Va risarcito il danno determinato da reiterate condotte, poste in essere da un superiore gerarchico, palesemente volte a sminuire e a declassare la personalità del lavoratore.
Nota a Cass. 17 novembre 2021, n. 35061
Giuseppe Catanzaro
“La serie di comportamenti di carattere persecutorio e con intento vessatorio integranti il mobbing può pervenire direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi. La circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo”.
Lo afferma la Corte di Cassazione (17 novembre 2021, n. 35061, conf. ad App. Roma n. 10311/2015; v. anche Cass. n.18093/2013 e Cass. n. 22858/2008), in accoglimento del ricorso di una lavoratrice dipendente del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale.
Nello specifico, i giudici rilevano che il giudice dell’appello ha positivamente verificato:
– sia la ricorrenza dell’intenzionalità della condotta che la finalità di emarginazione della dipendente, necessarie alla configurazione della fattispecie del mobbing (sull’elemento soggettivo del mobbing, v. tra le tante: Cass. n. 29767/2020, in q. sito annotata da S. ROSSI e n. 7487/2020), precisando che si era trattato di un complesso di condotte reiterate “palesemente volte a sminuire e declassare la personalità della lavoratrice sia all’esterno che all’interno del contesto lavorativo…tanto da renderlo, per quest’ultima, intollerabile e provocarne… l’allontanamento”;
– la violazione di diritti personali della lavoratrice di rilievo costituzionale, quali il diritto alla dignità sul luogo di lavoro (art.2 Cost.) ed il diritto alla salute (art. 32 Cost.);
– la responsabilità (ex art. 2087 c.c.), oltre che della direttrice (autrice materiale delle condotte), del Ministero degli esteri, quale datore di lavoro.
Inoltre, il CTU ha accertato che la condotta del datore di lavoro aveva cagionato alla dipendente un danno biologico, consistente in «disturbo dell’adattamento, in soggetto con disturbo dipendente di personalità con tratti evitanti», produttivo di una invalidità permanente del 4% e di una invalidità temporanea parziale al 25% per giorni 60.