Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 febbraio 2022, n. 3167
Infortunio sul lavoro, Violazione delle norme
antinfortunistiche, Obbligo formativo, Prova, Mancata adozione delle misure
idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, Responsabilità datoriale
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 3.11.2015, la Corte
d’appello di Catanzaro, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto
la domanda di regresso proposta dall’INAIL nei confronti di P.S. ed E. s.r.l.,
condannandoli a rifondere il costo dell’infortunio sul lavoro occorso a F.P. in
data 1.8.2007.
La Corte, per quanto rileva in questa sede, ha
anzitutto valorizzato, ai fini dell’accertamento della responsabilità
datoriale, la sentenza penale resa ex art. 444 c.p.p. con cui P.S. aveva avuto
applicata su richiesta una pena pecuniaria per il reato di cui all’art. 590
c.p., aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche; indi, ha
ritenuto, anche alla luce dell’istruttoria espletata in prime cure, che il
datore di lavoro avesse solo in parte adempiuto agli obblighi formativi del
personale per ciò che concerneva l’uso degli strumenti di lavoro e dei
dispositivi di protezione individuale, non essendo stato in specie dimostrato
il loro assolvimento anche in ordine alle attività di taglio dei rami da
effettuare a terra senza impiego di motosega, che costituiva l’occasione di
lavoro nel cui ambito era occorso l’infortunio, e che, comunque, non avesse
efficacemente vigilato affinché i lavoratori rispettassero le norme di sicurezza.
Avverso tali statuizioni P.S. ed E. s.r.l. hanno
proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura. L’INAIL
ha resistito con controricorso, successivamente illustrato con memoria.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte,
con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano
violazione dell’art. 444 c.p.p. per avere la Corte di merito attribuito rilievo
decisivo alla sentenza con la quale P.S. aveva avuto applicata su richiesta una
pena pecuniaria per il reato di cui all’art. 590 c.p., aggravato dalla
violazione delle norme antinfortunistiche: ad avviso di parte ricorrente,
infatti, il rilievo del decisum in sede penale sarebbe nella specie
inversamente proporzionale all’analiticità dell’approfondimento espletato in
sede civile dal giudice di primo grado, onde non avrebbe potuto essergli
conferita la decisività attribuitagli dalla sentenza impugnata.
Con il secondo motivo, i ricorrenti si dolgono della
mancata individuazione (e comunque della non corretta applicazione) delle
disposizioni antinfortunistiche pretesamente violate: a loro avviso, infatti,
la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con gli artt. 111 Cost., 132 n.
5 c.p.c. e 118 att. c.p.c., dal momento che la mancata individuazione delle
regulae iuris applicabili non consentirebbe la verifica dei passaggi
logico-deduttivi che avrebbero indotto i giudici a ritenere il loro
comportamento in contrasto con la legge vigente ratione temporis.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano errata
qualificazione del fatto storico e vizio di ultrapetizione per avere la Corte
territoriale ritenuto che gli obblighi formativi del personale fossero stati
adempiuti solo con riferimento all’uso della motosega e che non si fosse
adeguatamente vigilato sul rispetto delle norme di sicurezza da parte dei
lavoratori.
Con il quarto motivo, le stese doglianze sono
ripetute sotto il diverso profilo deN’omesso esame circa fatti decisivi per il
giudizio.
Ciò posto, il primo motivo è infondato.
Come pure correttamente riconoscono gli odierni
ricorrenti, la questione dell’efficacia nel presente giudizio del giudicato
penale di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., ancorché
affrontata dai giudici territoriali con il richiamo ai principi di diritto
affermati da questa Corte di legittimità con la sentenza n. 7071 del 2006 (e
costantemente ribaditi: cfr. da ult. Cass. n. 29142 del 2021), secondo cui
l’applicazione della pena su richiesta implica di necessità un giudizio di
responsabilità fondato sull’ammissione del fatto storico di cui ben può il
giudice civile tener conto ai fini della risoluzione della controversia
pendente davanti a lui, è stata nondimeno circoscritta, nel caso di specie,
alla necessità di valutare gli elementi acquisiti al processo “anche alla
luce dell’ammissione di responsabilità” del datore di lavoro in sede
penale (così la sentenza impugnata, pag. 6): ne fa fede la successiva e ampia
disamina del materiale probatorio acquisito in primo grado, peraltro introdotta
dall’affermazione secondo cui “in ogni caso, anche a prescindere da tale
tematica, nell’ipotesi in esame le risultanze istruttorie consentono di
pervenire alla conclusione che parte datoriale abbia violato l’obbligo, da cui
era gravato, di controllo e formazione dei lavoratori” (ibid.). Ed è
appena il caso di aggiungere che non potrebbe devolversi in questa sede di
legittimità una critica della ponderazione che i giudici di merito abbiano
effettuato dell’uno o dell’altro degli elementi istruttori acquisiti al
processo senza con ciò stesso chiedere un riesame del merito della causa, che è
cosa non ammissibile davanti a questa Corte di cassazione.
Parimenti infondato è il secondo motivo: in disparte
il rilievo, peraltro di per sé solo decisivo, secondo cui l’obbligo di dotare
di “occhiali, visiere o schermi appropriati” i “lavoratori
esposti al pericolo di offesa agli occhi per proiezioni di schegge o di
materiali […] comunque dannosi” era posto, al tempo dei fatti per cui è
causa, dall’art. 382, d. P.R. n. 547/1955, è sufficiente al riguardo ricordare
che la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure
idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, quando non siano
rinvenibili norme specifiche, discende pur sempre dalla norma di ordine
generale di cui all’art. 2087 c.c., che impone all’imprenditore l’obbligo di
adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la
particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie
a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori (così, tra le più recenti, Cass.
n. 22710 del 2015); ed è noto che il difetto di motivazione su questione di
diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione
della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad
un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame, ben potendo
questa Corte di legittimità correggere la motivazione anche a fronte di un
error in procedendo, quale la motivazione omessa o lacunosa, mediante
l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta
(così Cass. S.U. n. 2731 del 2017).
Sono invece inammissibili il terzo e il quarto
motivo: essi, infatti, si propongono chiaramente di censurare la ricostruzione
dei fatti operata dai giudici territoriali, e segnatamente la duplice
circostanza secondo cui gli obblighi formativi ai fini della prevenzione
antinfortunistica erano stati assolti solo con riguardo al corretto utilizzo
della motosega (e non anche per il taglio dei rami da eseguire a terra senza
l’ausilio di mezzi motorizzati) ed era mancata un’efficace vigilanza
sull’impiego dei dispositivi di protezione da parte dei lavoratori, nonostante
essi fossero adusi a togliere il casco di protezione in presenza di elevate
temperature all’esterno; ed è evidente che lo scrutinio di tali censure, che
pure prospettano plausibili argomenti in linea di fatto già fatti propri dal
primo giudice, finirebbe con l’addossare a questa Corte precisamente quel
compito di pronunciarsi su quale dei due apprezzamenti di fatto privilegiare
che le stesse parti ricorrenti, affatto correttamente, ritengono non
appartenerle.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del
giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da
dispositivo. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono inoltre i
presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti
alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in €
7.500,00, di cui € 7.300,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari
al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13.