Il datore di lavoro che proceda ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve dimostrare l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento, fermo tuttavia restando che una proposta di reimpiego del lavoratore in altre mansioni successiva al licenziamento rileva quale situazione che, laddove sussistente al momento del medesimo licenziamento, può valere ad escluderne la giustificazione.
Nota a Cass. (ord.) 18 gennaio 2022, n. 1386
Emilio Balletti
“Il giustificato motivo oggettivo che rende legittimo l’intimato licenziamento si configura … in assenza di collocazioni alternative del prestatore d’opera all’epoca del licenziamento stesso; questo può considerarsi legittimo ove la determinazione del datore di lavoro di recedere dal rapporto sia motivata dall’impossibilità di destinare il lavoratore a mansioni diverse: situazione che, per condizionare il valido esercizio del diritto potestativo del datore di lavoro, deve evidentemente sussistere nel momento in cui è espressa la volontà di recedere, e non in un momento successivo”. Pertanto, l’impossibilità di assegnare al prestatore mansioni diverse deve riguardare il contesto organizzativo aziendale esistente all’epoca del licenziamento e non basarsi su una proposta di reimpiego della dipendente formulata dalla società fallita dopo il licenziamento.
Questo, il rilevante principio ribadito dalla Corte di Cassazione (ord. 18 gennaio 2022, n. 1386, diff. da Trib. Roma 18 maggio 2015) ripercorrendo gli orientamenti giurisprudenziali consolidati in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in particolare nel senso che:
a) ai fini del licenziamento de quo, la legge (art. 3, L. n. 604/1966) richiede: 1) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore medesimo; 2) “la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali — insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati — diretti ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività”; 3) l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse (v. Cass. n. 24882/2017, in q. sito con nota di A. LARDARO);
b) quale requisito di legittimità del recesso, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchagedel dipendente licenziato (v., fra tante, Cass. n. 160/2017, in q. sito con nota di F. BELMONTE; n. 5592/2016, annotata in q. sito da G.I. VIGLIOTTI);
c) il datore ha l’onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti (v. Cass. n. 29099/2019; Cass. n. 4509/2016);
d) la prova dell’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva deve tenere conto della organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento ( Cass. n. 13116/2015; Cass. n. 13112/2014).
Ciò, tuttavia, con la precisazione, sempre da parte della medesima odierna pronunzia n. 1386/2022 della Suprema Corte, che una proposta di reimpiego del lavoratore successiva al licenziamento “risulta … coerente con l’esistenza, perlomeno nel momento in cui fu manifestata, di un reimpiego” del lavoratore “in altre mansioni (con un dato, cioè, che, riflette una situazione la quale, laddove sussistente al momento del licenziamento, di poco anteriore, non avrebbe potuto giustificare quest’ultimo)”.