore l’aggressione gratuita alla mia persona impongono questa decisione a segno di tutela dell’Istituzione che sta subendo un vero e proprio atto di sciacallaggio mediatico… Ho voluto scegliere l’alternativa più utile al bene dell’Università pur non avendo alcun obbligo…”.

Il giudice di secondo grado rileva che per la realizzazione di un parziale annullamento delle facoltà mentali sarebbe stato necessario il riscontro di qualche altro elemento, qualche indizio specifico legato a reazione abnormi e realmente inspiegabili, nel caso di specie non allegate ne dimostrate. Non erano ravvisabili effetti coercitivi o intimidatori nell’invito a rassegnare le dimissioni né l’appellante aveva allegato la sussistenza di una situazione psicopatologica tale da poter compromettere anche in via transitoria le sue capacità di intendere e di volere.

Quanto alla prova per interpello del nuovo rettore, e a quella testimoniale reiterata in appello, non potevano risultare utili perché ciascuna articolata su circostanze documentate su fatti, non a diretta conoscenza del nuovo rettore e su capitoli non rilevanti ai fini del decidere, come l’avere il rettore reiterato pubblicamente che il M. gli aveva comunicato la volontà di ritirare le dimissioni. Neppure poteva assumere rilievo la revoca delle dimissioni da parte dell’appellante, atteso l’effetto immediato della risoluzione del rapporto nel momento in cui le dimissioni vengono a conoscenza il datore di lavoro.

Quanto alla prospettata illegittimità della sospensione cautelare, le relative doglianze non erano fondate, in quanto la stessa si caratterizza per la sua strumentalità rispetto al procedimento disciplinare e a quello penale, avendo lo scopo di consentire la tutela di interessi pubblici messi a rischio della gravità dei fatti oggetti di accertamento anche in termini di addebitabilità al dipendente. La Corte costituzionale aveva confermato che la sospensione si collocava con in una fase antecedente all’accertamento della responsabilità disciplinare. Conseguenza dell’impossibilità di qualificare la sospensione cautelare come sanzione disciplinare era dunque l’inapplicabilità dei principi che governano quest’ultima anche sotto l’aspetto procedimentale.

Università: dimissioni del direttore generale
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