Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 dicembre 2021, n. 40003
Rapporto di lavoro, Orario inferiore a quello effettivamente
osservato, Regolarizzazione, Differenze retributive
Rilevato che
con la sentenza impugnata è stata confermata la
pronunzia di primo grado con la quale è stata rigettata la domanda proposta da
L. M. nei confronti di T. M. – nella qualità di titolare dell’omonima ditta e
di legale rapp.te della società “L.V.I. s.n.c. di M. T. & C.” e
“L.V.I. s.a.s. di M. T. & C.” – e di M.D.B. – socia
amministratrice della società “L.V.I. s.n.c. di M. T. e D.B. M. &
C.” -, volta al conseguimento di differenze retributive per l’attività
lavorativa, svolta dal 1° gennaio 1999 all’8 marzo 2015 con regolarizzazione
solo dal 28 giugno 2012 per un orario inferiore a quello effettivamente
osservato, consistita in vendita al pubblico di fiori, rilascio di scontrini e
ricezione del relativo pagamento;
per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso L.
M., affidato a quattro motivi;
T. M. e M.D.B. sono rimaste intimate;
la ricorrente ha presentato memoria riportandosi
alle richieste e conclusioni del ricorso;
il P.G. non ha formulato richieste.
Considerato che
con il primo motivo la ricorrente – denunciando
violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 116 c.p.c. e 2697 c.c.,
nonché difetto di motivazione in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5,
c.p.c. – si duole che il giudice di appello abbia condiviso la motivazione del
giudice di primo grado nella parte in cui ha valorizzato prove testimoniali
irrilevanti e non considerato quelle, precise e circostanziate, dalla medesima
dedotte, come previsto dall’art. 116 c.p.c., con la conseguente sussistenza del
vizio di motivazione;
con il secondo motivo – denunciando violazione e
falsa applicazione degli artt. 244, 253, 115 e 116 c.p.c., nonché 2697 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che la Corte di
Appello non abbia posto rimedio all’errore del giudice di primo grado nella
conduzione dell’esame testimoniale, non avendo il giudice medesimo formulato
domande sulla base dei capitoli predisposti dalla ricorrente, né esercitato la
facoltà di rivolgere ai testi domande ritenute utili a chiarire i fatti;
con il terzo motivo – denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 209, 244, 111 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 2697
c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. – si duole che il
giudice di primo grado non abbia espresso una valida motivazione atta a
giustificare, ritenuta la causa sufficientemente istruita, la revoca
dell’ordinanza di ammissione dei testi;
con il quarto motivo – denunciando violazione e
falsa applicazione degli artt. 2955 e 2956 c.c., in relazione all’art. 360,
primo comma, n. 5, c.p.c. – lamenta che dell’eccezione di prescrizione
presuntiva proposta dalle controparti in primo grado, che implicherebbe il
riconoscimento dell’esistenza del credito nella misura richiesta dal creditore,
non vi sia traccia nella sentenza di primo grado né in quella di appello, non
essendovi alcun riferimento “quale implicita ammissione dell’esistenza del
rapporto di lavoro con le modalità ed i tempi indicati dalla ricorrente”;
sicché l’inesistenza di qualsiasi motivazione renderebbe cassabile la sentenza.
Ritenuto che
il primo motivo è inammissibile, poiché «per dedurre
la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in
contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia
posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte
di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere
di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al
notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le
prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad
alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita
dall’art. 116 c.p.c.» (così
Cass. 09/06/2021, n. 16016); inoltre, «il principio del libero convincimento,
posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano
dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la
denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito
(…) configura (…) un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso
il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti
consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54
del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012» (cfr.,
sul punto, da ultimo, Cass. 11/02/2021, n. 3572);
del resto, in riferimento alla censura ex art. 360,
primo comma, n. 5, c.p.c., nella quale si risolve nella sostanza il motivo di
doglianza, vale la preclusione derivante dalla cd. “doppia conforme”
ex art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., non avendo la ricorrente dimostrato che
le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo
grado e della sentenza di rigetto dell’appello sono tra loro diverse (v., al
riguardo, Cass. 22/12/2016 n. 26774);
il secondo motivo è del pari inammissibile, già sol
perché non sono state riprodotte in ricorso le parti dei verbali di causa dalle
quali evincere il dedotto errore del giudice di primo grado, né dell’atto di
appello contenente la denunzia del predetto errore; dovendo comunque ribadirsi,
quanto alla facoltà del giudice di rivolgere al teste le domande che egli
ritiene utili per chiarire i fatti sui quali quest’ultimo è chiamato a deporre,
che il mancato esercizio di ufficio di tale facoltà (qualora non vi sia stata
un’istanza di parte funzionale ad ottenere tali chiarimenti) non può essere
oggetto di impugnazione, costituendo essa espressione di un potere meramente
discrezionale del giudice (così Cass. 6/04/2005, n. 7109);
il terzo motivo è ancora inammissibile, per
l’assorbente ragione che i vizi con esso fatti valere, attenendo al giudizio di
primo grado, integrano una critica alla pronunzia del grado stesso e non a
quella adottata in sede di gravame;
anche il quarto motivo – che si risolve, al di là di
un formale richiamo anche alla violazione di legge, in una censura per vizio di
motivazione (come desumibile dalla parte argomentativa del motivo stesso, nel
quale peraltro non è riportata la parte dell’atto di appello contenente apposita
critica avverso l’asserito difetto di motivazione della sentenza di primo
grado) – è inammissibile, attesa la già evidenziata preclusione derivante dalla
cd. “doppia conforme” ex art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c.;
non vi è luogo per una pronuncia sulle spese nei
confronti delle controparti, rimaste intimate;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso; nulla sulle
spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso
articolo 13, se dovuto.