I giorni di assenza dal lavoro trascorsi in quarantena per positività al Coronavirus non sono computabili ai fini del periodo di comporto.
Nota a Trib. (ord.) Asti 5 gennaio 2022
Sonia Gioia
Il periodo di isolamento trascorso in quarantena, con sorveglianza attiva e/o in permanenza domiciliare fiduciaria, dai dipendenti del settore privato, è assimilato alla malattia ai fini del trattamento economico e non è computabile ai fini del periodo di comporto non solo per i dipendenti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia ma anche per i prestatori risultati positivi al virus.
Ciò, allo scopo “di non far ricadere sul lavoratore le conseguenze dell’assenza dal lavoro che sia riconducibile causalmente alle misure di prevenzione e di contenimento previste dal legislatore e assunte con provvedimento dalle autorità al fine di limitare la diffusione del virus Covid-19, in tutte le ipotesi di possibile o acclarato contagio dal virus e a prescindere dallo stato di malattia”, che può coesistere o meno con il contagio, come nel caso dei positivi asintomatici.
Lo ha stabilito il Tribunale di Asti (5 gennaio 2022) in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato ad una dipendente, con mansioni di commessa, posta dapprima in quarantena e successivamente in isolamento fiduciario per positività al Coronavirus.
La lavoratrice, nello specifico, lamentava l’illegittimità del recesso per mancato superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro, indicato in 180 giorni dal contratto collettivo applicato al rapporto di impiego (ccnl terziario distribuzione e servizi), sul presupposto che dai 183 giorni di assenza maturati nell’anno solare alla data del 4 dicembre 2020 andava dedotto il periodo, pari a 10 giornate, coperto dai provvedimenti restrittivi della quarantena e dell’isolamento fiduciario disposti dall’autorità sanitaria.
Al riguardo, il Tribunale ha precisato che “ciò che contraddistingue la malattia da Covid-19 dalle altre malattie è l’impossibilità, imposta autoritativamente, per il lavoratore di rendere la prestazione lavorativa e per il datore di lavoro di riceverla in tempi normativamente e amministrativamente previsti”, che dipendono soltanto dalla positività o meno al virus e prescindono dall’evoluzione della patologia.
A tutela dei prestatori che sono costretti a rimanere assenti dal lavoro in quanto attinti da misure di contenimento della diffusione del virus, l’art. 26, co. 1, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. Cura Italia), convertito con modificazioni in L. 24 aprile 2020, n. 27, nella versione ratione temporis vigente, prevedeva che il periodo trascorso dai lavoratori dipendenti del settore privato in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva (ex art. 1, co. 2, lett. h) e i), D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla L. 5 marzo 2020, n. 13), in quarantena precauzionale o per positività al virus (ex art. 1, co. 2, lett. d) ed e) D. L. 25 marzo 2020, n. 19), fosse “equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento”.
Tali periodi, inoltre, non sono da computare per il raggiungimento del limite massimo previsto per il comporto nell’ambito del rapporto di impiego (art. 26, co. 1, D.L. n. 18 cit.), vale a dire il periodo durante il quale il prestatore assente dal lavoro ha diritto alla conservazione del posto (art. 2110 c.c.).
Ai fini del riconoscimento di siffatta tutela, il lavoratore deve produrre il certificato di malattia attestante il periodo di quarantena o di isolamento fiduciario nel quale il medico curante indica gli estremi del provvedimento emesso dall’operatore di sanità pubblica (art. 26, co. 3, D.L. n. 18 cit.).
Secondo il giudice, poiché la normativa emergenziale fa espresso riferimento sia alla quarantena che all’isolamento fiduciario, va equiparato alla malattia e non può essere valutato ai fini del superamento del periodo di comporto non solo il tempo trascorso in quarantena precauzionale dai lavoratori che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia diffusiva o che siano rientrati da zone a rischio epidemiologico ma anche quello passato in isolamento domiciliare, per effetto di un provvedimento del sindaco, quale autorità sanitaria locale, da coloro che siano risultati positivi al virus (in questo senso, si è espresso recentemente anche Trib. Palmi ord. 13 gennaio 2022).
La tutela apprestata dall’art. 26, D.L. n. 18 cit. trova applicazione limitatamente agli eventi verificatisi entro il 31 dicembre 2021, mentre, a partire dal 1 gennaio 2022, le assenze dal lavoro, riconducibili ai provvedimenti di quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria, non sono più considerate malattia, salvo che il prestatore abbia contratto l’infezione da SARS-CoV-2, dal momento che il legislatore non ha provveduto al rifinanziamento del Fondo per l’indennità di malattia destinato ai lavoratori sottoposti a misure di contenimento della diffusione del virus (ex art. 26, co. 5, D.L. n. 18 cit.).
Nel caso di specie, il Tribunale ha dichiarato la nullità del licenziamento della dipendente per mancato superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro, dal momento che la società datrice aveva erroneamente computato, ai fini del comporto, i dieci giorni di assenza originati dai provvedimenti di quarantena e isolamento fiduciario disposti dall’autorità sanitaria, con conseguente condanna alla reintegrazione nel posto di impiego e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, ai sensi dell’art. 18, co. 7 e 4, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori).