Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 maggio 2022, n. 16635

Licenziamento, Settore aeronautico, Unitarietà dell’impresa
di società controllante e società controllata, Accertamento, Rinuncia al
ricorso, Estinzione del giudizio, Mancata accettazione della rinuncia,
Regolamento delle spese processuali, Applicazione del principio di causalità

Rilevato che

 

1. la Corte di appello di Milano, decidendo
sull’appello proposto da A.I. s.p.a. (già M.F. s.p.a.), da A.I. F.M.C. s.p.a.-
AIFCM (già A.I. s.p.a.) e da A. s.p.a. nei confronti di L.P., in parziale
riforma della sentenza di primo grado, ha respinto le domande proposte dal
lavoratore nei confronti di A. s.p.a., compensando tra le parti le spese del
doppio grado di giudizio. Accertata l’unitarietà dell’impresa costituita dalle
società A.I. s.p.a. (già M.F. s.p.a.) e AIFMC (già A.I. s.p.a.), ha condannato
le stesse a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a corrispondergli
un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto,
dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, in misura non
superiore a dodici mensilità, oltre accessori di legge, confermando nel resto
la sentenza impugnata;

2. per la cassazione della sentenza hanno proposto
ricorso A.I. s.p.a. e A.I. F.M.C. s.p.a. (AIMFC s.p.a.), affidato a cinque
motivi ulteriormente illustrati da memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod.
proc. civ. Il lavoratore ha resistito con controricorso ed ha depositato
successiva memoria. A. s.p.a. è rimasta intimata;

3. le società ricorrenti hanno notificato via p.e.c.
alle controparti, in prossimità della adunanza camerale, atto di rinuncia al
giudizio ed hanno chiesto la declaratoria di estinzione del processo; la difesa
del lavoratore, nel dare atto dell’avvenuta notificazione della rinuncia, ha
insistito per la condanna alle spese, con attribuzione agli avvocati
dichiaratisi antistatari.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo di ricorso le società
ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. e
degli artt. 24, 4, e 5 l. n. 223/1991, nonché dell’art. 115 cod. proc. civ.,
censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto illegittimo il
licenziamento sul presupposto che a fondare la contitolarità del rapporto di
lavoro bastasse la integrazione fra le attività della controllante e le
attività della controllata; ciò a prescindere dall’esame della posizione
individuale del singolo lavoratore in rapporto al suo inserimento nella
complessiva struttura aziendale e dal concreto accertamento dell’uso promiscuo
della sua prestazione;

2. con il secondo motivo deducono violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223/1991 nonché dell’art. 115 cod. proc.
civ., censurando la sentenza impugnata in base al rilievo che, anche a voler
considerare unitariamente la struttura delle società M.F. s.p.a. e A.I. s.p.a.,
l’individuazione dei lavoratori in esubero non poteva che avvenire in relazione
alle esigenze tecniche, organizzative e produttive manifestatesi nel perimetro
aziendale della prima società; ciò tanto più in considerazione del fatto che la
lavoratrice non aveva neppure allegato e provato l’utilizzo promiscuo della sua
prestazione da parte delle due società; in ogni caso, anche a voler considerare
le esigenze tecniche, organizzative e produttive in questione nell’ambito
dell’intero gruppo M.F./A.I., la scelta dei dipendenti da licenziare non poteva
che avvenire all’interno del solo personale navigante di M.F.; le due società,
infatti, avevano mantenuto strutture autonome, dotate di propri beni, risorse,
licenze di esercizio ecc. e la struttura in crisi che aveva generato gli
esuberi sin dal 2011 era quella facente capo a M.F.; al fine della
configurabilità di un unico centro di imputazione non poteva prescindersi,
oltre che dai parametri rappresentati dalla unicità della struttura
organizzativa e produttiva, dalla stretta connessione funzionale tra imprese,
dal coordinamento tecnico-amministrativo e finanziario tale da individuare un
unico soggetto direttivo che faceva confluire le diverse attività delle singole
imprese verso uno scopo comune, nonché dall’ulteriore parametro rappresentato
dall’utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle
varie società titolari di distinte imprese; nel caso in esame era mancato l’accertamento,
e ancor prima l’allegazione e prova della circostanza che la prestazione della
lavoratrice fosse stata svolta in favore di entrambe le aziende;

3. con il terzo motivo di ricorso deducono
violazione degli artt. 2359, 2947 e segg. cod. civ., degli artt. 776 e 779 cod.
nav. nonché del Regolamento europeo n. 859/2008 (capo C) OPS 1.185 punto 5 e
Appendice 2 dell’OPS 1.175 punti a) e b), del Regolamento europeo n. 1008/2008,
art. 2 (nn. 1, 8 e 25), art. 3 (n. 2), art. 4 punto e), del Regolamento Europeo
n. 965 del 2012 – Allegato 3 Capo CC Sezione 1 ORO. CC. 125; il giudice di
appello ha trascurato di considerare che nel settore aeronautico, governato da
pregnanti e minuziose disposizioni normative contenute, tra l’altro, nei
suddetti Regolamenti, era impossibile, sia di fatto che di diritto, che il
servizio di trasporto aereo fosse svolto da due società attraverso una
struttura aziendale unitaria con uso promiscuo dei naviganti e dei responsabili
delle varie attività; neppure poteva essere valorizzato nel senso
dell’unitarietà della struttura l’utilizzazione dell’aeromobile mediante
contratti di wet lease, circostanza che non implicava alcuna confusione tra le
separate strutture organizzative facenti capo alle società;

4. con il quarto motivo di ricorso deducono
violazione degli artt. 2697 e 1321 cod. civ., dell’art. 115 cod. proc. civ. e
dell’art. 30 d. lgs. n. 276/2003, censurando la sentenza impugnata sul rilievo
che l’utilizzo dell’istituto del distacco e l’utilizzo del job posting –
quest’ultimo caratterizzato dalla risoluzione consensuale del contratto di
lavoro con (la allora) M.F. e dalla successiva assunzione alle dipendenze di
A.I. s.p.a., mai impugnate dai lavoratori – escludevano l’uso promiscuo della
forza lavoro; nella sentenza impugnata era mancata una attenta disamina
sull’utilizzo comune e promiscuo delle risorse lavorative, elemento
imprescindibile per pervenire alla configurazione di un unico centro di
imputazione del rapporto; era inoltre da escludere che con il distacco si
realizzasse, in contrasto con la previsione dell’art. 30 d.lgs n. 276/2003,
un’ipotesi di uso comune e promiscuo del dipendente;

5. con il quinto motivo di ricorso deducono
violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4 , l. n. 300 del 1970, per
avere il giudice di appello escluso la detraibilità dell’aliunde perceptum e
dell’aliunde percipiendum dall’indennità risarcitoria; tale esclusione era
frutto dell’errata interpretazione dell’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, nel
testo novellato dalla l. n. 92/2012, con il quale il legislatore aveva inteso,
in applicazione del principio civilistico della compensatio lucri cum damno,
evitare un ingiusto arricchimento del soggetto leso e sterilizzare gli effetti
di una durata anomala del processo; alla luce del mutato contesto normativo
l’aliunde perceptum e l’aliunde percipiendum non si configurano come oggetto di
eccezione della quale è onerata la parte datrice ma quali fattori
indispensabili per la quantificazione della indennità dovuta, elemento
imprescindibile per la stessa affermazione della sussistenza di un danno
risarcibile; la Corte di merito ha inoltre errato, in contrasto con il dato
letterale e la ratio ispiratrice della norma, nel ritenere che compensi
percepiti per periodi di ridotta durata non potessero intaccare il limite
risarcitorio massimo delle dodici mensilità con la conseguenza di avere, in tal
modo, determinato in concreto la trasformazione di tale limite massimo in un
limite minimo irriducibile;

6. preliminarmente deve rilevarsi che la rinuncia al
ricorso è rituale e rispondente ai requisiti di cui all’art. 390 c.p.c., poiché
formulata in atto univocamente abdicativo, sottoscritto dalle ricorrenti e dai
loro difensori, sicché deve trovare applicazione l’effetto estintivo ex art.
391 c.p.c. (Cass. 27746/2021);

7. essa è produttiva di effetti in quanto
ritualmente notificata, anche se non espressamente accettata dalla parte
controricorrente, poiché nel giudizio di cassazione – diversamente da quanto
previsto dall’art. 306 c.p.c. – non è richiesta l’accettazione delle altre
parti, trattandosi di atto unilaterale recettizio ma privo del carattere c.d.
“accettizio” (che richiede, cioè, l’accettazione della controparte per essere
produttiva di effetti processuali: Cass. 3971/2015, 9857/2011, 21894/2009, 28675/2005),
esigendosi solo che sia notificata alle parti costituite o comunicata ai loro
avvocati che vi appongono il visto (Cass. Sez. U, 3876/2010; Cass. 266/2019,
2259/2013), con conseguente passaggio in giudicato del provvedimento impugnato
e venir meno dell’interesse a contrastare l’impugnazione (Cass. Sez. U,
1923/1990; Cass. 23840/2008, 4446/1986);

8. gli adempimenti previsti dall’art. 390 c.p.c.
sono invero finalizzati solo ad ottenere l’adesione della controparte per
evitare la condanna alle spese del rinunziante (Cass. 27359/2021, 2317/2016),
poiché il quarto comma dell’art. 391 c.p.c. prevede che la condanna alle spese
non è pronunciata se alla rinuncia hanno aderito le altre parti personalmente o
i loro avvocati autorizzati con mandato speciale (Cass. 27082/2021,
23113/2021), là dove il secondo comma stabilisce che, in assenza di
accettazione, la sentenza che dichiara l’estinzione può condannare alle spese
la parte che vi ha dato causa (Cass. 31173/2021);

9. nel caso di specie, non essendovi accettazione
della rinuncia (il controricorrente, come visto, non si è opposto, senza però
aderirvi esplicitamente e senza fare riferimento ad una eventuale accettazione
della compensazione delle spese di lite, delle quali ha anzi chiesto la
liquidazione), deve farsi luogo al regolamento delle spese processuali del
presente giudizio in base al principio di causalità, per cui grava sul
rinunciante il rimborso delle spese sostenute dalle altre parti (Cass.
10396/2021);

10. del resto, anche applicando il principio della
soccombenza virtuale le spese dovrebbero gravare sulle ricorrenti, alla luce
della giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 3825/2022, Cass. n. 3824/2022;
Cass. n. 35585/2021; Cass. n. 34561/2021) secondo cui è stata ritenuta la
configurabilità di un unico soggetto datoriale tra le ricorrenti, con ogni
conseguenza in tema di coinvolgimento dei lavoratori da licenziare e dei
relativi criteri di scelta, nonché sulla questione della non detraibilità
dell’aliunde perceptum o percipiendum dall’indennità risarcitoria riconosciuta
nella misura di dodici mensilità per l’accertata illegittimità del
licenziamento;

11. in conclusione, il processo di cassazione va
dichiarato estinto e le spese vanno poste a carico delle rinunzianti, nella
misura liquidata in dispositivo, con distrazione in favore degli avvocati A.B.
e M.L., difensori di parte controricorrente dichiaratisi antistatari, nulla
disponendo per l’intimata che non ha svolto attività difensiva e senza alcuna
statuizione in tema di condanna al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del
2002, non sussistendo i relativi presupposti processuali.

 

P.Q.M.

 

Dichiara estinto il giudizio.

Condanna le ricorrenti alla rifusione delle spese
del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000 per compensi, € 200 per
esborsi, 15% spese forfettarie, oltre accessori di legge, da distrarsi.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 maggio 2022, n. 16635
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