Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 febbraio 2022, n. 4537
Contributi omessi, Cartella esattoriale, Opposizione,
Configurabilità di un valido contratto di associazione in partecipazione
Rilevato in fatto
che, con sentenza depositata il 3.8.2015, la Corte
d’appello di Torino, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato
l’opposizione proposta da R.C.B. s.p.a. avverso la cartella esattoriale con cui
le era stato ingiunto di pagare all’INPS somme per contributi omessi in danno
di tre lavoratrici associate in partecipazione e di una collaboratrice a
progetto, ritenute tutte lavoratrici subordinate; che avverso tale pronuncia
R.C.B. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo sei motivi di
censura; che l’INPS ha resistito con controricorso;
Considerato in diritto
che, con il primo motivo, la ricorrente denuncia
violazione degli artt. 2697, 2699 e 2700 c.c., 116 c.p.c. e 111 Cost., per
avere la Corte di merito ritenuto che alle dichiarazioni rese dalle lavoratrici
in sede di accesso ispettivo potesse attribuirsi maggior valore probatorio
rispetto alle contrastanti deposizioni testimoniali da loro stesse rese in
giudizio, ancorché si tratti di prove atipiche semmai utilizzabili come
argomento di prova;
che, con il secondo motivo, la ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione degli artt. 2549, 2552, 2553 e 2554 c.c., nel
testo vigente all’epoca della stipula dei contratti di associazione in
partecipazione (giugno 2010), per avere la Corte territoriale ritenuto che, ai
fini della configurabilità di un valido contratto di associazione in
partecipazione, fossero necessarie sia la partecipazione dell’associato alle
perdite d’impresa che la sua ingerenza nella gestione della medesima;
che, con il terzo motivo, la ricorrente si duole di
violazione e falsa applicazione dell’art. 2550 c.c. per avere la Corte di
merito ritenuto che il consenso di alcuna delle associate all’associazione di
altre dovesse essere espresso in forma scritta;
che, con il quarto motivo, la ricorrente deduce
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere la Corte
territoriale considerato che l’associata, che in ipotesi avrebbe dovuto
prestare il consenso per iscritto, si era dimessa prima ancora della
stipulazione del contratto di associazione in partecipazione con le altre due
associate; che, con il quinto motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 2094 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto
applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato ancorché non vi
fosse prova dell’assoggettamento delle associate al potere gerarchico e
disciplinare dell’impresa, avendo piuttosto i testi riferito di suggerimenti
circa le modalità di esposizione della merce, della libertà di assentarsi dal
lavoro, dell’assenza di orari e di ampi margini di auto-organizzazione tra le
associate stesse in ordine alla presenza in servizio, alla concessione di
sconti e alla gestione degli approvvigionamenti; che, con il sesto motivo, la
ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 69, d.lgs. n.
276/2003, per avere la Corte territoriale ritenuto che la norma cit., anche nel
testo vigente prima della modifica apportata dalla legge n. 92/2012,
comportasse l’automatica conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato
dei contratti a progetto mancanti di specifico progetto, senza possibilità di
prova contraria;
che, con riguardo al primo motivo, va
preliminarmente ricordato che la costante giurisprudenza di questa Corte di
legittimità, nel reputare ammissibili le prove atipiche, ne riconosce rilevanza
esclusivamente in relazione alla maggiore o minore efficacia probatoria ad esse
riconosciuta dal giudice di merito (così da ult. Cass. n. 8459 del 2020); che
le dichiarazioni provenienti da terzi e raccolte nei verbali redatti dai
funzionari degli enti previdenziali costituiscono materiale probatorio che è
liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, unitamente alle altre
risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti (così, tra le
innumerevoli, Cass. n. 9251 del 2010), esulando dal sindacato di legittimità la
valutazione compiuta dal giudice di merito che abbia valorizzato le
dichiarazioni rese dagli informatori agli ispettori nel confronto con le
ulteriori emergenze processuali, tra cui le deposizioni testimoniali rese in
giudizio, e salvo che si lamenti omesso esame circa un fatto decisivo ex art.
360 n. 5 c.p.c. (così da ult. Cass. n. 3634 del 2020, in motivazione);
che, proponendosi il motivo in esame di censurare
precisamente la “prevalente efficacia probatoria” attribuita dai
giudici territoriali alle dichiarazioni rese dalle lavoratrici nel corso
dell’audizione resa agli ispettori del lavoro, ne va senz’altro rilevata
l’inammissibilità;
che, con riguardo al secondo motivo, va ricordato
che la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro effettuata dal giudice
di merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla
scelta dei parametri normativi di sussunzione, mentre l’accertamento degli
elementi che rivelano l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso
concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono
idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli legali costituisce
apprezzamento di fatto, che resta insindacabile in cassazione se non nei limiti
di cui all’art. 360 n. 5
c.p.c.;
che, al riguardo, la Corte territoriale ha per un
verso accertato che le lavoratrici associate in partecipazione avevano
percepito “una somma fissa mensile” senza alcun conguaglio rispetto
agli utili (la partecipazione al 10% dei quali, giusta la lettera del
contratto, avrebbe dovuto invece costituire la base di riferimento per il loro
compenso), e per un altro verso che gli unici due rendiconti depositati in
atti, che “non risultano né sottoscritti né tantomeno approvati dalle
lavoratrici”, appaiono “elaborati unicamente al fine di accreditare
la genuinità dell’associazione in partecipazione” (così la sentenza
impugnata, pagg. 19 e 21); che affatto correttamente i giudici territoriali
hanno ritenuto che tale accertamento di fatto implicasse l’assenza di
un’effettiva partecipazione al rischio di impresa, da cui l’assenza di uno dei
requisiti che indefettibilmente devono ricorrere per la configurabilità della
fattispecie negoziale di cui al contratto formalmente stipulato tra le parti
(cfr. in tal senso da ult. Cass. n. 26273 del 2020); che, con riguardo al terzo
motivo, va rilevato che la sentenza impugnata, lungi dall’affermare che il
consenso necessario ex art. 2550 c.c. dovesse constare per iscritto, ha
piuttosto accertato come nessun consenso all’associazione delle altre colleghe
risultasse prestato dalla lavoratrice D.L.;
che, non risultando quando e come la possibilità di
un consenso tacito e/o di un’acquiescenza alla determinazione datoriale sia
stata veicolata in giudizio, la censura di cui al motivo in esame risulta
inammissibile; che del pari inammissibile risulta la censura di cui al quarto
motivo, non potendo certo attribuirsi al fatto ivi denunciato alcun carattere
decisivo, ossia idoneo a sovvertire il complesso accertamento di fatto condotto
dai giudici di merito alle pagg. 17-22 della sentenza impugnata al fine di
escludere la ricorrenza in specie di un valido contratto di associazione in
partecipazione con la lavoratrice in questione;
che, con riguardo al quinto motivo, va ricordato
che, per costante orientamento di questa Corte di legittimità, il vizio di
violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da
parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma
di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa,
mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a
mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della
norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al
sindacato di legittimità se non nei ristretti limiti dell’art. 360 n. 5 c.p.c.
(cfr. tra le più recenti Cass. nn. 24155 del 2017, 3340 del 2019);
che, nella specie, il motivo di censura incorre
precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo
formulato con riguardo ad una presunta violazione dell’art. 2094 c.c., pretende
di criticare l’accertamento di fatto che la Corte territoriale ha compiuto al
fine di qualificare i rapporti oggetto del giudizio entro il paradigma della
prestazione di lavoro subordinato (cfr. particolarmente pag. 25 del ricorso per
cassazione in relazione alle pagg. 2332 della sentenza impugnata);
che affatto infondato, infine, è il sesto motivo,
essendosi chiarito che l’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, anche nella
versione antecedente le modifiche di cui all’art. 1, comma 23, lett. f), I. n.
92/2012, si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno
specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad
accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i
canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di
costituzione dello stesso (così, fra le più recenti, Cass. nn. 17707 del 2020 e
8142 del 2017, sulla scorta di Cass. nn. 9471 e 12820 del 2016);
che il ricorso, pertanto, va rigettato,
provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità,
giusta il criterio della soccombenza;
che, in considerazione del rigetto del ricorso,
sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello, ove dovuto, previsto per il ricorso;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in €
2.200,00, di cui € 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari
al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13.