Plurimi atti di emarginazione, isolamento e demansionamento del lavoratore costituiscono un comportamento mobbizzante con relativo diritto al risarcimento del danno.
Nota a Cass. (ord.) 2 dicembre 2021, n. 38123
Marco Mocella
“Ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti, o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi…Quindi, l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto”.
Il principio è ribadito dalla Corte di Cassazione (ord. 2 dicembre 2021, n. 38123, conf. ad App. Potenza; v. anche Cass. n. 26684/2017), la quale ha precisato che, nella fattispecie, il giudice del merito ha rilevato la progressiva marginalizzazione della lavoratrice, concretizzatasi: 1) nello spostamento (giustificato col preteso recupero di una postazione per gli assessori, poi assegnata ad altra collega) in una stanza al piano terreno destinata alle relazioni con il pubblico (front office) e caratterizzata da carenze logistiche (fascicoli poggiati sul pavimento per mancanza di scaffali) e compiti estranei alle responsabilità proprie delle sue mansioni; 2) nessuna conferma nella posizione organizzativa dell’area amministrativa, affidata ad altro collega che in passato era stato valutato inidoneo alla posizione organizzativa e di coordinamento, e poi, dopo il pensionamento di quest’ultimo, affidata ad altri; 3) svuotamento sistematico delle mansioni ed emarginazione, attuata anche con il mancato smistamento della corrispondenza destinato all’ufficio della lavoratrice in questione che, così, veniva privata delle necessarie informazioni; 4) sottoposizione ad un’azione disciplinare poi conclusasi con archiviazione; 5) tolleranza di un’aperta conflittualità con altro collega.
Accertando la mera possibilità del conferimento della posizione organizzativa, la Corte d’Appello ha riconosciuto la sussistenza di un danno biologico, confermando la decisione del giudice di primo grado che aveva applicato le Tabelle di Milano, dopo avere disposto CTU per la determinazione della lesione all’integrità psico-fisica, anche sulla scorta delle osservazioni medico legali di parte. In relazione a tale danno, il Tribunale aveva altresì applicato il massimo coefficiente di personalizzazione del danno, tenendo conto del c.d. danno morale, ossia dell’accertata sofferenza interiore ragionevolmente cagionata dal vissuto negativo della lavoratrice (v. Cass. n. 11754/2018); e di un patrimoniale da perdita di “chance”, calcolato come “danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ‘ex ante’ da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale; l’accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa, sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità se adeguatamente motivati” (così, Cass. n. 2737/2015).
In tema, v., in q. sito, il Focus “Mobbing”.