Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 marzo 2022, n. 10165
Infortunio mortale sul lavoro, Risarcimento del danno,
Natura aquiliana della domanda proposta dai congiunti del lavoratore, Concorso
di colpa della vittima, Violazione delle prescrizioni impartite dal datore di
lavoro, Esonero della responsabilità del datore
Fatti di causa
1. Il 10 ottobre 2003 P.V.M., operaio edile, perse
la vita in conseguenza di un infortunio sul lavoro, provocato dal cedimento di
un solaio e dalla conseguente precipitazione della vittima.
Nel 2004 i prossimi congiunti della vittima (R.M.,
C.A.M., V.M., V.M., R.M.), odierni ricorrenti, convennero dinanzi al Tribunale
di Santa Maria Capua Vetere il datore di lavoro della vittima, P.M.,
chiedendone la condanna al risarcimento del danno.
2. Il convenuto si costituì eccependo il concorso di
colpa della vittima e la compensati° lucri cum damno, per effetto
dell’intervento dell’assicuratore sociale; chiese di chiamare in causa il
proprio assicuratore della responsabilità civile, la Società C. di
Assicurazioni.
La società chiamata in causa si costituì aderendo
alle difese del proprio assicurato.
3. Con sentenza 11 settembre 2014 il Tribunale di
Santa Maria Capua Vetere rigettò la domanda.
Ritenne il Tribunale che l’infortunio era avvenuto
in un’area nella quale era interdetto l’accesso ai lavoratori, ed alla quale la
vittima era acceduta in violazione delle prescrizioni impartite dal datore di
lavoro.
La sentenza venne appellata dai soccombenti.
4. Con sentenza 15 luglio 2019 n. 3926 la Corte
d’appello di Napoli dichiarò inammissibile l’appello.
La Corte d’appello ritenne che gli appellanti:
a) avevano contestato in modo soltanto generico le
valutazioni compiute dal Tribunale;
b) non avevano contestato l’attendibilità dei
testimoni, ma avevano allegato che la sentenza di primo grado fosse erronea
perché l’area dell’infortunio era sì isolata, ma recintata con mezzi facilmente
superabili; tuttavia tale censura non era pertinente rispetto al decisum, in
quanto il Tribunale aveva ritenuto che non vi fosse bisogno di una apposita
recinzione insormontabile, dal momento che il divieto di accesso a quell’area
era stato portato a conoscenza dei dipendenti con mezzi idonei;
c) il gravame si limitava a denunciare principi
astratti, che seppur corretti in sé, erano privi di relazione col caso
concreto; in particolare gli appellanti si erano limitati ad invocare il
principio per cui il datore di lavoro deve non solo dotare i lavoratori delle
misure di sicurezza, ma anche vigilare affinché esse vengano concretamente
rispettate; tuttavia nel caso di specie gli appellanti non avevano indicato né
quali fossero le misure di sicurezza sulla cui mancata adozione il datore di
lavoro aveva omesso di vigilare; né avevano censurato l’affermazione del
Tribunale secondo cui la condotta della vittima, poiché esorbitante dalle
mansioni alla stessa affidate, sollevava il datore di lavoro da qualsiasi
responsabilità.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per
cassazione da R.M., C.A.M., V.M., V.M. e R.M. (il ricorso non indica mai quale
sia il rapporto di parentela con quest’ultima), con ricorso fondato su un solo,
articolato motivo.
Hanno resistito con controricorso P.M. e la società
C..
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo i ricorrenti lamentano la
violazione di cinque diverse norme del codice di procedura civile, degli articoli 2087 e 2909
c.c., nonché di varie norme speciali.
Nella illustrazione del motivo vengono prospettate
varie censure così riassumibili:
a) ha errato la Corte d’appello nel ritenere che il
gravame fosse generico;
b) la Corte d’appello ha “violato la legge
sostanziale”, per avere attribuito la colpa dell’infortunio alla vittima,
senza accertare né se fosse stata informata del divieto di accesso all’area
dell’infortunio; né se la cintura di sicurezza di cui la vittima era dotata
fosse idonea a prevenire l’infortunio;
c) la Corte d’appello aveva “violato la legge
processuale” per avere ritenuto generico l’atto d’appello; nel suddetto
atto, per contro, gli appellanti avevano censurato la sentenza di primo grado
sostenendo che la responsabilità dell’accaduto non poteva essere ascritta
interamente alla vittima, perché dalle prove raccolte era emerso che il luogo
ove avvenne l’infortunio mortale non era validamente intercluso ed era
agevolmente percorribile;
d) la Corte d’appello aveva ritenuto il datore di
lavoro esente da responsabilità, sul presupposto che la vittima fosse a
conoscenza del divieto di accedere all’area ove avvenne l’infortunio, senza
però accertare se il suddetto divieto fosse stato concretamente portato a
conoscenza o fosse comunque conoscibile da parte della vittima;
e) la Corte d’appello aveva “stravolto gli
oneri di allegazione e prova”, per avere rigettato la domanda nonostante
il datore di lavoro della vittima non avesse dimostrato di avere completamente
assolto il proprio dovere di vigilanza sul rispetto, da parte dei dipendenti,
delle misure di sicurezza imposta dalla legge.
2. Tutte le censure sopra riassunte sono
inammissibili per la stessa ragione per la quale la Corte partenopea ritenne
inammissibile anche l’appello: e cioè la loro estraneità alla ratio decidendi.
La Corte d’appello, infatti, ha così ragionato:
-) il Tribunale ha ritenuto che il datore di lavoro,
inserendo nel giornale di cantiere l’ordine di servizio contenente il divieto
di accesso all’area dell’infortunio, e recintando quest’ultima con “nastri
di cantiere”, avesse fatto quanto necessario per rendere edotti in tutti i
lavoratori del divieto (p. 7 della sentenza d’appello);
-) i congiunti della vittima hanno impug-na4) tale
statuizione sostenendo che l’area interdetta era comunque facilmente
accessibile, perché i nastri di cantiere non impedivano l’ingresso in essa;
-) tale motivo di appello era privo di decisività,
perché la conoscenza o conoscibilità del divieto da parte del lavoratore
rendeva irrilevante lo stabilire se l’area di cantiere fosse agevolmente
accessibile oppure no.
I ricorrenti, incuranti di tale statuizione,
sostengono che il proprio appello era specifico e non generico.
Si tratta di una censura non pertinente rispetto al
contenuto oggettivo della sentenza impugnata, sotto vari profili,
2.1. In primo luogo dalla trascrizione dell’atto
d’appello, contenuta nelle pagine 3-7 del ricorso per cassazione, emerge che
quest’ultimo non conteneva alcuna deduzione volta a censurare l’affermazione –
compiuta dal Tribunale – secondo cui la vittima doveva ritenersi in colpa
perché, pur conoscendo o potendo conoscere il divieto di accesso ad una certa
area di cantiere, vi si era introdotta ugualmente.
2.2. Sebbene il rilievo che precede abbia carattere
assorbente, ad abundantiam ritiene utile il Collegio aggiungere che:
-) lo stabilire se un divieto impartito dal datore
di lavoro fosse o non fosse conoscibile da tutti i lavoratori è una questione
di puro fatto, riservata al giudice di merito, e non sindacabile in sede di
legittimità;
-) nessuno “stravolgimento degli oneri di
allegazione e prova” è stato compiuto dalla Corte d’appello, dal momento che la
domanda di risarcimento del danno proposta dai prossimi congiunti del
lavoratore vittima di un infortunio mortale ha natura aquiliana e non
contrattuale, con la conseguenza che l’onere di provare la condotta illecita, la
natura colposa di essa, il nesso causale e il danno grava sugli attori
(explurimis, Sez. L – Sentenza n. 2 del 02/01/2020, Rv. 656405 – 01; Sez. 3 -,
Ordinanza n. 907 del 17/01/2018, Rv. 647127 – 01; principio, quest’ultimo, che
questa Corte tiene fermo da trent’anni: in tal senso, infatti, si veda già Sez.
3, Sentenza n. 4248 del 07/04/1992, Rv. 476651 -01).
3. Le spese del presente giudizio di legittimità
seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385,
comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
Le spese sostenute da P.M. andranno liquidate in
misura pari al minimo tabellare, avuto riguardo alla oggettiva stringatezza del
controricorso.
P.Q.M.
(-) dichiara inammissibile il ricorso;
(-) condanna R.M., C.A.M., V.M., V.M., R.M., in
solido, alla rifusione in favore di C. di Assicurazione soc. coop. a delle
spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di
euro 3.800, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese
forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n.
55;
(-) condanna R.M., C.A.M., V.M., V.M., R.M., in
solido, alla rifusione in favore di P.M. delle spese del presente giudizio di
legittimità, che si liquidano nella somma di curo 2051, oltre 200 per spese
vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
– bis dello stesso art. 13, se
dovuto.