Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 11 marzo 2022, n. 67

Straniero, Assegno per il nucleo familiare, Presupposti,
Nozione di nucleo familiare, Cittadini di paesi terzi titolari di permesso di
lungo soggiorno

 

Ritenuto in fatto

 

1.- Con ordinanza dell’8 aprile 2021, iscritta al n.
110 del registro ordinanze 2021, la Corte di cassazione, sezione lavoro ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del
decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il miglioramento
delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni urgenti), convertito,
con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153, per contrasto con gli
artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 2,
paragrafo 1, lettere a), b), e), e 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva
2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei
cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, nella parte
in cui, anche «per i cittadini non appartenenti all’Unione europea titolari di
permesso di lungo soggiorno», prevede che non fanno parte del nucleo familiare
di cui al comma 6, del medesimo art. 2, il coniuge, i figli ed equiparati che
non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato
di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei
confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione
internazionale, diversamente da quanto previsto per gli altri beneficiari dell’assegno
per il nucleo familiare non cittadini stranieri.

2.- Dinanzi al giudice a quo pende il procedimento
introdotto dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) per la
cassazione della sentenza con la quale la Corte d’appello di Brescia ha confermato
l’accoglimento del ricorso di R. M, cittadino pakistano titolare di permesso di
lungo soggiorno, che ha domandato l’accertamento del carattere discriminatorio
del mancato riconoscimento dell’assegno per nucleo familiare nel periodo
compreso tra settembre 2011 ed aprile 2014, durante il quale i suoi familiari
erano rientrati nel Paese d’origine, e la condanna dell’INPS e del datore di
lavoro al pagamento delle relative somme, con predisposizione di un piano di
rimozione degli effetti negativi della discriminazione, ai sensi dell’art. 28
del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari
al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei
procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18
giugno 2009, n. 69).

2.1.- La Corte rimettente riferisce che la sentenza
oggetto del ricorso per cassazione ha riconosciuto a R. M. l’assegno per il
nucleo familiare anche nei periodi di assenza dei familiari dal territorio
italiano, previa disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del
1988, in quanto norma contrastante con il diritto dell’Unione europea.

Il giudice di merito ha rilevato che l’art. 11,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di
riconoscere al soggiornante di lungo periodo il medesimo trattamento previsto
dalla disciplina nazionale per i cittadini, quanto alle prestazioni sociali,
all’assistenza sociale e alla protezione sociale, e che la disciplina
dell’assegno per il nucleo familiare applicabile al cittadino italiano,
contenuta nell’art. 2, comma 2, del d.l. n. 69 del 1988, riconosce detto
assegno indipendentemente dal luogo di residenza dei componenti il nucleo
stesso.

Con l’art. 1 del decreto legislativo 8 gennaio 2007,
n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini
di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), il legislatore è intervenuto
sull’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), prevedendo, al comma 12, che lo straniero titolare
del permesso di soggiorno di lungo periodo può usufruire delle prestazioni di
assistenza sociale, di previdenza sociale ed altro, salvo che sia diversamente
disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul
territorio nazionale.

Infine, il giudice di merito ha escluso che
l’assegno per il nucleo familiare rientri tra le misure per le quali la
direttiva 2003/109/CE ha riconosciuto agli Stati membri la facoltà di limitare
l’equiparazione.

2.2.- La Corte rimettente dà conto altresì del
contenuto del ricorso dell’INPS.

L’Istituto ha censurato la decisione di merito per
violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2, comma
6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, 43 e 44 del d.lgs. n. 286 del
1998, anche in relazione all’art. 12 delle Preleggi. Ha anche contestato che
l’assegno per il nucleo familiare abbia natura assistenziale ed essenziale,
tale da impedire la derogabilità all’obbligo di parità di trattamento,
evidenziando peraltro che il dubbio interpretativo riguardo alla facoltà del
legislatore statale di limitare la parità di trattamento avrebbe comportato il
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, oppure il promovimento della
questione di legittimità costituzionale.

2.3.- La Corte rimettente riferisce di avere
disposto, con ordinanza n. 9021 del 2019, rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, per chiarire la
portata dell’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE,
essendo sorto il «dubbio interpretativo relativo alla eventualità che il
principio di parità di trattamento ivi previsto comporti che i familiari del
cittadino di Paese terzo lungo soggiornante e titolare del diritto alla
erogazione dell’assegno per il nucleo familiare di cui alla legge n. 153 del
1988, art. 2, pur risiedendo di fatto fuori dal territorio dello Stato membro
ove questi presta la sua attività, siano inclusi nel novero dei familiari
sostanziali beneficiari del trattamento». Si deve ritenere, infatti, che il
nucleo familiare individuato dall’art. 2 della legge n. 153 del 1988, non è
solo preso in considerazione per la base di calcolo dell’importo relativo al
trattamento familiare in oggetto, ma ne è anche il beneficiario, per il tramite
del titolare della retribuzione o della pensione cui lo stesso accede (pag. 5
dell’ordinanza di rimessione).

2.3.1.- Nel rinvio pregiudiziale, prosegue la Corte
rimettente, è stato precisato che l’assegno per il nucleo familiare si
configura, dal punto di vista strutturale, come integrazione economica di cui
beneficiano tutti i prestatori di lavoro presenti nel territorio italiano
(nonché i titolari di pensioni e di prestazioni economiche previdenziali
derivanti da lavoro subordinato, i lavoratori assistiti da assicurazione contro
le malattie, i dipendenti e i pensionati degli enti pubblici), purché abbiano
un nucleo familiare che produce redditi non superiori ad una determinata
soglia; che l’importo dell’assegno viene quantificato in proporzione al numero
dei componenti, al numero dei figli e al reddito familiare; che l’assegno ha
natura sia previdenziale, per il meccanismo finanziario che ne è alla base
(Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 7 marzo 2008, n. 6179), sia
assistenziale, tenuto conto dell’incidenza del numero e delle condizioni
psico-fisiche dei componenti del nucleo familiare (Corte di cassazione, sezione
lavoro, sentenze 30 marzo 2015, n. 6351 e 9 febbraio 2018, n. 3214).

In conclusione, si tratterebbe di prestazione che
rientra nell’ambito della previsione di cui all’art. 11, paragrafo 1, lettera
d), della direttiva 2003/109/CE.

2.4.- Il giudice rimettente riferisce, quindi, che
la Corte di giustizia, con la sentenza 25 novembre 2020, in causa C-303/109,
INPS, ha dichiarato che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva
2003/109/CE deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione
come l’art. 2, comma 6-bis, della legge n. 153 del 1988, secondo il quale non
fanno parte del nucleo familiare di cui a tale legge il coniuge nonché i figli
ed equiparati di cittadino di paese terzo che non abbiano la residenza nel
territorio della Repubblica italiana, salvo reciprocità o convenzione
internazionale, posto che la Repubblica italiana non si è avvalsa della deroga
consentita dall’art. 11, paragrafo 2, della medesima direttiva, non essendo
stata espressa una tale intenzione in sede di recepimento della direttiva
2003/109/CE nel diritto nazionale.

2.5.- Conclusa la descrizione della fattispecie
sottoposta al suo giudizio, la Corte di cassazione argomenta sulla rilevanza
della questione di legittimità costituzionale, osservando in primo luogo che
«occorre dare esecuzione alla sentenza della Corte di giustizia», stante il
vincolo da essa derivante per la definizione della controversia principale
(sono richiamate le sentenze 3 febbraio 1977, in causa C-52/76, Benedetti, e 5
marzo 1986, in causa C-69/85, Wünsche Handelsgesellschaft).

Sul tema specifico della rimozione degli effetti
discriminatori derivanti da atti normativi, la rimettente richiama la
giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 14 marzo 2018, in causa
C-482/2016, Stollwitzer), che ha riconosciuto la discrezionalità del
legislatore nella scelta dei rimedi, e quindi osserva che nella fattispecie in
esame, «ai fini dell’eliminazione dell’effetto discriminatorio, non è tanto
significativa la condotta osservata dall’INPS nel negare la prestazione
economica dell’assegno per il nucleo familiare oggetto di ricorso, quanto la
formulazione della disposizione italiana che disciplina la fattispecie
concreta».

Secondo il giudice a quo, il rilevato contrasto tra
l’art. 2, comma 6-bis e il diritto dell’Unione non potrebbe essere risolto
facendo ricorso all’interpretazione conforme, poiché non esiste margine di
scelta tra due interpretazioni possibili della norma interna, che presenta
significato chiaro ed univoco, e sarebbe impraticabile anche la tecnica della
disapplicazione della norma interna, in assenza di una disciplina self
executing direttamente applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio
principale. Il diritto dell’Unione, infatti, non disciplina direttamente la
materia dei trattamenti di famiglia.

La direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri di
non differenziare il trattamento degli stranieri con permesso di lungo
soggiorno da quello riservato ai propri cittadini, ma «non contiene una
disciplina completa che consenta di affermare in via diretta il primato della
(inesistente) disciplina euro unitaria sulla disciplina nazionale».

In conclusione, in assenza dei presupposti per
realizzare la sostituzione della norma interna con la disciplina dettata
dall’Unione, la disapplicazione della norma interna si risolverebbe in una
«modifica della norma nazionale mediante sostituzione del criterio della
reciprocità ovvero della specifica convenzione internazionale con quello della
parità di trattamento, ove i destinatari diretti della prestazione siano
cittadini di paesi non europei titolari di un permesso di lungo soggiorno ai
sensi della citata direttiva». Si tratterebbe di un intervento manipolativo non
consentito al giudice di legittimità, con la conseguente necessità di
promuovere l’incidente di costituzionalità.

2.6.- Quanto alla non manifesta infondatezza della
questione, la rimettente osserva che l’incompatibilità dell’art. 2, comma
6-bis, del d.l. n. 69 del 1988 con il diritto dell’Unione, come accertata dalla
Corte di giustizia, renderebbe evidente il contrasto della norma interna con i
parametri evocati.

È richiamata la giurisprudenza costituzionale
(sentenze n. 227 del 2010, n. 232 del 1975, n. 183 del 1973, n. 98 del 1965 e
n. 14 del 1964) che ha individuato nell’art. 11 Cost. il parametro di
riferimento nel rapporto tra ordinamento nazionale e diritto europeo,
riconoscendo il principio di prevalenza di quest’ultimo, ed il conseguente
potere-dovere in capo al giudice di dare immediata applicazione alla norma
provvista di effetto diretto, ovvero di sollevare questione di legittimità
costituzionale per violazione del predetto parametro quando la norma interna
contrasti con la norma comunitaria sprovvista di effetto diretto. L’obbligo del
rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo è stato poi ribadito
dal novellato art. 117, primo comma, Cost., confermando espressamente quanto
già ricollegato in via interpretativa all’art. 11 Cost.

La Corte rimettente segnala poi che la stessa
giurisprudenza costituzionale ha negato efficacia diretta all’art. 12 del
Trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE), firmato a Roma il
25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958, oggi art. 18 TFUE, che
vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione
del Trattato, ritenendo necessario il promovimento della questione di
legittimità costituzionale per rimuovere la discriminazione. In particolare, si
è affermato (sentenza n. 227 del 2010) che il contrasto con il principio di non
discriminazione non sarebbe «sempre di per sé sufficiente» a consentire la
disapplicazione della norma interna confliggente, dal momento che il legislatore
nazionale può prevedere limitazioni alla parità di trattamento tra il proprio
cittadino ed il cittadino di altro Stato membro, a condizione che la
limitazione sia proporzionata e adeguata.

2.7.- Alla luce degli argomenti svolti, la Corte di
cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis citato, che assoggetta ad
un regime peculiare, regolato dal principio della reciprocità o della apposita
convenzione, i beneficiari dell’assegno per il nucleo familiare non cittadini
italiani (o europei) che non risiedono nel territorio nazionale, per contrasto
con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione alla direttiva
2003/109/CE, che all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), prevede il diritto dei
cittadini di paesi terzi titolari del permesso di lungo soggiorno e dei loro
familiari di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettere a), b) ed e), di beneficiare
dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui
soggiornano per quanto concerne i settori della sicurezza sociale definiti nel
regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29
aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.

3.- Con atto depositato il 6 settembre 2021, si è
costituito nel giudizio incidentale l’INPS, parte ricorrente nel giudizio
principale, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, in
subordine, manifestamente infondata.

3.1.- L’Istituto ricostruisce la normativa nazionale
e quella dell’Unione per evidenziare, a sostegno dell’inammissibilità, che il
giudizio di cassazione avrebbe potuto essere definito senza sollevare la
questione di costituzionalità.

La norma censurata, comunque, si sottrarrebbe ai
prospettati dubbi di legittimità costituzionale, in quanto rispettosa dei
principi di proporzionalità e ragionevolezza, oltre che giustificata nelle
finalità.

3.2.- Muovendo dal presupposto che beneficiari
sostanziali dell’assegno per il nucleo familiare siano i componenti del nucleo
stesso che fanno riferimento al lavoratore, l’INPS ritiene che la norma
censurata legittimamente esiga la loro presenza effettiva nel territorio
nazionale, ai fini del riconoscimento della prestazione.

In ogni caso, fuori dell’ambito dei diritti
fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, il principio di eguaglianza può
avere «un’operatività più sfumata», in ragione della diversità del rapporto che
il cittadino e lo straniero instaurano con lo Stato.

L’Istituto rileva quindi che in sede di attuazione
della direttiva 2003/109/CE, avvenuta con il d.lgs. n. 3 del 2007, che ha
riformulato l’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, il legislatore nazionale ha
espressamente previsto, al comma 12, lettera c), del citato art. 9, che il
titolare di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo può
«usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale […]
salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva
residenza dello straniero sul territorio nazionale».

L’Istituto sottolinea che l’integrazione dei
cittadini dei Paesi terzi, che costituisce la finalità della direttiva citata,
si può realizzare soltanto se i familiari soggiornano anch’essi regolarmente
nel territorio nazionale.

3.3.- Sotto diverso profilo, l’INPS richiama il
principio dell’equilibrio di bilancio previsto dall’art. 81 Cost., nel quadro
dei valori di rilievo costituzionale, in funzione del quale il legislatore
nazionale può prevedere la graduazione degli interventi assistenziali sulla
base del maggiore radicamento territoriale del nucleo familiare.

In tale contesto, e con riferimento alle limitazioni
alla parità di trattamento consentite dall’art. 11, paragrafo 2, della
direttiva 2003/109/CE, si sarebbe già espressa questa Corte nella sentenza n.
222 del 2013, in cui si è affermato l’obbligo di rispettare la parità di
trattamento tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini
extracomunitari dall’altro, riguardo a servizi e prestazioni che soddisfano un
bisogno primario dell’individuo, ovvero, secondo quanto precisato dalla
successiva sentenza n. 50 del 2019, «riflettano il godimento dei diritti
inviolabili della persona».

Nella prospettiva indicata, sarebbe esclusa la
violazione dell’art. 11 della direttiva 2003/109/CE, essendo consentito al
legislatore nazionale di riservare talune prestazioni assistenziali ai soli
cittadini e alle persone ad essi equiparate soggiornanti nel territorio
nazionale, il cui status vale di per sé a generare un adeguato nesso tra la
partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della
Repubblica, e l’erogazione delle provvidenze (sono citate le sentenze n. 222
del 2013, n. 308 e n. 148 del 2008).

4.- R. M., parte resistente nel giudizio di
cassazione, si è costituita nel giudizio incidentale, con atto depositato il 7
settembre 2021, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per
difetto di rilevanza, o, in subordine, fondata.

4.1.- La difesa della parte privata osserva che la
definizione generale di nucleo familiare contenuta nell’art. 2, comma 6, del
d.l. n. 69 del 1988, come convertito, è priva di riferimenti, sia alla
nazionalità dei componenti, sia al luogo di residenza degli stessi. L’art. 2,
al comma 6-bis oggetto di censura, individua invece un “sottogruppo”,
costituito dai nuclei familiari per i quali il richiedente l’assegno sia
cittadino straniero (compresi i cittadini UE), e ad esso riserva un regime
diverso.

La questione sollevata dalla Corte rimettente
avrebbe dunque a oggetto una norma che definisce diversamente, e con
conseguenze meno vantaggiose, la nozione di nucleo familiare a seconda della
nazionalità del componente-richiedente.

Si tratta di questione che non è mai stata esaminata
dai giudici comuni con riferimento all’eventuale contrasto con gli artt. 3 e 31
Cost., ma soltanto sotto il profilo della conformità con l’art. 11 della
direttiva 2003/109/CE. Tale profilo, risolto dai giudici di merito
prevalentemente nel senso della non conformità, ha costituito l’oggetto del
rinvio pregiudiziale disposto nel giudizio principale, definito dalla Corte di
giustizia nel senso della incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis citato con
il diritto dell’Unione.

Il giudizio incidentale promosso dalla stessa Corte
di cassazione si caratterizzerebbe, quindi, per il fatto che la non conformità
della norma interna con quella dell’Unione è stata già accertata in maniera
incontrovertibile e vincolante e pertanto, come chiarito dalla stessa
rimettente, occorre “soltanto” dare esecuzione alla sentenza della CGUE.

4.2.- La difesa della parte privata reputa la
questione di legittimità costituzionale inammissibile in quanto, dopo la
sentenza nella causa 303/19 della Corte di giustizia, l’art. 2, comma 6-bis non
potrebbe trovare applicazione nel giudizio principale, in ragione del vincolo
sorto dalla richiamata sentenza.

Nella fattispecie in esame, del resto, non verrebbe
in evidenza una ipotesi di “doppia tutela”, in cui «la violazione di un diritto
della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla
Costituzione italiana sia quelle codificate dalla Carta dei diritti
dell’Unione» (sono citate l’ordinanza n. 117 del 2019 e la sentenza n. 20 del
2019 di questa Corte).

La violazione e la tutela invocate nel giudizio
principale atterrebbero unicamente al diritto derivato dell’Unione, in
particolare al rispetto dell’obbligo di parità di trattamento, che costituisce
uno dei capisaldi del diritto europeo, anche in materia di immigrazione.

Con l’attribuzione ai soggiornanti di lungo periodo
del diritto ad un trattamento eguale ai cittadini dello Stato membro, l’Unione
disciplina i diritti di costoro, esercitando le competenze ad essa attribuite
dall’art. 79, comma 2, lettera b), TFUE.

4.3.- Nel contesto normativo così delineato, secondo
la parte privata, la Corte di cassazione avrebbe erroneamente ricercato una
disciplina compiuta dell’Unione in grado di sostituirsi a quella nazionale dei
trattamenti di famiglia, anziché valorizzare il diritto alla parità di
trattamento previsto dalla direttiva, e disapplicare la disciplina nazionale là
dove questa prevede un trattamento “diseguale” per i cittadini stranieri.

In questa prospettiva, la verifica dei requisiti
richiesti ai fini della diretta applicazione delle norme dell’Unione – precetto
chiaro, preciso e incondizionato – avrebbe dovuto essere condotta con
riferimento all’obbligo della parità di trattamento, che sicuramente tali
caratteri possiede.

La diversa ricostruzione fatta propria dalla Corte
rimettente condurrebbe al risultato inaccettabile e comunque contrario ai dicta
della Corte di giustizia, che il diritto dell’Unione non possa mai
autonomamente garantire un trattamento uguale a due gruppi sociali, se non
nelle materie oggetto di specifica disciplina da parte del diritto derivato.

4.4.- La difesa della parte privata esamina poi la citata
sentenza della Corte di giustizia Stollwitzer, richiamata dalla Corte
rimettente a sostegno della discrezionalità del legislatore nazionale nella
individuazione delle modalità di rimozione delle discriminazioni, ed osserva
che il tema della discrezionalità non è pertinente. Nella fattispecie oggi in
discussione il legislatore non ha ancora adottato misure che ristabiliscano la
parità di trattamento, pertanto il senso e l’efficacia dell’obbligo di parità
di trattamento può essere garantito solo attraverso l’estensione ai soggetti
svantaggiati del trattamento riservato ai soggetti privilegiati.

4.5.- Ulteriormente la difesa della parte privata
contesta l’affermazione del giudice rimettente, secondo cui sarebbe consentito
al legislatore di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il
proprio cittadino e il cittadino straniero, purché adeguata e proporzionata.

Nella fattispecie oggi in esame non verrebbe in
rilievo il divieto di discriminazione di cui all’art. 18 TFUE, richiamato dalla
Corte rimettente, ma l’obbligo di parità di trattamento previsto dall’art. 11,
paragrafo 1, lettera d) della direttiva 2003/109/CE, che non consente deroghe
“purché proporzionate”, ma esclusivamente deroghe a condizione che la relativa
facoltà sia stata espressamente esercitata. La sentenza della Corte di
giustizia nella causa C-303/19 ha accertato che l’Italia non ha esercitato la
facoltà di deroga.

5.- Con atto depositato il 7 settembre 2021, è
intervenuto nel giudizio incidentale il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere il
rigetto della questione.

5.1.- Dopo avere proceduto alla ricostruzione del
contesto normativo interno e dell’Unione, richiamando in particolare l’art. 9,
commi 1 e 12, del d.lgs. n. 286 del 1998, la disciplina dell’assegno familiare
contenuta nell’art. 2 del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, e la direttiva
2003/86/CE del 22 settembre 2003 del Consiglio, relativa al diritto al
ricongiungimento familiare, la difesa statale concentra l’attenzione sul tema
della adeguatezza e proporzionalità della norma censurata, e della possibile
limitazione alla parità di trattamento, secondo quanto previsto dall’art. 11,
paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE, come riconosciuto dalla Corte di
giustizia nella sentenza resa in causa C-303/19, che ha definito il rinvio
pregiudiziale.

La difesa dello Stato richiama quindi l’ordinanza di
rimessione (in particolare, il paragrafo 27) e con essa la giurisprudenza
costituzionale ivi citata, per sottolineare che l’incompatibilità della norma
interna con il principio di non discriminazione potrebbe derivare solo da un
difetto di proporzionalità e di adeguatezza del trattamento differenziato
rispetto alle finalità della direttiva e degli altri valori costituzionali e
del diritto dell’Unione. Nella specie, non vi sarebbero i presupposti per
ritenere manifestamente irragionevole il trattamento differenziato riguardo al
riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare.

5.2.- In particolare, la difesa statale osserva che
all’assegno in oggetto, in quanto misura rientrante nel novero delle
prestazioni sociali, si applica l’art. 11, paragrafo 2, della direttiva
2003/109/CE, che consente agli Stati membri di limitare la parità di
trattamento garantita ai soggiornanti di lungo periodo «ai casi in cui il
soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede la
prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio».

Tale previsione sarebbe connessa al considerando n.
2 della direttiva 2003/109/CE, che configura la parità di trattamento in
termini non assoluti ma tendenziali e, soprattutto, in stretto collegamento con
il requisito della residenza effettiva del cittadino straniero nello Stato
membro, presupposto quest’ultimo necessario per ottenere lo status di lungo
soggiornante e per conservarlo.

Quanto ai familiari dello straniero, la medesima
direttiva, all’art. 2, lettera e), li definisce attraverso il rinvio alla
direttiva 2003/86/CE, relativa al ricongiungimento familiare. Ciò comporta che
costoro possono essere presi in considerazione al fine del diritto alle
prestazioni in materia familiare soltanto se «ricongiunti», vale a dire se
stabilmente conviventi con il soggiornante nel territorio dello Stato membro
(direttiva 2003/86/CE, considerando n. 4 e art. 2).

Del resto, prosegue la difesa statale, la Corte di
giustizia, nella sentenza nella causa 303/19 (punto 29), ha chiarito che
l’assenza del familiare dal territorio nazionale non può precludere il diritto
all’assegno per il nucleo familiare se è riferibile ad un periodo «che può
essere temporaneo», laddove l’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988,
esclude il diritto all’assegno familiare nei soli casi in cui l’assenza da
temporanea sia diventata definitiva.

Sotto tale profilo, la norma interna non
contrasterebbe con il sistema e con la finalità della direttiva 2003/109/CE, in
quanto proporzionata e adeguata, mentre sarebbe apodittica l’affermazione
contenuta al punto 35 della sentenza 303/19, secondo cui sarebbero irrilevanti
le difficoltà di controllo della condizione reddituale dei soggetti rientrati
nei paesi d’origine, e non pertinente il richiamo alla sentenza della Corte GCE
26 maggio 2016, in causa C-300/15, Kholl e Kholl-Schlesser, in materia di
discriminazioni fiscali al diritto fondamentale alla libera circolazione tra
gli Stati membri. Nella fattispecie in esame, infatti, non si discute di
libertà fondamentali garantite dal Trattato, come nel precedente richiamato, ma
di diritti particolari riconosciuti dal diritto derivato, e di movimenti tra
Unione e Paesi terzi.

5.3.- La proporzionalità della disciplina nazionale
sarebbe confermata, secondo la difesa statale, anche dal fatto che essa non
nega in toto il trattamento – come nel caso deciso dalla sentenza della CGUE 21
giugno 2017, in causa C-449/16, Martinez Silva, – ma si limita a ridurre nel
quantum la prestazione previdenziale.

La norma censurata sarebbe proporzionata e adeguata
al diritto dell’Unione, e rispettosa di altri valori costituzionali e del diritto
dell’Unione, primo tra tutti l’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 Cost.,
attuativo a sua volta di precisi vincoli europei. L’art. 153, paragrafo 4, TFUE
stabilisce, infatti, che le disposizioni del diritto dell’Unione in materia di
politica sociale non compromettono la facoltà riconosciuta agli Stati membri di
definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale, e non
devono incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso.

5.4.- La difesa statale contesta poi che la deroga
al principio della parità di trattamento, prevista dall’art. 11, paragrafo 2,
della direttiva 2003/109/CE non sarebbe applicabile, in quanto non vi è stata
espressa dichiarazione dello Stato di volersene avvalere in sede di recepimento
della direttiva, operato con il d.lgs. n. 3 del 2007.

In realtà, al momento del recepimento della
direttiva 2003/109/CE, la condizione procedurale consistente nella
dichiarazione espressa di volersi avvalere della deroga non esisteva, essendo
stata introdotta solo in via giurisprudenziale con la sentenza 24 aprile 2012,
in causa C-571/10, Kamberaj, (punto 87), e comunque, stante l’assenza di
termini, la deroga sarebbe ancora esercitabile, sicché, come ritenuto
nell’ordinanza di rimessione, qualsiasi intervento sulla norma interna avrebbe
contenuto manipolativo.

5.5.- Con riferimento ai parametri evocati, la
difesa dello Stato reputa erroneo il richiamo all’art. 11 Cost., poiché si
discuterebbe di una competenza ripartita, quella inerente alla disciplina
dell’immigrazione, ai sensi dell’art. 79, paragrafo 2, lettera b), TFUE, che
non comprenderebbe, come rilevato anche dalla Corte rimettente, la disciplina
della prestazione sociale dell’assegno per il nucleo familiare.

6.- In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale
dello Stato ha depositato memoria per illustrare gli argomenti già svolti
nell’atto di intervento a sostegno della non fondatezza della questione.

7.- Ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis,
l’ASGI – Associazione studi giuridici sull’immigrazione ha depositato opinione
scritta a titolo di amicus curiae.

L’opinione, ammessa con decreto presidenziale del 4
gennaio 2022, richiama il quadro normativo e giurisprudenziale anche con
riferimento al più ampio contenzioso riguardante il diritto dei cittadini di
Paesi terzi alle prestazioni di assistenza e sicurezza sociale, e quindi si
associa alle argomentazioni svolte dalla difesa della parte privata in punto di
inammissibilità della questione, per difetto di rilevanza.

8.- Con ordinanza in data 8 aprile 2021, iscritta al
n. 111 del registro ordinanze 2021, la Corte di cassazione, sezione lavoro ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del
d.l. n. 69 del 1988, come convertito, per contrasto con gli artt. 11 e 117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), e
12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento e del
Consiglio del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per
il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di
soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune
di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno
Stato membro.

L’art. 2, comma 6-bis citato è oggetto di censura
nella parte in cui, «anche per i cittadini non appartenenti all’Unione europea
titolari di permesso unico di soggiorno e di lavoro, prevede che non fanno parte
del nucleo familiare di cui al comma 6, il coniuge ed i figli ed equiparati
[…] che non abbiano la residenza nel territorio della Repubblica, salvo che
dallo Stato di cui lo straniero è cittadino sia riservato un trattamento di
reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia stata stipulata
convenzione internazionale in materia di trattamenti di famiglia, diversamente
dagli altri beneficiari non cittadini stranieri».

8.1.- Dinanzi alla rimettente pende il procedimento
introdotto dall’INPS per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di
Torino che ha accolto il ricorso con il quale S. B.G., cittadino srilankese
titolare di permesso unico di soggiorno e di lavoro, ha chiesto l’accertamento
del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento dell’assegno del
nucleo familiare per il periodo gennaio-giugno 2014 e giugno-luglio 2016,
durante il quale i suoi familiari erano rientrati nel Paese d’origine, e la
conseguente condanna dell’INPS e del datore di lavoro al pagamento delle relative
somme. Ha chiesto anche che siano rimossi gli effetti negativi della
discriminazione, ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011.

8.2.- La Corte rimettente riferisce che la sentenza
oggetto di ricorso per cassazione ha riconosciuto l’assegno per il nucleo
familiare previa disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, sul rilievo che la
norma indicata sarebbe discriminatoria.

Il giudice di merito ha rilevato che l’art. 12,
paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, prevede che i lavoratori
di paesi terzi di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), beneficiano
dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui
soggiornano, quanto ai settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento
(CE) n. 883/2004. L’assegno per il nucleo familiare rientrerebbe nei settori
della sicurezza sociale, come confermato dalla Corte di giustizia nella
sentenza Martinez Silva, riguardante l’analoga misura di cui all’art. 65 della
legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo).

Il giudice di merito ha rilevato, inoltre, che il
legislatore nazionale non aveva esercitato la facoltà di deroga prevista
dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98/UE, e che la
disposizione contenuta nell’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva
sarebbe sufficientemente precisa e priva di condizioni, tale da imporre la
disapplicazione della norma interna contrastante.

8.3.- La Corte rimettente richiama in sintesi il
contenuto del ricorso per cassazione dell’INPS, che ha censurato la sentenza di
merito per violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt.
2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, 43 e 44 del d.lgs. n.
286 del 1998, 12 della direttiva 2011/98/UE e del decreto legislativo 4 marzo
2014, n. 40 (Attuazione della direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura
unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini
di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a
un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano
regolarmente in uno Stato membro), anche in relazione all’art. 12 delle
Preleggi.

In particolare, l’Istituto ha contestato
l’interpretazione della direttiva 2011/98/UE alla base della sentenza di
merito, avuto riguardo alla diversa posizione dei titolari di permesso unico di
soggiorno e di lavoro rispetto ai titolari di permesso di lungo soggiorno di
cui alla direttiva 2003/109/CE, e ha osservato che l’assegno per il nucleo
familiare ha natura previdenziale, non assistenziale.

8.4.- La Corte rimettente riferisce di avere
disposto, con ordinanza n. 9022 del 2019, rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, per chiarire la portata del principio
fissato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, che
prevede che i lavoratori di Paesi terzi beneficiano dello stesso trattamento
riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano, avuto riguardo ai
settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento n. 883 del 2004.

Il «dubbio interpretativo» riguardava l’eventualità
che il principio di parità di trattamento previsto dall’art. 11, paragrafo 1,
lettera d), comportasse che i familiari del cittadino di Paese terzo lungo
soggiornante e titolare del diritto alla erogazione dell’assegno per il nucleo
familiare, pur risiedendo di fatto fuori dal territorio dello Stato membro ove
questi presta la sua attività, fossero inclusi nel novero dei familiari sostanziali
beneficiari del trattamento, e ciò sul presupposto che il nucleo familiare
individuato dall’art. 2, del d.l. n. 69 del 1988, non rileva soltanto quale
base di calcolo dell’importo relativo al trattamento familiare, ma ne è anche
il beneficiario, per il tramite del titolare della retribuzione o della
pensione cui lo stesso accede.

8.5.- Lo schema argomentativo del rinvio
pregiudiziale risulta in larga parte coincidente con quello adottato nel rinvio
avente ad oggetto la direttiva 2003/109/CE, richiamato nell’ordinanza di
rimessione n. 110 del 2021.

8.6.- Il giudice a quo riferisce che la Corte di
giustizia, con la sentenza 25 novembre 2020 in causa C-302/109, INPS, ha
dichiarato che l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE
deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato
membro in forza della quale, ai fini della determinazione dei diritti a una
prestazione di sicurezza sociale, non vengono presi in considerazione i
familiari del titolare di permesso unico di soggiorno e di lavoro, ai sensi
dell’art. 2, lettera c), della stessa direttiva, che risiedano non già nel
territorio di tale Stato membro, bensì in un Paese terzo, mentre vengono presi
in considerazione i familiari del cittadino di detto Stato membro residenti in
un Paese terzo.

8.7.- All’esito del rinvio pregiudiziale, e sulla
base di argomentazioni coincidenti con quelle esposte nell’ordinanza n. 110 del
2021, in precedenza sintetizzate, la Corte di cassazione ritiene rilevante e
non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 6-bis, d.l. n. 69 del 1988, come convertito, per violazione
degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 3, paragrafo
1, lettere b) e c), e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.

9.- Con atto depositato il 6 settembre 2021 si è
costituito nel giudizio incidentale l’INPS, chiedendo che la questione sia
dichiarata inammissibile o, in subordine, manifestamente infondata.

9.1.- Come già dedotto nell’atto di costituzione
depositato nel giudizio incidentale promosso con l’ordinanza n. 110 del 2021
(sintetizzato al punto 3), l’Istituto ritiene che la Corte rimettente avrebbe
dovuto senz’altro accogliere il ricorso per cassazione, dal momento che il
giudice di merito aveva fatto ricorso alla tecnica della disapplicazione in
assenza di una disciplina eurounitaria direttamente applicabile.

L’INPS svolge rilievi critici alla sentenza C-302/19
della CGUE, e conclusivamente evidenzia che la natura previdenziale della
prestazione in oggetto, al di fuori del novero delle prestazioni essenziali a
tutela dei diritti fondamentali della persona, imporrebbe di ritenere che il
legislatore nazionale possa graduare il riconoscimento di tale prestazione in
funzione del radicamento territoriale del nucleo familiare, anche alla luce del
criterio dell’equilibrio di bilancio previsto dall’art. 81 Cost.

10.- Con atto depositato il 7 settembre 2021, si è
costituita nel giudizio incidentale la parte privata S. B.G., resistente nel
giudizio principale, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile
per carenza di rilevanza o, in subordine, fondata.

10.1.- L’atto di costituzione si presenta
coincidente con quello depositato nel giudizio incidentale promosso con
l’ordinanza n. 110 del 2021, alla cui sintesi si può rinviare (punto 4).

11.- Il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel
giudizio incidentale con atto depositato il 7 settembre 2021, chiedendo che la
questione sia dichiarata non fondata sulla base delle medesime argomentazioni
esposte a sostegno della non fondatezza della questione sollevata con
l’ordinanza n. 110 del 2021, già sintetizzate (punto 5).

12.- In prossimità della decisione, l’Avvocatura
generale dello Stato ha depositato memoria illustrativa di contenuto
coincidente con quello della memoria depositata nel giudizio incidentale
promosso con l’ordinanza n. 110 del 2021.

 

Considerato in diritto

 

1.- Con le ordinanze indicate in epigrafe (r.o. n.
110 e n. 111 del 2021), la Corte di cassazione, sezione lavoro, solleva
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del
decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il
miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni
urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153.

La disposizione censurata, collocata all’interno
della disciplina dell’assegno per il nucleo familiare, prevede che «non fanno
parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge, i figli ed equiparati
di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel territorio della
Repubblica, salvo che lo Stato di cui lo straniero è cittadino riservi un
trattamento di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani ovvero sia
stata stipulata convenzione internazionale in materia di trattamenti di
famiglia».

1.1.- L’ordinanza n. 110 del 2021 prospetta la
violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo
in relazione agli artt. 2, paragrafo 1, lettere a), b), c), e 11, paragrafo 1,
lettera d), della direttiva n. 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003,
relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di
lungo periodo.

1.2.- Anche l’ordinanza n. 111 del 2021 prospetta la
violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione
agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b), e c), e 12, paragrafo 1, lettera e),
della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13
dicembre 2011, relativa ad una procedura unica di domanda per il rilascio di un
permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e
lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti
per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato
membro.

1.2.1. Né l’una né l’altra ordinanza evocano la
violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in
particolare l’art. 34.

1.3.- Come riferito dalla Corte rimettente, il
contrasto della norma censurata con il diritto dell’Unione è stato accertato
dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, adita con rinvio pregiudiziale
nel corso di entrambi i giudizi a quibus.

1.3.1. – Con la sentenza 25 novembre 2020, nella
causa C-303/19, INPS, la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 11,
paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE impone agli Stati membri
di riconoscere ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo le
prestazioni di sicurezza sociale alle stesse condizioni previste per i
cittadini dello Stato membro, qualora lo Stato – come accaduto per la
Repubblica italiana – non abbia espresso, in sede di recepimento della
direttiva, l’intenzione di avvalersi della deroga alla parità di trattamento
consentita dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva stessa.

1.3.2.- Con la sentenza 25 novembre 2020, in causa
C-302/19, INPS, la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 12, paragrafo 1,
lettera e), della direttiva 2011/98/UE, del 13 dicembre 2011 del Parlamento
europeo e del Consiglio, relativa a una procedura unica di domanda per il
rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di
soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune
di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno
Stato membro, deve essere interpretato nel senso che esso impone agli Stati
membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso unico le
prestazioni di sicurezza sociale, tra cui rientra l’assegno per il nucleo
familiare, alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro.

2.- Le questioni di legittimità costituzionale,
sollevate dalla Corte di cassazione con le due ordinanze, sostanzialmente
analoghe, si prestano a una trattazione congiunta mediante la riunione dei
giudizi.

3.- Preliminarmente si dà atto che, con decreto del
Presidente della Corte costituzionale del 4 gennaio 2022, ai sensi dell’art.
4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale,
vigente ratione temporis, sono state ammesse le opinioni scritte presentate
dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), in qualità
di amici curiae, opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla
valutazione del caso sottoposto a questa Corte.

4.- Le ordinanze di rimessione sono state
pronunciate nell’ambito di due giudizi introdotti dall’Istituto nazionale della
previdenza sociale (INPS) per la cassazione delle relative sentenze di merito,
che hanno riconosciuto il diritto all’assegno per il nucleo familiare a due
cittadini di paesi terzi, l’uno proveniente dal Pakistan e l’altro dallo Sri
Lanka, titolari rispettivamente di permesso di lungo soggiorno e di permesso
unico di soggiorno e di lavoro, anche per il periodo in cui i loro familiari
avevano fatto rientro nei paesi d’origine.

I giudici di merito avevano proceduto alla
disapplicazione della disposizione contenuta nell’art. 2, comma 6-bis, del d.l.
n. 69 del 1988, come convertito, ostativa al riconoscimento del diritto
all’assegno per il nucleo familiare per i periodi di assenza dei familiari dal
territorio italiano, in quanto contrastante con il diritto derivato
dell’Unione, che, all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva
2003/109/CE e all’art. 12, paragrafo 1, lettera e) della direttiva 2011/98/UE,
impone agli Stati membri di riconoscere ai cittadini di paesi terzi il medesimo
trattamento previsto per i propri cittadini in materia di prestazioni sociali.

4.1.- Nei giudizi dinanzi a questa Corte si sono
costituiti l’INPS e le parti private.

4.2.- L’Istituto ha chiesto che le prospettate
questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o,
comunque, non fondate, assumendo l’erroneità delle decisioni di merito che
hanno proceduto a disapplicare la norma interna e la legittimità del
trattamento differenziato, una volta che i familiari del richiedente l’assegno
si siano allontanati dal territorio nazionale.

4.3.- Le parti private hanno chiesto la declaratoria
di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza o, in subordine,
l’accoglimento delle stesse.

Esse assumono che l’antinomia tra la norma interna e
il diritto derivato dell’Unione, già accertata dalla Corte di giustizia in sede
di rinvio pregiudiziale, debba essere risolta con la disapplicazione della
norma interna. Per un verso, l’obbligo di parità di trattamento, previsto dalle
direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE sarebbe dotato di effetto diretto, per altro
verso, non residuerebbe alcuna discrezionalità del legislatore con riferimento
alla rimozione della discriminazione già realizzata. Quanto poi alla
possibilità per il legislatore di prevedere limitazioni all’obbligo di parità
di trattamento purché adeguate e proporzionali – prospettata dal giudice
rimettente – la difesa delle parti private evidenzia che la Corte di giustizia
ha chiarito che la facoltà di deroga prevista dalle citate direttive non
risulta essere stata esercitata in sede di recepimento.

In subordine, la stessa difesa insiste per
l’accoglimento delle questioni sulla base dell’accertamento
dell’incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988 con il
diritto dell’Unione, effettuato in sede di rinvio pregiudiziale.

5.- Prima di procedere all’esame delle questioni, è
opportuno richiamare brevemente la disciplina dell’assegno per il nucleo
familiare.

5.1.- Istituito dalla legge n. 153 del 1988, di
conversione e parzialmente modificativa del d.l. n. 69 del 1988, l’assegno per
il nucleo familiare (da ora: ANF) è una prestazione economica a sostegno del
reddito delle famiglie dei lavoratori dipendenti o dei pensionati da lavoro
dipendente, calcolata in relazione alla dimensione del nucleo familiare e alla
sua tipologia, nonché in considerazione del reddito complessivo prodotto al suo
interno.

La legge n. 153 del 1988, nel segnare un passaggio
terminologico da «assegni familiari» (d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797, recante
«Testo unico delle norme concernenti gli assegni familiari») ad «assegni per il
nucleo familiare», ne accentua la duplice natura previdenziale e di sostegno a
situazioni di bisogno (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 7 marzo
2008, n. 6179; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 30 marzo 2015, n.
6351).

In luogo del requisito della «vivenza a carico»,
condizione per la concessione della provvidenza, è lo stato di bisogno del
nucleo nel suo complesso, che qualifica il nucleo stesso quale destinatario
della tutela.

L’assegno in oggetto, funzionale all’integrazione
del reddito del nucleo familiare, e quindi corrisposto non in favore dei
familiari singolarmente considerati come beneficiari, ma in favore del nucleo
complessivamente considerato, si calcola in relazione a un accertamento in
concreto del reale bisogno economico della famiglia, riferito al rapporto tra
il numero dei suoi componenti e l’ammontare del reddito complessivo.

I soggetti, in relazione ai quali il nuovo
trattamento è stato riconosciuto, sono qualificati dall’appartenenza al nucleo
familiare, anche se non conviventi e non a carico del richiedente, poiché fruitori
di redditi propri. Ciò che rileva, ai fini della percezione della prestazione
in capo al richiedente, è il reddito familiare complessivamente considerato.

5.2.- La normativa in esame individua la nozione di
nucleo familiare, con valenza generale, all’art. 2, comma 6, del d.l. n. 69 del
1988, come convertito, che prevede: «[i]l nucleo familiare è composto dai
coniugi, con esclusione del coniuge legalmente ed effettivamente separato, e
dai figli ed equiparati, ai sensi dell’art. 38 del d.P.R. 26 aprile 1957, n.
818, di età inferiore a 18 anni compiuti ovvero, senza limite di età, qualora
si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e
permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro. Del nucleo
familiare possono far parte, alle stesse condizioni previste per i figli ed
equiparati, anche i fratelli, le sorelle ed i nipoti di età inferiore a 18 anni
compiuti ovvero senza limiti di età, qualora si trovino, a causa di infermità o
difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi
ad un proficuo lavoro, nel caso in cui essi siano orfani di entrambi i genitori
e non abbiano conseguito il diritto a pensione ai superstiti».

Lo stesso art. 2, al comma 6-bis, introduce una
diversa nozione di nucleo familiare riferita ai cittadini stranieri, prevedendo
che «[n]on fanno parte del nucleo familiare di cui al comma 6 il coniuge ed i
figli ed equiparati di cittadino straniero che non abbiano la residenza nel
territorio della Repubblica, salvo che dallo Stato di cui lo straniero è
cittadino sia riservato un trattamento di reciprocità nei confronti dei
cittadini italiani ovvero sia stata stipulata convenzione internazionale in
materia di trattamenti di famiglia. L’accertamento degli Stati nei quali vige
il principio di reciprocità è effettuato dal Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, sentito il Ministro degli affari esteri».

Pertanto, ai fini del riconoscimento del diritto
all’assegno familiare, il requisito della residenza nel territorio italiano non
è richiesto per i familiari del cittadino italiano, mentre lo è per i familiari
del cittadino straniero, salvo che sussista un regime di reciprocità o sia in
vigore una convenzione internazionale con il paese d’origine di quest’ultimo.

5.3.- Il legislatore è recentemente intervenuto a
disciplinare nuovamente la materia. La legge 1° aprile 2021, n. 46 (Delega al
Governo per riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei
figli a carico attraverso l’assegno unico e universale), «[a]l fine di favorire
la natalità», ha delegato il Governo all’adozione di «uno o più decreti
legislativi volti a riordinare, semplificare e potenziare, anche in via
progressiva, le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico
e universale», improntato a un «principio universalistico» e modulato – secondo
un criterio di progressività – in rapporto alle condizioni economiche del
nucleo familiare (art. 1).

La delega è stata attuata con il decreto legislativo
29 dicembre 2021, n. 230 (Istituzione dell’assegno unico e universale per i
figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della
legge 1° aprile 2021, n. 46), che, a decorrere dal 1° marzo 2022, ha istituito
«l’assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un
beneficio economico attribuito, su base mensile, per il periodo compreso tra
marzo di ciascun anno e febbraio dell’anno successivo, ai nuclei familiari
sulla base della condizione economica del nucleo» (art. 1).

5.3.1.- Le nuove norme in tema di assegno unico
universale – prestazione, come si è detto, erogata a decorrere dal 1° marzo
2022 – non incidono sui giudizi a quibus, concernenti fattispecie che si sono
perfezionate nel vigore della disciplina anteriore.

6.- La Corte di cassazione ha chiarito, sia in sede
di rinvio pregiudiziale, sia nelle ordinanze che sollevano le questioni di
legittimità costituzionale, che l’ANF presenta caratteristiche tali da essere
ricompreso nell’ambito delle previsioni di cui agli artt. 11, paragrafo 1,
lettera d), della direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della
direttiva 2011/98/UE.

Entrambe le disposizioni citate impongono la parità
di trattamento tra le categorie in esse indicate e i cittadini italiani, avuto
riguardo alle prestazioni sociali.

L’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva
2003/109/CE prevede che «il soggiornante di lungo periodo» gode dello stesso
trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali,
l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione
nazionale.

L’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva
2011/98/UE prevede che «i lavoratori dei paesi terzi di cui all’art. 3,
paragrafo 1, lettere b) e c)» beneficiano dello stesso trattamento riservato ai
cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori
della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883 del 2004 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al
coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.

7.- Nel contesto normativo delineato, connotato
dalla perdurante vigenza dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988,
anche dopo il recepimento delle direttive richiamate, avvenuto rispettivamente
con il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva
2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di
lungo periodo) e con il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 40 (Attuazione
della direttiva 2011/98/UE, relativa ad una procedura unica di domanda per il
rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di
soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune
di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno
Stato membro), la Corte di cassazione si è rivolta alla Corte di giustizia, con
lo strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo, ai sensi dell’art. 267
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato
dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla
legge 2 agosto 2008, n. 130, e ha posto un quesito riguardo alla compatibilità
del citato art. 2, comma 6-bis, con le direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE.

8.- In entrambe le sentenze rese a seguito del
duplice rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia ha concluso nel senso della
incompatibilità dell’art. 2, comma 6-bis, con le disposizioni contenute negli
artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, e con l’art. 12,
paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.

8.1- Nella sentenza nella causa C-303/19, riferita
alla direttiva 2003/109/CE, si afferma che il diritto dell’Unione non limita la
facoltà degli Stati membri di organizzare i loro sistemi di sicurezza sociale.
Tuttavia, nell’esercitare tale facoltà, essi sono tenuti a conformarsi al
diritto dell’Unione (punto 20).

La Corte di giustizia ha chiarito che, in favore dei
cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, l’art. 11 della
direttiva prevede, come regola generale, il diritto alla parità di trattamento
nei settori individuati e alle condizioni ivi previste, ed elenca poi le
deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno facoltà di stabilire. Tali
deroghe devono essere interpretate restrittivamente e possono essere invocate
solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per
l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di
avvalersi delle stesse (punto 23, con richiamo alla sentenza 24 aprile 2012, in
causa C-571/10, Kamberaj).

La Corte ha quindi accertato che non è stata
espressa l’intenzione di avvalersi della deroga in sede di recepimento della
direttiva nel diritto italiano (punti 37 e 38).

Quanto al dubbio prospettato dal giudice del rinvio,
la Corte di giustizia ha precisato che, «se è vero che sono i familiari che
beneficiano di detto assegno, ciò che costituisce l’oggetto stesso di una
prestazione familiare […], risulta che l’assegno è versato al lavoratore o
pensionato, componente a propria volta del nucleo familiare» (punto 36).

Pertanto, in assenza di esercizio della facoltà di
deroga consentita dall’articolo 11, paragrafo 2, il beneficio di una
prestazione di sicurezza sociale al soggiornante di lungo periodo non può
essere rifiutato o ridotto per il motivo che i suoi familiari o taluni di essi
risiedano in un paese terzo, quando invece tale beneficio è riconosciuto ai
cittadini italiani indipendentemente dal luogo in cui i loro familiari
risiedono.

8.2.- Nella sentenza nella causa C-302/19, avente ad
oggetto la direttiva 2011/98/UE, dopo avere svolto argomentazioni analoghe
quanto alla facoltà degli Stati membri di organizzare i propri regimi di
sicurezza sociale, la Corte di giustizia ha richiamato l’art. 12, paragrafo 1,
lettera e), che impone agli Stati membri di far beneficiare della parità di trattamento,
nei settori della sicurezza sociale di cui al regolamento n. 883/2004, i
cittadini di paesi terzi ammessi a fini lavorativi, quali sono i titolari di un
permesso unico, ai sensi dell’art. 2, lettera c), della direttiva medesima.

L’assegno per il nucleo familiare costituisce,
infatti, una prestazione di sicurezza sociale, che rientra nel novero delle
prestazioni familiari di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera j), del
regolamento n. 883/2004 (punto 40, con richiamo alla sentenza 21 giugno 2017, in
causa C-449/16 Martinez Silva).

Analogamente a quanto riferito con riguardo alla
sentenza nella causa C-303/19, la Corte di giustizia ha chiarito che, se anche
si ritenga che i sostanziali beneficiari dell’assegno in oggetto siano i
familiari, è vero altresì che l’assegno è versato al lavoratore o pensionato,
componente a propria volta del nucleo familiare (punto 45).

A proposito della limitazione del diritto alla
parità di trattamento, la Corte ha precisato anche in questo caso che le
deroghe elencate dalla direttiva, da interpretare restrittivamente, sono
invocabili solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato
per l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di
avvalersene (punto 26, con richiamo alla sentenza Martinez Silva).

La stessa Corte ha poi affermato che «non risulta da
alcuna delle deroghe ai diritti conferiti dall’articolo 12, paragrafo 1,
lettera e), della direttiva 2011/98/UE, previste all’art. 12, paragrafo 2, di
quest’ultima, una possibilità per gli Stati membri di escludere dal diritto
alla parità di trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico i cui
familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro interessato,
bensì in un paese terzo» (punto 27).

Richiamate le finalità della direttiva, la Corte ha
sottolineato che, nel garantire un obbligo di parità di trattamento dei
lavoratori provenienti da paesi terzi, si riconosce il contributo di costoro
all’economia dell’Unione, attraverso «il loro lavoro e i loro versamenti di imposte»,
e si contrasta la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i
cittadini di paesi terzi causata dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi
(punti 34 e 35).

9.- Concluso l’iter del rinvio pregiudiziale con le
due decisioni della Corte di giustizia, la Corte di cassazione ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n.
69 del 1988, come convertito, per contrasto con i parametri che sovraintendono
al rapporto tra l’ordinamento nazionale e il diritto dell’Unione, gli artt. 11
e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo con l’interposizione delle direttive
indicate.

10.- Le questioni così prospettate devono essere
dichiarate inammissibili per carenza di rilevanza, come eccepito anche dalla
difesa delle parti private.

10.1.- La Corte rimettente assume di non poter dare
attuazione al diritto dell’Unione, come interpretato nelle sentenze rese dalla
Corte di giustizia in risposta al duplice rinvio pregiudiziale da essa stessa
disposto.

Dopo avere escluso il ricorso allo strumento
dell’interpretazione conforme, per l’univoco contenuto della disciplina di cui
all’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come convertito, la Corte di
cassazione ritiene di non poter procedere alla disapplicazione della disposizione
citata poiché, con riferimento alla prestazione sociale in oggetto, il diritto
europeo non detta una disciplina in sé compiuta, da applicare in luogo di
quella dichiarata incompatibile.

10.2.- Per confutare quest’ultimo argomento, è
opportuno prendere le mosse dalla scelta, operata dalla Corte di cassazione, di
rivolgersi alla Corte di Lussemburgo, prima di sollevare la questione di
costituzionalità dinanzi a questa Corte.

Tale scelta si colloca all’interno di una procedura
che identifica nella Corte di giustizia l’interprete del diritto dell’Unione,
al fine di garantirne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri (art.
267 TFUE).

La competenza esclusiva della Corte di giustizia
nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, riconosciuta da questa
Corte in sede di rinvio pregiudiziale (da ultimo ordinanze n. 116 e n. 117 del
2021, rispettivamente punto 8 e punto 7 del Considerato; ordinanza n. 182 del
2020, punto 3.2. del Considerato), comporta, in virtù del principio di
effettività delle tutele, che le decisioni adottate sono vincolanti, innanzi
tutto nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio (Corte di giustizia,
sentenza 16 giugno 2015, in causa C-62/14, Gauweiler e altri, punto 16; e già
sentenza 3 febbraio 1977, in causa 52/76, Benedetti, punto 26).

Nel sistema così disegnato, la procedura
pregiudiziale, oltre a rappresentare un canale di raccordo fra giudici
nazionali e Corte di giustizia per risolvere eventuali incertezze
interpretative, concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto
dell’Unione.

A partire dalla sentenza Simmenthal (sentenza 9
marzo 1978, in causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato), la
Corte di giustizia ha affermato che il giudice nazionale ha l’obbligo di
garantire la piena efficacia delle norme europee dotate di effetto diretto,
«disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione
contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne
chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante
qualsiasi altro procedimento costituzionale» (punto 24).

n tempi molto più vicini, la stessa Corte è tornata
ad affermare la centralità del rinvio pregiudiziale, al fine di garantire piena
efficacia al diritto dell’Unione e assicurare l’effetto utile dell’art. 267
TFUE, cui si salda il potere di «disapplicare» la contraria disposizione
nazionale (sentenza 20 dicembre 2017, in causa C-322/16, Global Starnet Ltd.,
punti 21 e 22; sentenza 24 ottobre 2018, in causa C-234/17, XC e altri, punto
44; sentenza 19 dicembre 2019, in causa C-752/18, Deutsche Umwelthilfe, punto
42; sentenza 16 luglio 2020, in causa C-686/18, OC e altri, punto 30). La Corte
di giustizia ha inoltre precisato che la mancata disapplicazione di una
disposizione nazionale ritenuta in contrasto con il diritto europeo viola «i
principi di uguaglianza tra gli Stati membri e di leale cooperazione tra
l’Unione e gli Stati membri, riconosciuti dall’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE,
con l’articolo 267 TFUE, nonché […] il principio del primato del diritto
dell’Unione» (sentenza 22 febbraio 2022, in causa C﷓430/21, RS, punto
88).

11.- Il principio del primato del diritto
dell’Unione e l’art. 4, paragrafi 2 e 3, TUE costituiscono dunque l’architrave
su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti
e obblighi. Questa Corte, ha costantemente affermato tale principio,
valorizzandone gli effetti propulsivi nei confronti dell’ordinamento interno.
In tale sistema il sindacato accentrato di costituzionalità, configurato
dall’art. 134 Cost., non è alternativo a un meccanismo diffuso di attuazione
del diritto europeo (sentenza n. 269 del 2017, punti 5.2 e 5.3 del Considerato;
sentenza n. 117 del 2019, punto 2 del Considerato), ma con esso confluisce
nella costruzione di tutele sempre più integrate.

12.- Nella prospettiva del primato del diritto
dell’Unione, diversamente da quanto assume la Corte di cassazione, alle norme
di diritto europeo contenute negli artt. 11, paragrafo 1, lettera d), della
direttiva 2003/109/CE e 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva
2011/98/UE, deve riconoscersi effetto diretto nella parte in cui prescrivono
l’obbligo di parità di trattamento tra le categorie di cittadini di paesi terzi
individuate dalle medesime direttive e i cittadini dello Stato membro in cui
costoro soggiornano.

Si tratta di un obbligo cui corrisponde il diritto
del cittadino di paese terzo -rispettivamente titolare di permesso di lungo
soggiorno e titolare di un permesso unico di soggiorno e di lavoro – a ricevere
le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello
Stato membro. La tutela riconosciuta al diritto in questione e la sua
azionabilità richiamano le condizioni che la costante giurisprudenza della
Corte di giustizia individua per affermare l’efficacia diretta delle disposizioni
su cui tali diritti si fondano (a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, in
cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich).

Non è quindi la disciplina delle prestazioni sociali
– nella specie dell’assegno per il nucleo familiare – l’oggetto delle direttive
citate. Come ha chiarito la Corte di giustizia nelle sentenze rese a seguito
del duplice rinvio pregiudiziale, l’organizzazione dei regimi di sicurezza
sociale rientra tra le competenze degli Stati membri, che possono conformare e
modificare il sistema delle provvidenze in coerenza con esigenze interne di
sostenibilità complessiva.

Le richiamate direttive si limitano a prescrivere
l’obbligo di parità di trattamento, in forza della previsione di cui all’art.
79, comma 2, lettera b), TFUE, che consente al Parlamento europeo e al
Consiglio, in sede di procedura legislativa ordinaria, di adottare misure nel
settore della «definizione dei diritti dei cittadini di paesi terzi
regolarmente soggiornanti in uno Stato membro».

L’intervento dell’Unione si sostanzia, dunque, nella
previsione dell’obbligo di non differenziare il trattamento del cittadino di
paese terzo rispetto a quello riservato ai cittadini degli stati in cui essi
operano legalmente.

Si tratta di un obbligo imposto dalle direttive
richiamate in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di
effetto diretto.

12.1.- In relazione a prestazioni in favore di
talune categorie di cittadini di paesi terzi, questa Corte si è, peraltro, già
espressa per dichiarare la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate.
In particolare, con riferimento all’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre
1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo),
come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni
per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia
all’Unione europea – Legge europea 2013), e dell’art. 74, comma 1, del decreto
legislativo 26 marzo 2021 (Testo unico delle disposizioni legislative in
materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma
dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), è stata evidenziata
l’incompleta ricostruzione del quadro normativo, poiché il rimettente non aveva
preso in esame la direttiva 2011/98/UE – in particolare il principio di parità
di trattamento (art. 12) riconosciuto a determinate categorie di cittadini di
paesi terzi, come interpretato dalla Corte di giustizia europea – e non ne
aveva valutato l’applicabilità nel caso sottoposto al suo giudizio (ordinanza
n. 52 del 2019).

12.2.- Alla luce di quanto sin qui detto, si può
affermare che le disposizioni censurate, ritenute dalla Corte di giustizia
incompatibili con il diritto europeo, si prestano a essere disapplicate dal
giudice rimettente.

13.- L’ulteriore argomento prospettato dalla Corte
di cassazione, a sostegno della impraticabilità della disapplicazione della
norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione, risiede nella
valorizzazione della discrezionalità del legislatore. A quest’ultimo spetterebbe
la scelta dei rimedi con cui rimuovere gli effetti discriminatori e quella di
limitare la parità di trattamento.

Anche questo argomento non può essere condiviso.

13.1.- Ben può il legislatore scegliere le modalità
con cui eliminare l’accertata discriminazione anche per il passato. Tuttavia,
il compito della rimozione degli effetti discriminatori già verificatisi rimane
affidato al giudice.

Come affermato dalla Corte di giustizia nella
sentenza 14 marzo 2018, in causa C-482/16, Stollwitzer punto 30, l’eliminazione
della discriminazione deve essere assicurata mediante il riconoscimento alle
persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui
beneficiano le persone della categoria privilegiata. Il regime applicato alla
categoria privilegiata costituisce il solo riferimento normativo da prendere in
considerazione fino a quando il legislatore nazionale non abbia provveduto a
ristabilire la parità di trattamento, e con essa la conformità del diritto
interno a quello dell’Unione.

13.2.- Quanto poi ai possibili limiti da apporre
alla parità di trattamento, la Corte di cassazione richiama una decisione di
questa Corte in cui si è affermato che «il contrasto con il principio di non
discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE, non è sempre di per sé
sufficiente a consentire la “non applicazione” della confliggente norma interna
da parte del giudice comune», e «[a]l legislatore dello Stato membro […] è
consentito di prevedere una limitazione di parità di trattamento tra il proprio
cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia
proporzionata e adeguata» (sentenza n. 227 del 2010).

Il richiamo non è pertinente.

13.3.- La sentenza n. 227 del 2010, citata dalla
Corte rimettente, aveva a oggetto l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge
22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla
decisione quadro 2005/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al
mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna degli Stati membri).

Diversamente da tale decisione quadro, priva di
effetti diretti, le direttive 2003/109/CE e 2011/98/UE impongono come regola
generale la parità di trattamento, in relazione alla prestazione sociale in
esame, e riconoscono agli Stati membri la facoltà di limitare tale parità,
esprimendo chiaramente l’intenzione di volersi avvalere della facoltà di
deroga.

A tale proposito, la Corte di giustizia, nel
rispondere ai rinvii pregiudiziali, ha accertato che il legislatore nazionale
non si è avvalso della facoltà di limitare il trattamento paritario prevista
dall’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109/CE (sentenza nella causa
C-303/19, punto 38), ed ha osservato che l’art. 12, paragrafo 2, della
direttiva 2011/98/UE non consente di escludere dal diritto alla parità di
trattamento il lavoratore titolare di un permesso unico di soggiorno e di
lavoro i cui familiari risiedono non già nel territorio dello Stato membro
interessato, bensì in un paese terzo (sentenza C-302/19, punto 27, che richiama
il punto 24).

Il vincolo, generato dalle sentenze della Corte di
giustizia nei confronti dei giudici del rinvio, riguarda anche tali
affermazioni, che concorrono a sorreggere il giudizio di incompatibilità
dell’art. 2, comma 6-bis, con il diritto derivato dell’Unione.

14.- Si può inoltre osservare che, sul tema delle
deroghe alla parità di trattamento previste dalla direttiva 2011/98/UE, la
difesa statale ha segnalato che nella sentenza della Grande camera 2 settembre
2021, in causa 350/20, O.D. e altri, successiva alla sentenza nella causa
C-302/19, è stato affermato che «la Repubblica italiana non si è avvalsa della
facoltà offerta agli Stati membri di limitare la parità di trattamento come
previsto dall’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98» (punto
64). Vi sarebbe pertanto sul punto una contraddizione interna alla
giurisprudenza della Corte di giustizia.

Dopo la pronuncia della Corte di giustizia ora
citata, resa a seguito di rinvio pregiudiziale, questa Corte ha affermato che
l’esercizio della facoltà di deroga «si correla non soltanto alla salvaguardia
dell’effetto utile della direttiva, ma anche a una fruttuosa e trasparente fase
di recepimento, che lo stesso legislatore dell’Unione europea vuole
contraddistinta dall’impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione
con la Commissione» (sentenza n. 54 del 2022, punto 9.4.1 Considerato in
diritto).

Peraltro, nel senso appena indicato – del mancato
esercizio della facoltà di deroga in sede di recepimento della direttiva
2011/98/UE – la Corte di giustizia si era pronunciata già nella sentenza
Martinez Silva (punto 30), precisando che la normativa limitativa del diritto
alla parità di trattamento era contenuta in disposizioni adottate prima del
recepimento della direttiva (art. 65 della legge n. 448 del 1998), che non
potevano essere considerate istitutive delle limitazioni consentite dalla
medesima direttiva.

Una situazione analoga si registra con riferimento
alla disciplina dell’ANF prevista dal d.l. n. 69 del 1988, come convertito,
anch’essa antecedente al recepimento della direttiva, sicché, in assenza di
deroga, la disposizione contenuta nell’art. 2, comma 6-bis, del citato decreto
realizza una discriminazione in contrasto con il diritto dell’Unione.

15.- In conclusione, questa Corte deve rilevare che
nei giudizi a quibus ricorrono le condizioni per fare luogo alla
disapplicazione dell’art. 2, comma 6-bis, del d.l. n. 69 del 1988, come
convertito. Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad
oggetto tale disposizione devono essere dichiarate inammissibili per difetto di
rilevanza.

 

P.Q.M.

 

Riuniti i giudizi, dichiara inammissibili le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 6-bis, del
decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69 (Norme in materia previdenziale, per il
miglioramento delle gestioni degli enti portuali ed altre disposizioni
urgenti), convertito, con modificazioni, nella legge 13 maggio 1988, n. 153,
sollevate, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione –
quest’ultimo in relazione agli artt. 2, paragrafo 1, lettere a), b), e c), e
11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25
novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano
soggiornanti di lungo periodo, e agli artt. 3, paragrafo 1, lettere b), e c), e
12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa ad una procedura unica
di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di
paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un
insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano
regolarmente in uno Stato membro – dalla Corte di cassazione, sezione lavoro,
con le ordinanze indicate in epigrafe.

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 11 marzo 2022, n. 67
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