Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 dicembre 2021, n. 38658

Malattia professionale, Esposizione all’amianto, Lavoratori
con funzioni impiegatizie, Esclusione

 

Rilevato che

 

il Tribunale di Cosenza, riuniti i ricorsi di alcuni
dipendenti della società L. s.p.a., aveva riconosciuto il diritto dei
ricorrenti ai benefici economici e previdenziali dovuti all’esposizione
ultradecennale qualificata all’azione morbigena di fibre di amianto;

la Corte d’appello di Catanzaro, in parziale riforma
della sentenza di primo grado, ha “stralciato” la posizione di due
dei ricorrenti, nella specie M.V. e C.O., avendo ritenuto che, svolgendo gli
stessi funzioni impiegatizie (la prima di segreteria, il secondo di controllo
delle ditte esterne), avevano avuto con la materia nociva un contatto del tutto
occasionale ed indiretto, circostanza confermata sia dalle testimonianze che
dalla perizia tecnica, e che pertanto, per i predetti, non poteva dirsi
raggiunta la prova della esposizione qualificata alle fibre d’amianto, così
come per gli altri ricorrenti i quali erano addetti all’attività (propriamente)
produttiva; la cassazione della sentenza è domandata da M. V. e C. O. sulla
base di tre motivi di ricorso;

l’Inps ha depositato tempestivo controricorso,
illustrato da successiva memoria.

 

Considerato che

 

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360,
co.1, n. 4 cod. proc. civ., parte ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 170, 300, 303, 305 e 307 cod. proc. civ.;

deduce la nullità della sentenza per non avere la
Corte territoriale dichiarato estinto il giudizio, concedendo all’Inps un
termine per la rinotifica dell’atto di riassunzione in seguito al decesso di
due degli originari ricorrenti, sebbene l’istituto si fosse limitato a
rinotificare l’atto ai soli eredi dei lavoratori deceduti, limitando il diritto
di difesa degli altri;

il motivo non merita accoglimento;

la giurisprudenza di legittimità, statuendo in
merito agli effetti sul processo dei vizi della notifica dell’atto di
riassunzione regolarmente depositato, ne ha escluso l’estinzione, affermandone
la legittimità a condizione che esso contenga gli elementi idonei ad
individuare il giudizio che si intende proseguire, e sostenendo la correttezza
della decisione dei giudice del merito di concedere un nuovo termine perentorio
alla parte procedente;

il principio di diritto richiamato è stato
affermato, anche di recente, da Cass. n. 2526 del 2021, la quale ha affermato
che “Verificatasi una causa d’interruzione dei processo, in presenza di un
meccanismo di riattivazione del processo interrotto, destinato a realizzarsi
distinguendo il momento della rinnovata “edictio actionis” da quello
della “vocatio in ius”, il termine perentorio di sei mesi, previsto
dall’art. 305 c.p.c., è riferibile solo al deposito dei ricorso nella
cancelleria del giudice, sicché, una volta eseguito tempestivamente tale
adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione
successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a
garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti
della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato
rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di
assicurare il rispetto delle regole proprie della “vocatio in ius”.
Ne consegue che il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di
riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla
riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice di ordinare, anche
qualora sia già decorso il (diverso) termine di cui all’art. 305 c.p.c., la
rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291
c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio, solo il mancato
rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il
combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3, e del successivo art. 307,
comma 3, c.p.c.” (cfr. anche Cass. n. 9819 del 2018); tale principio deve
ritenersi consolidato alla stregua di precedenti più risalenti, quale, ad
esempio, Cass. n. 2174 del 2016, ove si afferma che “La riassunzione dei
processo si perfeziona nel momento del tempestivo deposito del ricorso in
cancelleria con la richiesta di fissazione dell’udienza, senza che rilevi
l’eventuale inesatta identificazione della controparte nell’atto di
riassunzione, il quale opera in termini oggettivi ed è valido, per
raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c., quando contenga gli
elementi sufficienti ad individuare il giudizio che si intende proseguire. Ne
consegue che non incide sulla tempestività della riassunzione, ai sensi
dell’art. 305 c.p.c., la successiva notifica del ricorso e dell’unito decreto,
atta invece al ripristino del contraddittorio nel rispetto delle regole proprie
della  “vocatio in ius”,
sicché, ove essa sia viziata o inesistente, o comunque non correttamente
compiuta per erronea o incerta individuazione del soggetto che deve
costituirsi, il giudice è tenuto ad ordinarne la rinnovazione, con fissazione
di nuovo termine, ma non può dichiarare l’estinzione del processo”(cfr.,
altresì, Cass. n. 6921 del 2019);

in base al principio dì diritto richiamato, deve
ritenersi corretta la pronuncia gravata la quale, una volta accertata la
tempestività del deposito del ricorso in riassunzione e l’omessa notifica
dell’atto e del decreto di fissazione dell’udienza, ha provveduto ad ordinarne
la rinnovazione;

quanto all’omessa notifica del ricorso in
riassunzione agli odierni ricorrenti, va, comunque, segnalato che la doglianza
è genericamente formulata, atteso che parte ricorrente non trascrive e non
produce copia del verbale d’udienza da cui risulti che la predetta eccezione è
stata mossa al giudice dell’appello, e che il provvedimento impugnato non
richiama ulteriori eccezioni formulate dagli appellanti, riferendo unicamente
l’eccezione d’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 434 cod.
proc. civ., riguardante il diverso profilo della “latitudine
devolutiva” e dell’ambito qualitativo del giudizio di gravame;

col secondo motivo, i ricorrenti deducono violazione
e falsa applicazione dell’art. 434 cod. proc. civ.; sollecitano una diversa
soluzione all’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta per violazione
dell’art. 434 cod. proc. civ., respinta dalla Corte territoriale perché
ritenuta difforme dalla ratio contenuta nel nuovo testo della norma
processuale;

il secondo motivo va dichiarato inammissibile;

parte ricorrente, invocando la violazione dell’art.
434 cod. proc. civ., oppone critiche alla decisione della Corte territoriale,
lamentando che nel primo motivo del ricorso in appello l’Inps si fosse limitato
a sollevare genericamente un deficit probatorio, senza precisare null’altro;
che nel secondo motivo avesse criticato le risultanze della prova testimoniale
in modo generico, senza riportare le dichiarazioni giudicate inattendibili; che
nel terzo motivo avesse contestato, in modo laconico e per la prima volta in
appello, gli esiti della consulenza tecnica;

in altri termini, parte ricorrente si limita a prospettare
una diversa lettura degli atti di causa, omettendo di trascrivere (o di
allegare) il ricorso in appello proposto dall’Inps nei confronti del quale
rivolge le sue osservazioni critiche;

col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360,
co.1, n. 3 e n. 5, parte ricorrente contesta “Violazione e falsa
applicazione della I. n.257 del 1992”; si duole sostanzialmente del merito
del mancato riconoscimento dei benefici previdenziali di cui all’art. 13, co.8,
I. n. 257 del 1992, come modificato dall’art. 47 d.l. n.269 del 2003, in base
all’accertata occasionalità dell’esposizione all’amianto; asserisce che la
legge riconoscerebbe il beneficio indipendentemente da qualsiasi limite
quantitativo, per il fatto stesso che l’ambiente di lavoro presenta un rischio
rilevante di esposizione; che, nel caso in esame, la stessa CTU aveva accertato
come nello stabilimento vi fossero molteplici fonti di possibile rilascio di
fibre di materiale nocivo (guarnizioni delle caldaie, fogli di amianto„
coibenti, copertura e murature di tompagno);

la censura è infondata;

la Corte territoriale ha svolto un esaustivo esame
del tipo di esposizione all’amianto a cui gli odierni ricorrenti sono stati
soggetti, ritenendone provata la mera saltuarietà, e, dunque escludendo
l’esposizione qualificata, intesa dalla legge quale elevato grado di
probabilità di esposizione in misura superiore alle soglie da questa stessa
indicate (Cass. n. 25050 del 2015); secondo la consolidata giurisprudenza di
questa Corte, “In tema di benefici previdenziali in favore dei lavoratori
esposti all’amianto, anche in mancanza di certificazione dell’ INAIL spetta al
giudice di merito accertare l’esposizione del lavoratore al rischio qualificato
ultradecennale, valutando gli elementi probatori in suo possesso, ivi compresi
gli atti di indirizzo del Ministero del lavoro, con apprezzamento di situazioni
di fatto non suscettibile di riesame, in sede di legittimità, se congruamente
motivato”(Così Cass. n. 3095 del 2007; cfr. anche Cass. n. 20164 del 2010
e Cass. n. 588 del 2016);

quanto alla censura di vizio di motivazione, essa
non è da accogliersi, in quanto fuoriesce dal perimetro indicato dall’art. 360,
co.1, n. 5 cod. proc. civ. nella versione vigente, né parte ricorrente indica
in dettaglio in che cosa si sostanzi il difetto denunciato (Sez. Un. n.8053 del
2014);

nel caso in esame la Corte d’appello ha
correttamente motivato, senza incorrere in violazione di legge o in vizi
logico-argomentativi, circa il mancato raggiungimento della prova del grado di
esposizione alla sostanza morbigena ai fini dell’attribuzione dei beneficio
richiesto;

ha valutato la correttezza del metodo prescelto dal
CTU il quale, nell’impossibilità di procedere a una misurazione strumentale
diretta della concentrazione di fibre di amianto disperse nei vari ambienti di
lavoro e nelle varie fasi del processo produttivo in ragione del lungo tempo
trascorso e dell’avvenuta bonifica dell’area, ha utilizzato i dati delle
misurazioni effettuate nel corso degli anni, unitamente ad elementi presuntivi desunti
dalla tipologia di materiali utilizzati e di lavorazioni praticate; ha validato
la scelta peritale di prendere in considerazione “…le mansioni dei
lavoratori, la contemporaneità delle varie attività foriere di rilascio di
fibre d’amianto, l’assenza di adeguate protezioni, la mancanza di suddivisione
netta in reparti, le misurazioni effettuate nel corso del tempo, che hanno
certificato la presenza di fibre aereodisperse con valori superiori ai limiti
di legge, arrivando ad escludere l’esposizione qualificata solo per quei
lavoratori che, in quanto impiegati in ufficio, avevano una mera esposizione
indiretta e solo saltuariamente diretta alle fibre d’amianto, riguardando
invece, quella qualificata, tutti i lavoratori addetti ai reparti, a prescindere
dalle lavorazioni/attività nei quali erano impegnati, per il solo fatto di
lavorare a contatto diretto con i colleghi che manipolavano sostanze contenenti
amianto” (p. 8 sent.); tale conclusione appare conforme ai principi di
diritto affermati da questa Corte (cfr. Cass. n. 6543 del 2017), la quale,
trattando di un’ipotesi analoga a quella in esame, in cui in virtù del tempo
trascorso era avvenuta una bonifica dell’impianto, con corrispondente modifica
dello stato dei luoghi, ha affermato che “In un giudizio sulla spettanza
della rivalutazione contributiva di cui all’art. 13, comma 8, della I. n. 257
del 1992, una volta assunti gli elementi probatori dedotti dalle parti sui
fatti concernenti l’attività lavorativa, la prova del superamento dei limiti di
soglia (anche in termini di rilevante grado di probabilità), salvo che non sia
già fornita da altre fonti, come rilevazioni tecniche attendibili, atti
d’indirizzo ministeriali, consulenze tecniche di ufficio espletate in altre
cause sulla stessa situazione di fatto, richiede necessariamente un giudizio di
carattere tecnico-scientifico demandato ad una c.t.u.,

che, riguardando, per lo più, una situazione
lavorativa non più esistente (a seguito della cessazione dell’utilizzo
dell’amianto disposta con la I. n. 257 del 1992), non richiede alcun
esperimento riferito all’attualità, ma implica soltanto il riferimento a dati
di esperienza e scientifici (come le banche dati in possesso dell’INAIL o di
altri istituti internazionali), ai cui fini a nulla rileva il tempo trascorso o
la modifica dello stato dei luoghi rispetto all’attività di lavoro dedotta nei
giudizio”;

in definitiva, il ricorso va rigettato; le spese,
come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono
i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al
rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore del
controricorrente, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per
compensi professionali oltre spese generali nella misura forfetaria dei 15 per
cento e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, nel testo introdotto comma 17 della I. n.228 dei 2012, dà atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello,
ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 dicembre 2021, n. 38658
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