Il licenziamento del componente della RSU senza nulla osta costituisce condotta antisindacale, non sanabile con la reintegra formale del delegato con sospensione dalla prestazione.
Nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere 24 febbraio 2022
Paolo Pizzuti
La condotta aziendale concretizzatasi nell’aver disposto la immediata efficacia di un licenziamento di componente RSU, intimato senza attendere la conclusione del procedimento di cui all’art. 14 dell’Accordo Interconfederale 18 aprile 1966 (richiamato espressamente dall’art. 6, co.1, sez. II, CCNL metalmeccanici – aziende industriali), configura un comportamento antisindacale. Ciò, in quanto impedisce che “la procedura de qua e, quindi, il controllo delle OO.SS. si svolga preventivamente rispetto alla concreta “operatività” del recesso.
Difatti il provvedimento aziendale diventa operante non alla sua adozione, bensì con la concessione del nulla-osta (ovvero quando sia comunque scaduto il termine all’uopo previsto per l’espletamento della procedura) poiché la procedura conciliativa prevista dall’Accordo in questione esplica la funzione di integrare la fattispecie costitutiva dell’efficacia del licenziamento.
Ciò non significa che detta procedura debba essere attivata preventivamente rispetto all’emanazione del provvedimento espulsivo lesivo, ma che essa rappresenta una condizione di efficacia della determina datoriale, finalizzata a verificare che il licenziamento non sia strumentale alla lesione del sindacato.
Questo, il principio espresso dal Tribunale di Santa Maria Capua Venere 24 febbraio 2022 il quale ha sintetizzato gli elementi che connotano la antisindacalità di una condotta, precisando che “per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 Stat. Lav., è sufficiente che il comportamento controverso leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero” (v., fra tante, Cass. SU. n. 5295/1997; Cass. n. 7706/2004 e Cass. n. 20078/2008).
I giudici chiariscono altresì che:
– la definizione di “condotta antisindacale” fornita dall’art. 28 Stat. Lav. non è analitica bensì teleologica nel senso cioè che il comportamento illegittimo è individuato non in base alle caratteristiche strutturali di esso, ma in base alla sua idoneità a ledere i beni protetti e cioè i diritti di libertà sindacale. In altri termini, per integrare gli estremi della condotta antisindacale non è necessario uno specifico intento lesivo del datore di lavoro, ma occorre almeno che vi sia “l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre il risultato che la legge intende impedire e cioè la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero” (v. Cass. SU n. 5295/1997, cit.; Cass. n. 2905/1999);
– quando lo stesso atto è idoneo a ledere un diritto individuale ed un diritto sindacale esso può essere definito come comportamento plurioffensivo (ad es.: licenziamento del lavoratore per motivi sindacali);
– l’antisindacalità di alcuni comportamenti è espressamente prevista dalla legge in alcuni casi, quali: a) l’art. 7, L. n. 146/90, che definisce condotta sindacale la violazione da parte del datore di lavoro di clausole concernenti diritti ed attività sindacali di accordi e contratti collettivi che disciplinano il rapporto di lavoro nei servizi essenziali; b) l’art. 47, co. 3, L. n. 428/1990, per la quale nei procedimenti di trasferimento di azienda, costituisce condotta antisindacale il mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di esaminare congiuntamente con le rappresentanze dei lavoratori le problematiche poste dal trasferimento dell’azienda medesima;
– il ricorso ex art. 28, Stat. Lav. può essere azionato dagli organismi locali delle organizzazioni sindacali che vi abbiano interesse e che hanno capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi o anche gestionali (v. Cass. n. 5209/2010);
– è ammissibile ricorrere all’art. 28 Stat. Lav. laddove il comportamento denunciato sia ancora in atto e purché permangano gli effetti lesivi dello stesso, anche dopo che sia trascorso un lungo periodo dall’inizio della condotta illegittima (v. Cass. n. 1600/1998). In altre parole, requisito essenziale per l’azione di repressione della condotta antisindacale è l’attualità della medesima ovverosia il perdurare dei suoi effetti (v. Cass. n. 3837/2016).
Nella fattispecie erano ancora persistenti gli effetti della condotta antisindacale in quanto era stato inibito al rappresentante sindacale di rendere la prestazione lavorativa e, pertanto, di esercitare in azienda i diritti sindacali fino all’esaurimento della procedura di cui all’art. 14 dell’Accordo Interconfederale, vanificando la ratio di tutela prevista dalla citata disposizione contrattuale. Sicché il giudice ha ritenuto che la formale riammissione in servizio del lavoratore con esonero dal rendere la prestazione, nelle more della procedura, non costituiva un comportamento idoneo a rimuovere gli effetti lesivi della condotta datoriale, in quanto al lavoratore veniva comunque impedito l’esercizio dei diritti sindacali in azienda.