Bonus bebè e assegno di maternità anche per gli extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno di lungo periodo.
Nota a Corte Cost. 4 marzo 2022, n. 54
Francesco Belmonte
Sono contrari al dettato costituzionale gli art. 1, co. 125, L. 23 dicembre 2014, n. 190 (nella formulazione antecedente alle modificazioni introdotte dall’art. 3, co. 4, L. 23 dicembre 2021, n. 238) e l’art. 74, D.LGS. 26 marzo 2001, n. 151 (nel testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, co. 3, lett. a), L. n. 238/2021), nella parte in cui subordinano la concessione dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità al possesso, da parte dei cittadini di Paesi terzi ammessi in Italia per fini lavorativi, del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, escludendo, quindi, quei cittadini extracomunitari ammessi nel territorio nazionale per fini diversi dall’attività lavorativa, ai quali è consentito lavorare e che sono titolari di un permesso di soggiorno di durata superiore a sei mesi.
Così si è pronunciata la Consulta (4 marzo 2022 n. 54) nell’ambito di una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione (ord. nn. 175, da 177 a 182 e da 188 a 190, del 2019), in relazione al diniego, da parte dell’Inps, di corrispondere l’assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e l’assegno di maternità, anche agli extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno di lunga durata.
Per la Cassazione, l’estensione delle tutele genitoriali ai soli cittadini di Paesi terzi che siano titolari del citato permesso sarebbe lesiva del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), “in quanto penalizzerebbe proprio chi, sprovvisto dei requisiti per conseguire il permesso in esame (soggiorno in Italia per almeno cinque anni, reddito minimo, alloggio idoneo, conoscenza della lingua italiana), versa in condizioni di più grave bisogno.”
In particolare, «non vi sarebbe alcuna “ragionevole correlazione” tra i presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e “i requisiti di bisogno e di disagio della persona”, che rappresentano la ragion d’essere dell’assegno di natalità».
Il rimettente prospetta inoltre anche il contrasto con l’art. 31 Cost., in quanto tale disposizione negherebbe, “in radice ed irrimediabilmente, la realizzazione del diritto sancito dalla Costituzione, con effetti disgreganti del tessuto sociale della nazione nel nucleo originario ed essenziale della famiglia”.
La Corte Costituzionale ha ritenuto le questioni sollevate in sede di legittimità ammissibili e fondate.
Al fine di verificare la conformità costituzionale delle norme sottoposte a scrutinio, il Giudice delle Leggi, preliminarmente, offre un inquadramento delle principali caratteristiche del bonus bebè e dell’assegno di maternità.
Il primo, allo scopo di “incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno”, è stato inizialmente concesso dal 2015 – poi successivamente confermato e potenziato –“ per ogni figlio nato o adottato tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017”, alle famiglie meno abbienti (art. 1, co. 125, L. n. 190/2014).
L’assegno di maternità, invece, rappresenta una tutela residuale, che opera nei soli casi in cui il nucleo familiare versi in condizioni economiche precarie e la madre non possa reclamare l’indennità di maternità in forza di uno specifico rapporto di lavoro (art. 74, D.LGS. n. 151/2001).
Entrambe le misure sovvengono ad una peculiare situazione di bisogno che si riconnette alla nascita di un bambino o al suo ingresso in una famiglia adottiva.
Le provvidenze in commento, poi, “si prefiggono di concorrere a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2° co., Cost.), e, in particolare, rappresentano attuazione dell’art. 31 Cost., che impegna la Repubblica ad agevolare “con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose, e a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.”
Per la Corte, “nel condizionare il riconoscimento dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, al possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e alla disponibilità di un alloggio idoneo, il legislatore ha fissato requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare.”
Per tale via, “le disposizioni censurate istituiscono per i soli cittadini di Paesi terzi un sistema irragionevolmente più gravoso, che travalica la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione.”
Un siffatto criterio selettivo nega, infatti, “adeguata tutela a coloro che siano legittimamente presenti sul territorio nazionale e siano tuttavia sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”, pregiudicando “proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno più pressante”.