Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 maggio 2022, n. 14666
Rapporto di lavoro, Mobbing, Comportamenti diretti a
umiliare la lavoratrice peggiorandone costantemente la posizione nell’ambiente
di lavoro, Licenziamento, Risarcimento del danno, Principio di
corrispondenza tra chiesto pronunciato
Rilevato che
1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza n.
186 depositata il 22.5.2019, confermando la sentenza del Tribunale di Rovigo,
ha condannato la società D.P.A. s.r.l. al pagamento del risarcimento del danno
ad A.Z. per condotte riconducibili al fenomeno del mobbing relativo ad episodi
dal 2009 al 2011 relativi a comportamenti tenuti sul posto di lavoro da
colleghi e da superiori gerarchici, danno liquidato in complessivi euro
16.765,00 oltre accessori.
2. La Corte territoriale – concordando con le
valutazioni effettuate, anche alla luce della disposta CTU, dal giudice di
primo grado – ha evidenziato che bisognava scindere la parte relativa alla
causa petendi della causa avanti alla Corte stessa incardinata (risarcimento
danni da mobbing) con quella legata al licenziamento (che esulava dalla
controversia e i cui effetti erano oggetto di altra causa); che il CTU aveva
individuato due periodi (il primo tra fine agosto e fine ottobre 2010, con disturbo
dell’adattamento, umore depresso di lieve entità con significativo
miglioramento; il secondo, decorrente da febbraio 2011, con il riacutizzarsi
della patologia e aggravamento da settembre 2011 con cronicizzazione e
passaggio a livello di moderata entità); che nel primo periodo la situazione di
lieve compromissione della salute (68 giorni di invalidità temporanea nonché 5%
di invalidità permanente, aumentata del 20%, applicando le tabelle milanesi,
tenuto conto del grado medio di sofferenza) era collegata causalmente con i
fatti aziendali, mentre il risultato “finale” delle condizioni di salute
(invalidità permanente di entità senz’altro più rilevante, come accertato dal
CTU) era obiettivamente collegato con il licenziamento e anche con la mancata
soluzione del problema post licenziamento (mancata composizione della vertenza
con il datore di lavoro).
3. Per la cassazione di tale sentenza la lavoratrice
ha proposto ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria ex art. 378
cod.proc.civ. La società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., violazione dell’art. 112
cod.proc.civ. per mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, avendo la
Corte territoriale erroneamente compreso le domande formulate nel ricorso
introduttivo del giudizio ove erano stati richiesti tutti i danni derivanti da
tutte le condotte denunciate e poste in essere dal datore di lavoro tra settembre
2009 e febbraio 2011, compreso il licenziamento; in particolare, nel ricorso in
appello era stato precisato che “oggetto della presente controversia è
l’accertamento dei comportamenti vessatori posti in essere dalla convenuta
D.P.A. s.r.l. dal settembre 2009 fino a febbraio 2011 (quindi fino a
licenziamento compreso), e l’accertamento del fatto che tutti questi
comportamenti abbiano provocato un danno biologico di natura psichica a carico
della ricorrente”. La CTU ha inequivocabilmente accertato l’esistenza di una
sofferenza psichica: “un primo periodo compreso tra fine agosto e fine ottobre
2010, durante il quale il quadro clinico si caratterizzò come un disturbo
dell’adattamento con ansia ed umore depresso misti, di lieve entità (…).
Dalla data del licenziamento (15.2.11) il disturbo dell’adattamento sembra
riproporsi con analoghe caratteristiche e livello di gravità e con rapido
miglioramento (…). La sintomatologia si acuì nuovamente attorno al settembre
del 2011, quando vennero frustrate le aspettative di composizione del
contenzioso lavorativo” (pag. 17 del ricorso per cassazione).
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., nullità della sentenza
per violazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. per avere, la Corte
territoriale, valutato la CTU secondo la propria scienza personale,
stravolgendo il senso di quanto affermato dal professionista incaricato,
ispirata dalle valutazioni unilaterali provenienti dal consulente di parte
della società che, peraltro, erano state respinte dalla stessa CTU che aveva
riscontrato un chiaro rapporto temporale tra il licenziamento e l’insorgenza
del disturbo psichiatrico (il quale non trovava precedente espressione clinica
in relazione ad eventi di vita extra lavorativi).
3. I motivi, che possono essere esaminati
congiuntamente visto la stretta connessione, non sono fondati.
4. La rilevazione ed interpretazione del contenuto
della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile
qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in
cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio
attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una
violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (da
prospettarsi come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, primo
comma n. 4, cod.proc.civ.).
5. Il vizio di omessa pronuncia che integra una
violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato, ricorre
quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda,
intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere
l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene
all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto
concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa
pronuncia di accoglimento o di rigetto.
6. Nel caso di specie, le conclusioni del ricorso
introduttivo (riprodotte dalla ricorrente nel ricorso per cassazione) erano del
seguente tenore: “accertare e dichiarare che D.P.A. s.r.l., in persona del
legale rappresentante R.P. e/o anche delle sue dipendenti B.G. e Z.E., ha posto
in essere comportamenti continuati vessatori e lesivi della dignità professionale
e umana della ricorrente (c.d. mobbing) nel periodo dal settembre 2009 al
febbraio 2011, in violazione dell’art. 2087 cod.civ., provocando un danno
biologico di natura psichica alla stessa ricorrente; per l’effetto condannare
D.P.A. s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore al risarcimento
a favore della dott.ssa Z.A. di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali
subiti, nella misura che sarà ritenuta di giustizia e/o che risulterà da
apposita CTU medico-legale da svolgere sulla persona della ricorrente”. Ciò
sulla base della descrizione della sequenza di episodi e provvedimenti che,
secondo la prospettazione della lavoratrice, avevano integrato condotte di
mobbing, consistenti in note e ordini di servizio, controlli analitici dell’attività
lavorativa, inviti a dimettersi, tutto compendiato in un totale di 15
contestazioni disciplinari (impugnati, compresi i licenziamenti, in altri
giudizi e dichiarati illegittimi), comportamenti diretti a “umiliare la
lavoratrice peggiorandone costantemente la posizione nell’ambiente di lavoro,
volta a privarla della propria dignità professionale (e non solo), ad
incrinarne la sicurezza nelle proprie competenze nonché ad isolarla fino ad
escluderla dal contesto aziendale” (pag. 4 del ricorso introduttivo del
giudizio).
7. Il percorso argomentativo della Corte
territoriale parte dal rilievo che il giudice di primo grado ha ritenuto di
scindere la parte relativa all’attuale causa petendi da quella legata al
licenziamento “(che esulava dalla presente controversia ed i cui effetti tutti
erano oggetto di altra causa)”, pag. 3 della sentenza impugnata; si dipana,
poi, sottolineando che “oggetto di domanda in questo giudizio è il risarcimento
danni da mobbing e non ogni e qualsiasi danno alla persona derivante da fatti
successivi al dedotto mobbing (da febbraio 2011 in poi)” (pag. 6 della sentenza
impugnata); le conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio – come innanzi
riportate – richiamavano i “comportamenti continuati vessatori e lesivi della
dignità professionale e umana della ricorrente (c.d. mobbing) nel periodo dal
settembre 2009 al febbraio 2011”. Pertanto, come si desumeva dal tenore
complessivo del ricorso introduttivo del giudizio e dal tenore letterale delle
conclusioni del medesimo atto, la ricorrente aveva fatto chiaro riferimento ai
danni provocati da condotte vessatorie tenute durante il rapporto di lavoro e
riconducibili al fenomeno del mobbing, e la Corte di appello con motivazione
incensurabile mediante il paradigma impugnatorio previsto nel n. 5, dell’art.
360, primo comma, cod.proc.civ. (come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera
b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni,
nella legge 7 agosto 2012, n. 134) ha correttamente circoscritto il petitum
proposto dalla lavoratrice ai danni conseguiti alle condotte vessatorie subìte.
8. Il secondo motivo, pur concentrandosi
sull’interpretazione fornita dalla Corte territoriale della CTU (in ordine alla
quale, peraltro, riporta – al pari della sentenza impugnata – la enucleazione
effettuata dal medico incaricato di due periodi di differenti disturbi
psichiatrici sofferti dalla Z.), si risolve nel riproporre la censura attinente
all’oggetto del giudizio, innanzi esaminata e respinta. La Corte distrettuale si
è conformata al principio di diritto già statuito da questa Corte secondo cui
la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio,
avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi
acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche
conoscenze e, coerentemente con l’interpretazione della domanda giudiziale, ha
ritenuto di escludere dalla valutazione dei danni il “secondo periodo”
enucleato dal CTU, in quanto “collegato con altri eventi diversi da quelli di
causa” (pag. 6 della sentenza impugnata).
9. In conclusione, il ricorso va rigettato e le
spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91
cod.proc.civ.
10. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13,
comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro
200,00 per esborsi nonché in euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre
spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.