La cessazione del contratto di affitto d’azienda con retrocessione dell’azienda medesima all’originario cedente, il quale prosegua l’attività già esercitata in precedenza, avvalendosi di un’immutata organizzazione aziendale rientra nel campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. Sicché Il licenziamento intimato un giorno prima della retrocessione di azienda, che non venga impugnato, impedisce la prosecuzione del rapporto di lavoro col retrocessionario.
Nota a Cass. 11 marzo 2022, n. 8039
Fabio Iacobone
“La continuazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della cessionaria (o della retrocessionaria) si realizza, ai sensi dell’art. 2112 c.c., per i lavoratori che sono dipendenti della cedente (o della retrocecedente) al momento del trasferimento o che tali devono considerarsi per effetto della nullità o dell’annullamento del licenziamento, con ripristino o reintegra nel posto di lavoro”.
È quanto ribadisce la Corte di Cassazione (11 marzo 2022, n. 8039, difforme da App. Catanzaro 23 agosto 2018; in linea, Cass. n. 23675/2018 e n. 16255/2011), la quale precisa che l’art. 2112 c.c. si applica anche nel caso di “cessazione del contratto di affitto d’azienda e conseguente retrocessione della stessa all’originario cedente, purché quest’ultimo prosegua l’attività già esercitata in precedenza, mediante l’immutata organizzazione aziendale, con onere della prova a carico di chi invoca gli effetti dell’avvenuto trasferimento”.
La Corte specifica inoltre che, se è vero che anche in caso di retrocessione si trasferiscono automaticamente al retro-cessionario i dipendenti originariamente ceduti, è altresì necessario (quale presupposto per un trasferimento a termini di legge) che il rapporto di lavoro sia in atto al momento della retrocessione. Nel caso sottoposto all’esame della Corte, invece, il licenziamento intimato prima di questa non era stato tempestivamente impugnato, impedendo così l’effetto traslativo.
I giudici rilevano anche che, in base all’art. 2112, 4° co., c.c. (relativo al licenziamento intervenuto in concomitanza con il trasferimento dell’azienda), “ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento”.
Ne consegue che, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, “l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, purché questo abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo” (v. Cass. n. 11410/2018).
In altri termini, l’automatica “continuazione” del rapporto di lavoro con il cessionario e la “conservazione” dei diritti maturati dai lavoratori sino al momento della cessione presuppongono. la vigenza del rapporto di lavoro in capo alla cedente al momento del trasferimento, “vigenza che può essere effettiva ma anche virtuale, quale conseguenza dell’annullamento del licenziamento intimato e del ripristino de iure del rapporto di lavoro”.
Perciò, l’effetto di tale annullamento, in epoca anteriore al trasferimento, comporta che il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisce, ai sensi della citata norma codicistica, in capo al cessionario. In tema, si veda anche Cass. n. 8641/2010, secondo cui a seguito dell’annullamento del licenziamento sussiste la legittimazione passiva anche del cessionario per le richieste del lavoratore relative al ripristino del rapporto di lavoro; nonché, v. Cass. n. 5507/2011 e Cass. n. 4130/2014, per la quale “Il rapporto di lavoro del lavoratore, illegittimamente licenziato prima del trasferimento di azienda, continua con il cessionario dell’azienda qualora, per effetto della sentenza intervenuta tra le parti originarie del rapporto, il recesso sia stato annullato”.
Resta invece esclusa la possibilità che possa “continuare” in capo al cessionario “un rapporto di lavoro non più esistente all’epoca del trasferimento, cioè definitivamente cessato in fatto e anche de iure per la mancata impugnativa dell’atto di recesso”.