Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 maggio 2022, n. 19876
Procedura di emersione dal lavoro irregolare, Falsa
documentazione reddituale funzionale al buon esito della procedura,
Responsabilità penale del ragioniere commercialista
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello
di Firenze confermava la decisione di primo grado, con la quale A. G. G. era
stato dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 5, comma 15, prima parte, d.lgs.
16 luglio 2012, n. 109, per avere, in qualità di ragioniere commercialista,
concorso alla presentazione all’Agenzia delle entrate – per conto del
coimputato M. E., e nell’ambito della procedura di emersione dal lavoro
irregolare, regolata in via transitoria dal medesimo testo legislativo,
riguardante il fratello di lui, R. E. – di falsa documentazione reddituale,
funzionale al buon esito della procedura medesima.
2. A. G. G., assistito dal difensore di fiducia,
ricorre per cassazione sulla base di due motivi.
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione
di legge e vizio della motivazione, in punto di valutazione della prova
indiziaria esistente a suo carico, che sarebbe priva dei caratteri richiesti
dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen.
Non vi sarebbero elementi concludenti per sostenere
la falsità della documentazione in parola, di cui il professionista non
avrebbe, in ogni caso, avuto contezza alcuna.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione
di legge e vizio della motivazione, in punto di recidiva e attenuanti
generiche. Gli sarebbe stata applicata, sin dal primo grado, la recidiva
prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen.
(reiterata, infraquinquennale), anziché quella, ritualmente contestata, di cui
all’art. 99, terzo comma (specifica,
infraquinquennale). Non sarebbe stato giustificato il diniego delle attenuanti
generiche.
3. Il giudizio di cassazione si è svolto a
trattazione scritta, ai sensi dell’art.
23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile,
perché manifestamente infondato.
Le fatture, emesse dall’impresa E. e trasmesse
dall’imputato, per conto di lui, all’Agenzia delle entrate, erano
ideologicamente false, e sul punto vi è prova storica convincente,
adeguatamente illustrata dalla sentenza impugnata.
Dai controlli effettuati, sui quali ha testimoniato
in dibattimento il funzionario di polizia loro autore, è infatti risultato come
le fatture in discorso fossero rappresentative di prestazioni e incassi
inesistenti; esse non risultavano affatto registrate nella contabilità delle
imprese destinatarie delle medesime, alcune delle quali neppure più operative.
Del fatto, poi, che l’imputato fosse consapevole
della falsità delle fatture la Corte di appello fornisce prova logica,
parimenti ineccepibile. L’imputato era il professionista che curava la
contabilità sia dell’impresa di E., sia delle imprese destinatarie; egli sapeva
bene, in tale veste, che tra di esse non erano intervenuti rapporti commerciali
di alcun genere.
2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile,
perché le questioni sottese non risultano prospettate nei motivi di appello.
Occorre precisare che non può essere, di per sé,
denunciata per la prima volta mediante ricorso per cassazione, né è rilevabile
d’ufficio, ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod.
proc. pen., la violazione del principio di correlazione fra accusa e
sentenza (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, Bonaffini, Rv.
256631-01), neppure se riguardi profili circostanziali incidenti sulle
modalità, non incise da modifiche normative, di calcolo di una pena che sia
fissata entro i limiti edittali.
In tal caso, infatti, la pena complessivamente
irrogata all’imputato non può considerarsi illegale (da ultimo, Sez. 2, n.
46765 del 09/12/2021, Bruno, Rv. 282322-01); per tale dovendosi intendere la
sola pena concreta che, in sé e rispetto ai passaggi intermedi di calcolo,
legati anche al riconoscimento della recidiva, fuoriesca dai minimi e massimi
legali (Sez. 6, n. 20275 del 07/05/2013, M., Rv. 257010-01), come nella specie
non è avvenuto.
Quanto alle attenuanti generiche, il tema non può
formare oggetto di ricorso ove l’imputato, nell’atto di appello, o almeno in
sede di conclusioni del relativo giudizio, non ne abbia formulato richiesta
(Sez. 3, n. 10085 del 21/11/2019, dep. 2020, G., Rv. 279063-02), che nella
specie non risulta.
3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso
consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.,
la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – per i
profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost., sentenza n. 186 del 2000) – di una somma in favore
della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte,
si stima equo determinare in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle ammende.