Il patto di non concorrenza non può essere rimesso all’arbitrio del datore di lavoro
Nota a Cass. 8 febbraio 2022, n. 4032
Alfonso Tagliamonte
“La previsione di risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell’attività lavorativa deve essere contenuto, in base a quanto previsto dall’art. 1225 c.c. interpretato alla luce degli art. 4 e 35 Cost., entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo: con la conseguenza che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l’attribuzione patrimoniale pattuita”.
In quest’ottica, né rileva il fatto che il recesso del patto di non concorrenza avvenga in costanza di rapporto di lavoro, poiché i rispettivi obblighi si cristallizzano al momento della sottoscrizione del patto, il che impedisce al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà. Tale compressione, ai sensi dell’art. 2125 c.c., comporta l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore di lavoro: corrispettivo che finirebbe per essere escluso qualora al datore venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo.
Né “l’erogazione del corrispettivo in pendenza del rapporto … elide i profili di nullità, sia di indeterminabilità temporale del vincolo sia di predeterminazione del corrispettivo, del patto tra le parti, per esserne rimessa la discrezionale e unilaterale recedibilità alla banca datrice, nella finalità di stipulazione del patto nel suo ‘esclusivo interesse ed in relazione alle valutazioni’ dalla stessa ‘espresse al riguardo’”.
Così, si è espressa la Corte di Cassazione 8 febbraio 2022, n. 4032 (v. Cass. n. 23723/2021, in q. sito con nota di S. ROSSI; Cass. n. 3/2018, in q. sito con nota di MN. BETTINI e Cass, n. 212/2013) in linea con la sentenza della Corte d’Appello di Trieste 26 marzo 2020, la quale aveva accertato l’invalidità del patto di non concorrenza post-contrattuale stipulato da un istituto di credito con un suo dipendente adibito a mansioni di “gestore private banker”, condannando quest’ultimo alla restituzione dell’importo percepito dalla datrice di lavoro a tale titolo, sul presupposto che il corrispettivo: a) quale elemento essenziale del patto, era ab origine non determinato; b) e non era determinabile, essendo a discrezione della datrice il recesso in ogni momento entro la fine del rapporto di lavoro (salvo un termine di preavviso di nove mesi). Di modo che il lavoratore risultava “ignaro del ‘prezzo’ minimo della rinuncia al libero sfruttamento delle possibilità occupazionali e della propria crescita professionale, dopo la cessazione del rapporto di lavoro con la banca”.