Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 marzo 2022, n. 8042
Tutele antinfortunistiche, Rapporto di mero fatto, Obbligo
datoriale, Campo d’applicazione dell’art. 2126 c.c., Indumenti inquadrabili
nella categoria dei D.P.I.
Rilevato che
La Corte di Appello di Napoli, riformando la
sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda del lavoratore C.A. – addetto
alla raccolta dei rifiuti differenziati per l’Ente di bacino Napoli 5
– intesa ad ottenere l’accertamento della
violazione, da parte del Comune di Napoli, dell’obbligo di provvedere alla
manutenzione ed al lavaggio del vestiario fornitogli (tute con barre
catarifrangenti), costituente – secondo le allegazioni contenute in ricorso –
dispositivo di protezione individuale.
Per quello che qui rileva, la Corte territoriale ha
rigettato la domanda del lavoratore sulla scorta di due argomenti: a) il Comune
di Napoli non è il datore di lavoro e, quand’anche lo si fosse ritenuto tale,
avrebbe dovuto essere qualificato come datore di mero fatto, responsabile,
pertanto, nei soli limiti di cui all’art. 2126 c.c. (pagamento delle
retribuzioni e contributi), ma non anche per le pretese risarcitorie; b) le
tute con strisce luminose utilizzate dagli addetti al prelievo dei rifiuti
urbani non possono essere qualificate quali D.P.I. (dispositivi di protezione
individuale).
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione
il lavoratore, articolandolo su due motivi.
Resiste con controricorso il Comune di Napoli.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso viene lamentata la
violazione e falsa applicazione di legge, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.,
in ordine alla ritenuta carenza di legittimazione passiva (rectius: di
titolarità del rapporto nel lato datoriale) del Comune di Napoli; si sostiene
che detto ente era datore di lavoro di fatto del ricorrente, avendone
utilizzato e diretto il rapporto in tutti gli aspetti in luogo dell’Ente Bacino
Napoli 5, in realtà mai costituito; per l’effetto, ex art. 2126 c.c.
il Comune di Napoli era responsabile nei confronti
del C. anche in termini risarcitori.
1.1. Il primo motivo è fondato e va accolto.
Emerge dalla sentenza di appello (cfr. pag. 4) – il
che, peraltro, è incontestato tra le parti – che il Consorzio di Bacino Napoli
5 non è mai stato costituito e che:
a) l’Ente di Bacino Napoli 5 (non costituito in
consorzio) è stato gestito, sin dall’origine e sia pure in via di mero fatto,
come un ramo dell’amministrazione del Comune di Napoli (cfr. sentenza di
appello pag. 4);
b) i rapporti di lavoro degli operatori impegnati
nel servizio di raccolta differenziata – tra cui il C. – venivano gestiti in
via diretta proprio dal Comune di Napoli (o dall’assessore preposto), che ne
organizzava prestazione lavorativa e turni di lavoro, pagando poi le
retribuzioni (cfr. sentenza della Corte territoriale pag. 4-6);
c) la prestazione lavorativa veniva resa in favore
del Comune di Napoli, che ha anche fornito gli indumenti di lavoro e i D.P.I.
Tali essendo i presupposti fattuali del rapporto di
lavoro accertati in sede di merito, risulta fondata la dedotta violazione degli
art. 2094 e 2126 c.c.
È noto, infatti, che elemento essenziale e
caratterizzante la subordinazione è l’assoggettamento alla eterodirezione
datoriale, ovvero la conformazione della prestazione alle direttive del datore
di lavoro.
La sentenza impugnata nega (cfr. pag. 5) la
legittimazione passiva del Comune (rectius: la titolarità del rapporto) in
quanto “non fu mai il Comune di Napoli a procedere per proprio nome e conto all’assunzione
del personale impiegato nel complessivo progetto ora descritto, ma la relativa
azione amministrativa fu sempre posta in essere dai soggetti sopra indicati
(n.dr. Commissario e Sub-Commissario di governo nominati per l’emergenza
rifiuti), limitandosi il ruolo del Comune appellante a quello di soggetto
attuatore”.
Tale percorso motivazionale non considera che
proprio il ricorrente aveva dedotto non già un valido rapporto di pubblico
impiego, ma un rapporto di mero fatto nell’aver lavorato “alle dipendenze del
Comune di Napoli dal 1.11.2000 al 30.01.2009, svolgendo le mansioni di addetto
alla raccolta di rifiuti differenziati, di cui al 3^ livello del c.c.n.l., per
i dipendenti di aziende municipalizzate di igiene urbana”, non essendo stato
costituito l’Ente Bacino Napoli 5.
In breve, lo stesso ricorrente aveva dedotto un
rapporto di lavoro di mero fatto, regolato dall’art. 2126 c.c., alle dipendenze
del Comune di Napoli quale soggetto che ne aveva diretto e retribuito la
prestazione.
Obietta la Corte territoriale che l’art. 2126 c.c.
farebbe salvi solo i diritti retributivi e contributivi maturati a seguito di
un rapporto di lavoro nullo e non anche quelli risarcitori ad esso connessi
(cfr. sul punto pag. 6 della sentenza).
Osserva, invece, questa Suprema Corte che siffatta
affermazione si pone in contrasto con la ratio stessa dell’art. 2126 c.c., che
è quella di garantire al lavoratore gli stessi diritti – anche ulteriori
rispetto a quelli meramente retributivi e previdenziali – che egli avrebbe avuto
se il rapporto fosse stato validamente instaurato.
Non a caso, ad esempio, l’obbligo di apprestare ogni
tutela antinfortunistica per il lavoratore sussiste anche in capo al datore di
lavoro di fatto ed indipendentemente dalla conclusione di un valido contratto.
Il principio, del resto, è stato già affermato da
Cass. 23372/2013, sebbene in relazione al disposto dell’art. 3 del d.P.R. 27
aprile 1955, n. 547 (abrogato dall’art. 304 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ma
applicabile “ratione temporis”).
La pronunzia è risultata, infatti, così massimata:
in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l’obbligo del datore di
lavoro di apprestare adeguate tutele antinfortunistiche in favore dei
lavoratori subordinati sussiste – in conformità al disposto dell’art. 3 del
d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 (abrogato dall’art. 304 del d.lgs. 9 aprile 2008,
n. 81, ma applicabile “ratione temporis”) – indipendentemente dalla
conclusione di un formale contratto di lavoro e si estende, pertanto, nei
confronti di tutti gli addetti, anche solo di fatto, ad una determinata
attività lavorativa, anche se questa sia svolta senza compenso alcuno e per
mero spirito religioso.
Siffatto principio è tuttora immanente nel nostro
sistema e ricavabile, oltre che dall’art. 2087 c.c., anche dagli artt. 2, lett.
b), e 299 del d.lgs. n. 81 del 2008, con la conseguenza che chi di fatto
esercita i poteri decisionali e di spesa (si vedano gli artt. 1 e 299) ed ha la
responsabilità dell’organizzazione del lavoro deve predisporre ogni presidio atto
a tutelare salute e sicurezza dei relativi addetti.
Alla luce di quanto detto è, quindi, erronea anche
la ritenuta esclusione di obblighi risarcitori in capo al datore di lavoro di
fatto.
2. Con il secondo motivo, sempre in relazione
all’art. 360 n. 3 c.p.c., viene lamentata la violazione e falsa applicazione
degli artt. 40, 42 e 43 del d.lgs. n. 626/1994, come modificati dal d.lgs. n.
81 del 2008.
Nel dettaglio si assume che ciò che vale a
differenziare i D.P.I. rispetto agli ordinari indumenti di lavoro è l’astratta
idoneità dei primi a preservare la salute del lavoratore rispetto ai rischi
connessi all’espletamento della prestazione lavorativa, avuto riguardo al
contenuto della prestazione stessa e alle modalità di tempo e di luogo in cui
viene effettuata, assumendo le elencazioni contenute nei testi normativi
portata meramente esemplificativa.
2.1. Il motivo è fondato.
La nozione legale di Dispositivi di Protezione
Individuale (D.P.I.) non si riduce alle attrezzature appositamente create e
commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a
caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura,
complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera
protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del
lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c., come nel caso delle tute con
barre catarifrangenti; ne consegue la configurabilità a carico del datore di
lavoro di un obbligo di fornitura e di mantenimento in stato di efficienza di
tali indumenti di lavoro, anche essi inquadrabili nella categoria dei D.P.I.
Al principio innanzi ricordato, affermato in Cass.
n. 16749/2019 proprio con riguardo agli addetti alla raccolta e allo
smaltimento dei rifiuti solidi urbani, va data continuità pure nella presente
sede sul rilievo che le caratteristiche intrinseche degli indumenti descritti
nella sentenza della Corte territoriale (“indumenti ad alta visibilità”,
“giacca e pantalone di colore arancione fluorescente” – cfr. pag. 8 della sentenza),
in relazione all’attività lavorativa del prestatore, addetto alla raccolta
differenziata dei rifiuti, sono sufficienti a qualificarli come D.P.I. perché
volti a proteggere i lavoratori dai pericoli connessi alla raccolta dei rifiuti
in strada in concomitanza con la normale circolazione dei veicoli.
3. Ne discende l’accoglimento anche del secondo
motivo di ricorso e la cassazione della sentenza con rinvio alla Corte di
appello di Napoli, in diversa composizione, cui si demanda di provvedere anche
sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e
rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di
provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.